Frantic Fest @Tikitaka Village – Francavilla al Mare (CH), 18/19/20 agosto 2022
Il 28/08/2022, di Francesco Faniello.
Non lo nego: oltre al bill denso di chicche, la molla che mi ha spinto verso l’edizione 2022 del Frantic è stata la pura e semplice curiosità. Curiosità per un festival che in breve tempo si è affermato come un appuntamento rinomato e irrinunciabile, non solo per i fan del Centro/Sud Italia ma anche per chi proviene dalle regioni del Nord, storicamente più “servite” da concerti e kermesse varie. Aggiungerei poi una particolarità che salta all’occhio alla vista della scaletta dei tre giorni, ossia la varietà dei gruppi proposti. Attenzione, non intendo semplicemente la varietà di generi (un elemento comunissimo all’estero, ma che in Italia è spesso visto come un tabù, con tanto di anatemi e vesti stracciate) ma anche un gradito livellamento dal punto di vista del (presunto) blasone, che vede gruppi emergenti (e per inciso interessantissimi) coraggiosamente affiancati ai nomi storici che in genere fanno bella mostra di sé nei piani alti del cartellone.
Due parole sull’atmosfera del Frantic le posso spendere? In uno scenario dominato dal progressivo ritorno della musica dal vivo, la combinazione tra attenzione alle “nuove proposte” e attenzione a non spennare i convenuti mantenendo prezzi “popolari” per quanto possibile mi ha fatto pensare a uno spirito DIY che sembrava perduto nelle sabbie del tempo, almeno a leggere le cronache di quanti hanno trovato situazioni poco gradevoli in giro per lo Stivale. Oltre a fare facili parallelismi col Distruggi La Bassa, qualcosa di questi giorni mi ha riportato alla mente il mitico Rumble Fish di Fasano (punto di riferimento per punk, HC e noise tra fine anni ’90 e inizio anni 2000), specie per la vicinanza al mare di entrambi i festival, caratteristica molto apprezzata dalle band e dagli astanti.
Day 1
Sembra detto tanto per dire, ma non poteva esserci accoglienza migliore del set degli Oreyeon per aprire il Frantic. Grossi e lisergici, con un cantato che a tratti mi ricorda i Fudge Tunnel, privo però delle asperità di Alex Newport. Il tempo di capire il meccanismo di passaggio tra small stage e main stage (piuttosto fluido, in realtà) che veniamo catapultati immediatamente in una dimensione totalmente differente. I Messa salgono sul palco e l’effetto straniante è lo stesso che devono aver provato quanti hanno avuto occasione di vedere gli Slayer di giorno, tipo a Donington ’95. Parte ‘Rubedo’ seguita dalla ballata asiatica ‘Dark Horse’, lasciando i tanti accorsi per celebrare il quartetto con il naso per aria, proprio mentre le prime note di ‘Suspended’ calano sul pubblico, in una sorta di ‘Roads’ portisheadiana in versione noir che cattura definitivamente anche i più scettici, stretti tra la morsa officiante della voce declamatoria di Sara e la proteiforme sei corde di Alberto, entrambi ben sostenuti da una sezione ritmica mai scontata. Che da queste parti siamo parziali nei confronti del quartetto veneto, ve ne sarete accorti già in sede di recensione; un’intervista di prossima pubblicazione servirà a ribadire il concetto (potete trovare qui un’anteprima). In ogni caso, il set dei Messa si colloca da subito tra i momenti più iconici dell’intero Frantic, anche laddove lascia spazio ai singoli ‘Leah’ e ‘Pilgrim’, quest’ultima introdotta da ‘Hollow’ come avviene in studio, nel tipico stile privo di compromessi dispiegato dalla band.
Aspettate, ho già usato l’aggettivo “lisergico”? Devo qui ripetermi perché i Naga lo meritano di diritto, anche se su coordinate differenti, ammantate di nero e di pessimismo cosmico. Ciò che costituisce un ponte con il marciume che piace a noi è uno stile vocale alla Mondo Generator, sofferto e alienato allo stesso tempo… e se parliamo di stoner/doom, come non citare gli Ufomammut? La loro presenza nel bill del Frantic è la giusta consacrazione di una carriera senza compromessi che li ha visti affermarsi non solo come una delle realtà nostrane più credibili in quell’area grigia tra psichedelia e metallo, ma anche come una macchina da guerra sul palco, forti qui della pubblicazione del nono capitolo in studio, l’incredibile ‘Fenice’. Tocca ai Nero Di Marte e mi piacerebbe dirvi che sia calata la nebbia per davvero, ma è solo l’umidità che si fa oppressiva, tanto quanto il pattern disperato e lacerante delle loro linee vocali, il cui accostamento con assoli di chitarra dal sapore math è tanto ardito quanto funzionale alle atmosfere ricercate. Per un attimo penso assurdamente ai Pink Floyd di ‘Ummagumma’, solo per assistere poco dopo all’esecuzione di ‘Sisyphos’ e vedere ben chiara nella mia mente, in un accostamento impossibile condito dall’umidità incipiente, il collegamento tra il rumorismo di Waters e soci e l’oscurità chirurgica dei Nostri. Nomen omen… e a proposito di destino (nei monicker), che dire di un certo trio americano dal nome Nebula? Eddie Glass si presenta da subito con una bandana improbabile, e i paralleli con Syd Barrett si sprecano, anche e soprattutto per via dell’alto tasso psicotropo raggiunto durante un’esibizione che lascia il segno: batteria articolata, assoli a profusione e non solo aderenti agli stretti dettami dello stoner rock, che incoronano Glass come uno dei grandi mattatori del festival. E non poteva essere altrimenti, con una scelta di pezzi che vanno dall’ultimo ‘Transmission From Mothership Earth’ (‘Wilted Flowers’ e ‘Warzone Speedwulf’, con una batteria che picchia che è una bellezza), al disco della rinascita ‘Holy Shit’ (la delirante ‘Man’s Best Friend’ e i suoi rassicuranti treble a zero!), fino a ‘You Mean Nothing’, con le sue sonorità tipicamente Sub Pop che ci rispediscono dritti al 1999, quando tutto ebbe inizio. Il resto lo fanno i video sparati senza soluzione di continuità, tra suggestioni sixties e affezioni desertiche, nonché l’anelito poliedrico del mastermind, che non manca di deliziarci, rimasto solo sul palco a fine setlist, sia alla chitarra che alla batteria, in un momento grunge che più grunge non si può. Non era forse questo, che tutti noi ci attendevamo dai Nebula? A giudicare dal pubblico coinvolto e rispedito direttamente indietro di trent’anni al Loollapalooza o a Reading, direi di sì.
L’arrivo dei Nebula nel bel mezzo della maratona lascia la crew del Martello decisamente provata e segnata, tanto da assistere all’esibizione degli OvO a distanza… di bar. Un distacco solo fisico che non toglie nulla all’efficace rumorismo del duo; per un incontro faccia a faccia sarà per la prossima.
Chi di rumori se ne intende a livello industriale è la premiata ditta Justin Broadrick / G. C. Green, puntuale come il caos organizzato figlio dei grigi quartieri di Birmingham e pesante come un macigno quando si tratta di colpire a tarda notte, come in questo caso. L’ultima volta che avevo incrociato i Godflesh era stato nel tour di ‘A World Lit Only By Fire’, un disco se possibile più “accessibile” (e qui due virgolette sono davvero poche) anche ai timpani di chi non è esattamente avvezzo all’industrial. Ecco, la calata abruzzese del duo ci presenta una situazione capovolta, in linea con le atmosfere incattivite dell’ultimo ‘Post Self’, per non parlare dell’imminente nuovo disco in preparazione. La voce di Broadrick è poco più che un rantolo infernale, le immagini ossessive sono l’ennesima dimostrazione dell’assunto bonelliano per cui se guardi per troppo tempo l’abisso sarà esso a guardare dentro te.
Day 2
La furia degli elementi si è scatenata a vario titolo sul Tikitaka, con l’effetto di uno slittamento sui tempi che fortunatamente non andrà a incidere sui tempi a disposizione delle band. In tutto ciò, tocca agli Spoiled aprire il secondo giorno e lo fanno con i loro ritmi crusteggianti alla Youth Attack conditi da decise bordate crossover thrash e cori NYHC. Decisamente da tenere d’occhio, qui purtroppo penalizzati da un sound esterno ancora in via di definizione. Si cambia decisamente orizzonte con gli Ereb Altor, che hanno modo di sciorinare la loro svedesità fino al midollo sin dal soundcheck (con graditi accenni di ‘The Well Of Souls’ e ‘Mirror, Mirror’ dei Candlemass a testimoniare le origini doommeggianti di cui chiederemo conto in una chiacchierata successiva). L’epicità vichinga trasuda da tutti i pori, senza bisogno di archi e cornamuse (un’integrità di cui vanno parecchio fieri, a quanto pare), con l’esibizione che si snoda alla vecchia maniera, sotto il segno di Odino e… di Quorthon, ovviamente. I Bathory aleggiano in più punti, anche nelle scelte narrative che riguardano – neanche a dirlo – le incursioni dell’Inquisizione nelle terre scandinave, e che risentono di uno stile vocale un po’ “sforzato” che stride inevitabilmente con l’effetto ricercato. O forse no… chissà.
Comunque sia, lo slittamento di scaletta permette ai Tenebra di esibirsi col favore dell’oscurità, e non è solo un gioco di parole. Il quartetto bolognese si conferma una delle realtà live più convincenti degli ultimi anni, trainato com’è dalla vocalità impetuosa della singer Silvia e dalle trame ora intricate ora groovy dei tre strumentisti. Se siete scettici o semplicemente esitanti in fatto di retro rock, probabilmente un’esibizione dei Tenebra è quello che vi ci vuole per ricredervi, con la coppia di attacco ‘Heavy Crusher’ / ‘Cracked Path’ che si sussegue lasciando il giusto respiro tra le dinamiche (come abbiamo avuto modo di approfondire in una successiva chiacchierata con la band), nonché l’incredibile cover di ‘Primitive Man’ dei Jerusalem con Giorgio degli Assumption ospite al flauto traverso.
Tutt’altro schema di gioco è quello dispiegato dai veterani finlandesi Demilich e il loro death metal di scuola Stoccolma, con derive sandovaliane che fanno felici tutti gli amanti del versante americano del Suono di Morte. Ottima esibizione, ma… non sarà che neanche più David Vincent annunciava i pezzi col growl, dopo un po’?
Ecco, dopo tanta energia di segno variegato l’esibizione dei Bedsore mi ha lasciato piuttosto sbigottito. Come è giusto che sia, immagino: pensate a una repentina iniezione di oscuro prog settantiano con la Flying V e le tastiere Trilogy a giganteggiare per un tempo indefinito. Pensate poi a questo tappeto che lascia repentinamente spazio a un death talmente pomposo da sconfinare nel black, per poi rientrare nel guscio come un gasteropodo impertinente e lasciare spazio a un duello di chitarre. I casi sono due: o è genio o è un’allucinazione e basta, avevo puntato la cassetta al banchetto ma non sono stato abbastanza veloce e capirò il tutto in un futuro non si sa quanto lontano. Certo è che probabilmente una dimensione più raccolta rispetto al modello open air avrebbe favorito un maggiore amalgama di suono, agevolando le mie capacità di comprensione: pazienza (ma un plauso agli strumentisti…). E a proposito di riconoscimenti, devo dire che i Fleshgod Apocalypse non sono mai stati esattamente la mia tazza di tè, se cogliete la mia sottile allusione; eppure, tanto di cappello alla maestria di chi ha fatto del raggiungimento di determinati traguardi il proprio obiettivo. Così, al netto degli eccessi, del grand guignol spesso evocato e ancor più spesso messo in musica, delle orchestrazioni, degli inserti operistici a tinte forti e dei suoni di batteria tutt’altro che vintage, Francesco Paoli e i suoi dimostrano in un’ora quale sia la carta che hanno giocato in un panorama metal internazionale che li ha accolti (neanche a dirlo) ancor meglio di quanto abbia fatto il Bel Paese. Con esiti inattesi, tra l’altro: una forte interazione col pubblico (memorabile la dedica a Er Magnotta) anche da parte della soprano Veronica Bordacchini, nonché l’invito a dedicarsi al pogo e al circle pit. Il tutto coronato da una versione dell’anthemica ‘Sugar’ che ha convinto anche i più scettici.
Personalmente, grande era l’attesa per gli Assumption, avendo seguito da vicino molti dei trascorsi di vari membri della band (Haemophagus, Gravesite e gli stessi Tenebra, solo per citarne alcuni). Certo è che il loro funeral doom ha nette venature floydiane, ma non quanto mi aspettassi. Non che sia un male, intendiamoci; anche perché la formula si compone anche di decise sfuriate che in questo genere non fanno mai male. Una cosa è certa, in ogni caso: come per i Bedsore, necessitano di un ascolto “in studio” per avere un quadro più completo (toccherà recuperare al più presto il loro ‘Hadean Tides’), relativamente a una formula sicuramente affascinante ma di non immediata fruizione.
Con tutte le tempistiche traslate, siamo giunti a notte fonda agli headliners, i Benediction! L’orario non sembra preoccupare Dave Ingram e soci, col singer britannico che arringa la folla chiedendo conto sulla conoscenza dell’ultimo, incredibile ‘Scriptures’ da parte della stessa! Un set asciutto e senza fronzoli, ben bilanciato tra le cose più nuove e il passato rappresentato da dischi come ‘Transcend the Rubicon’, il tutto portando avanti la bandiera della via albionica al death metal, tanto lontana dalle melodie agrodolci svedesi e dal tecnicismo floridiano quanto vicina al marciume crust/punk dei cugini Napalm Death. E scusate se è poco…
Day 3
CI sono quei momenti in cui si ha il fondato dubbio che il venue del concerto si sia tramutato in uno stadio, o qualcosa di simile. Succede quando all’arrivo è già iniziato il set dei Plakkaggio, con la loro ‘Verso la vetta’ che si confonde abilmente con un qualsiasi estratto dal ‘Live in the UK’ degli Helloween, con il bassista storico Chris Nunnos sul palco a rappresentare apparentemente il Mauro Repetto del caso, per poi imbracciare un secondo basso alla prima occasione! Gli alfieri della New Wave Of Black Heavy Metal Oi! sciorinano la loro setlist passando da ‘Birra in lattina’ a ‘Ziggurath’ (la cui citazione di ‘Holy Wars’ mi stende definitivamente) fino alla cover della cover della cover ‘I nostri anni’. Non ho ancora capito quanto io riesca a prenderli sul serio o quanto sia inutile farlo, e con questo interrogativo si passa dal calderone di Colleferro al death metal tutto sommato canonico degli Hyperdontia. Il terzo giorno del Frantic sembra quello più eterogeneo, anche se si fa decisamente fatica ad affibbiare ai due precedenti l’etichetta “stoner” o “death”, ed eccoci sotto il palco dei 40 Watt Sun, che in onore al loro monicker presentano un sound tenue e soffuso che lascia una parte dei presenti sbigottiti, mentre ne catalizza inevitabilmente un’altra parte. Nella fusione del momento mi dico che fanno pensare a Bob Corn, più realisticamente gli accordi secchi di Patrick Walker richiamano il giro Icons Creating Evil Art, roba del calibro dell’eterea Louise Lemon. È tempo di death’n’roll e i Whiskey Ritual non si fanno pregare, mettendo su uno show ad alto tasso di rock’n’roll che convince anche i più restii a buttarsi nella mischia. Attenzione, a un cambio palco di distanza c’è chi il rock’n’roll estremo ha contribuito a sistematizzarlo, il signor Paul Caiafa alias Wolfgang Doyle Von Frankenstein… l’omonimo quartetto alza il livello di testosterone con il suo carrozzone orrifico e le chitarre reminiscenti del periodo novantiano dei Misfits, senza però a mio parere conservarne la verve melodica che era il punto di forza di quella reunion, né indulgere fino in fondo sull’estremismo di matrice ‘Earth AD’. Attenzione, non sto recriminando l’assenza dei pezzi storici dei progenitori di Lodi, NJ dalla setlist: dico solo che la proposta in sé non mi ha convinto, nonostante il singer Wolfman si sforzasse di declamare “this next song is a love song, you can dance to it if you want” a ogni nuovo mancato epigono di ‘Hollywood Babylon’. Forse non saprò mai quanto i transfughi della diaspora Misfits si prendano sul serio; quello che è certo è che a non farlo sono gli Horror Vacui, nonostante un muro di suono marcatamente goth/wave e un’attitudine solida e figlia (ancora una volta) delle radici punk. La poetica tongue-in-cheek del singer Koppa tiene banco, e a fare il resto ci pensano gli intrecci delle chitarre che fanno piombare l’audience in una trance ipnotica simil londinese – l’intera rappresentativa di Metal Hammer era sotto il palco a ballare, posso confermarlo! Il tempo di una breve chiacchierata nel backstage con gli Horror Vacui ed è già l’ora di lasciare la scena al Maestro, Claudio Simonetti in persona! I Goblin del 2022 sono una band che non lesina bordate heavy, complici le origini della sezione ritmica Nappi/Marangoni e i virtuosismi dell’axeman Daniele Amador, senza però dimenticare che al centro della scena di sono i tasti d’avorio che accompagnarono nella leggenda i capolavori di Dario Argento e George Romero. Come è Simonetti stesso ad annunciare, la scaletta si sofferma molto sulle soundtrack horror (‘Dawn of the Dead’, ‘Suspiria’ e ‘Il Cartaio’ ne sono esempio) lasciando comunque ampio spazio agli emersonismi del mastermind, vera chicca di uno stile apprezzato in tutto il mondo. La ciliegina sulla torta è la magistrale esecuzione di ‘Profondo Rosso’, che vede gli astanti in visibilio dinanzi a un simile pezzo di Storia eseguito proprio davanti ai loro occhi.
Ora, suonare dopo i Goblin può far impallidire chiunque, ma non i Raw Power. Perfettamente a loro agio, con uno show incentrato sostanzialmente su ‘Screams from the Gutter’ – suonato per intero, a partire da ‘We’re All Gonna Die’ per giungere all’inno ‘State Oppression’ verso la fine della scaletta – i quattro si confermano veterani da palcoscenico, riuscendo ancora una volta a emozionare anche chi come me li aveva intercettati più volte dal vivo. Tra gli inserti extra, vanno segnalati ‘Still Screaming’, ‘We Shall Overcome’, ‘Mine To Kill’ (come annunciato in una cordialissima chiacchierata pre-concerto!), ‘You Are The Victim’, una versione al fulmicotone di ‘Ace Of Spades’ e soprattutto ‘Fabbrica’, corredata dalla classica introduzione dedicata ai compagni di lavoro… personalmente, le leggende dell’hardcore/punk sono il sipario perfetto per il Frantic Fest e per una maratona simil-Mentana che ha visto protagonisti me, novello Celata, Federica nei panni della Sardoni, Herr Direktor Alex alias “è un bel direttore” nel ruolo caro a Cairo e soprattutto l’infaticabile e “mentaniana” conduttrice in studio (nonché neo caporedattrice!) Maria Teresa. Su il Martello e alla prossima puntata!