Rock The Castle Day 1-2 @ Villafranca, Verona, 24-25 giugno 2022
Il 01/07/2022, di Alex Ventriglia.
Giusto una settimana fa, scattavano le ostilità di quello che, a tutti gli effetti, ha fieramente raccolto l’eredità degli oramai celeberrimi Monsters of Rock e Gods of Metal, Open Air Festival che per primi “sdoganarono” in Italia l’hard’n’heavy, genere musicale fin troppo spesso condannato e sbeffeggiato dalla cosiddetta “massa che conta”, ma che ha potuto sempre contare sulla fedeltà dei suoi appassionati, i quali, specialmente in tempi non sospetti, affollavano a decine di migliaia queste indimenticabili kermesse estive in onore del proprio credo metallico.
Il Rock the Castle di Villafranca di Verona può fregiarsi dell’investitura più nobile e prestigiosa, rinvigorendo il proprio blasone con un’edizione 2022 rinfrancata sia dalla buona partecipazione di pubblico (oltre ventimila le presenze raccolte nei giorni del 24, 25 e 26 giugno), ma soprattutto da gruppi storici che più storici non si può e che hanno letteralmente sbancato, con performance incredibili e che hanno potuto beneficiare di una grande qualità sonora, cosa affatto scontata e mai sempre garantita a certi livelli, volumi giusti e con la potenza messa a pieno regime han fatto sì che il “dazio” fosse riscosso ed equamente ripartito, nell’economia della resa sonora, e con somma soddisfazione di tutti. Ma riavvolgiamo il nastro e andiamo con ordine, ripercorrendo sul momento i passi salienti delle prime due giornate…
Venerdì 24
I primi, a raccogliere le ovazioni del pubblico, nella giornata inaugurale del 24, sono uno tra i gruppi italiani più amati, specie per chi fa dell’oltranzismo death metal la propria regola di vita: i Sadist, spronati dalla grinta “old school” di Trevor e dal “machiavellismo” tecnico di Tommy Talamanca, aizzano subito la folla con un pugno di canzoni, ma ben assestato nel far prontamente male, dall’opener ‘Accabadora’, estratto dal nuovissimo, formidabile full-length album ‘Firescorched’, alla finale ‘Tribe’, antico cavallo di battaglia da sempre nel cuore dei vecchi (e nuovi) fans del quartetto ligure, che “bagna” così la terza edizione del Rock the Castle, probabilmente la più sofferta e attesa in assoluto dopo l’incubo Covid-19 dal quale fatichiamo ad uscire ancora oggi…
Pancia al vento e corna dirette al cielo in onore di papà Odino, i Grand Magus spingono anch’essi a tutta birra sull’acceleratore, esplodendo un set abrasivo tutta sostanza e zero fronzoli, grazie a brani d’impatto e sempre ultra coinvolgenti, è il caso di ‘Gold And Glory’, di ‘I, The Jury’, di ‘Raven Guide Our Way’, o del tempestuoso ‘Sword Of The Ocean’, unica concessione da ‘The Hunt’, album che il sottoscritto ha letteralmente consumato. Roccioso three-piece di Stoccolma che gode di discreta familiarità con i nostri palchi (dei Grand Magus ricordo uno show a Milano insieme agli Angel Witch), sempre seguito con grande calore dagli appassionati italiani, e a Villafranca si capisce una volta di più il perché. Una corroborante sferzata di energia, il giusto toccasana per affrontare una giornata caldissima, ma fortunatamente ventilata.
Pur non godendo dei favori dell’oscurità, l’atmosfera ideale per affacciarsi sull’orrore glorioso e millenario spalancato da Steve Sylvester e i suoi Death SS, la storica band italiana fa il suo ritorno live dopo il clamoroso show del 15 aprile al Live di Trezzo, in cui netta e prepotente fu la presa di posizione da parte di un gruppo che è pura leggenda. Che anche a Villafranca durante la terza edizione del Rock the Castle sfoggia il suo arcano potere, elargito a piene mani dal carismatico frontman e da una coriacea nuova line-up che fila che è una bellezza, sempre più coesa e integrata e in cui il grande lavoro alle tastiere dello storico Freddy Delirio funge anche da collante tra le parti, in uno spettacolo livido e crepuscolare che riporta in auge brani raggelanti, catacombali, della portata di ‘Cursed Mama’, ‘Horrible Eyes’, ‘Chains Of Death’, della tambureggiante ‘Kings Of Evil’, di ‘Zora’, brano principe del nuovissimo album ‘Ten’, durante il quale la band chiama sul palco la protagonista, la provocante, bellissima Fiona White, in questo sentito omaggio a Zora la Vampira, personaggio ideato negli anni Settanta dal fumettista Renzo Barbieri, che, probabilmente, i più attempati e maliziosi di noi senz’altro conosceranno.
Sfacciato e predominante, il nero vessillo sul quale campeggia il ghigno sardonico del diavolo più popolare a queste latitudini sventola alto e orgoglioso, nell’oscura e blasfema “lectio magistralis” offerta da Cronos e soci, vale a dire il suggestivo ritorno dei Venom nella forma forse a noi più gradita e familiare, quella con Conrad Thomas Lant dietro al microfono, frontman originario e simbolo stesso di questa mitologica band nata a Newcastle oltre quarant’anni fa. Un autentico viaggio nell’incubo, a ritroso nel tempo ripercorrendo autentici capolavori del metal estremo, dall’iniziale ‘Black Metal’, che quasi spiazza la maggioranza del pubblico perché non previsto in apertura, a ‘Buried Alive’, da ‘Bloodlust’ a ‘Countess Bathory’, da ‘Welcome To Hell’ a ‘In Nomine Satanas’, i classici ci sono bene o male tutti, e notevoli suonano anche gli “estemporanei” ‘Long Haired Punks’ e ‘Bring Out Your Dead’. Cronos, stempiatura record e sguardo malefico, ringhia velenoso come ai bei tempi che furono, e noi, eternamente devoti, ringraziamo per tanta grazia, di color nero fuliggine ovviamente. ‘Witching Hour’ e ‘In League With Satan’ indicano, definitivamente, la via maestra, e a noi vecchietti che con i Venom ci siamo cresciuti, scende più di una lacrima di nostalgia…
Seppur fuori contesto in una giornata interamente votata al metal estremo, meglio se tinto di nero e stretto debitore al maligno, i Blind Guardian da Krefeld restano sempre e comunque formazione idolatrata dai kids italiani, frega poco se questi si dicano legati o meno all’ortodossia metal più intransigente, fatto sta che Hansi Kursch & Co. sono da sempre una band di grande affidabilità, specie sulle assi di un palcoscenico, e lo spettacolo all’interno del Castello Scaligero si rivela magico! Il quintetto tedesco, meravigliato dal contesto e dalla suggestiva location medievale, ripaga i presenti con uno show a dir poco speciale durante il quale suona praticamente per intero ‘Somewhere Far Beyond’ (album che fece la fortuna della band e che, non dimentichiamolo, proprio in questi giorni festeggia il suo trentennale, e a Villafranca tuonano forte ‘Journey Through The Dark’, ‘The Quest For Tanelorn’ e ‘The Bard’s Song’, le canzoni maggiormente indiziate a fare la parte del leone), senza tralasciare le immancabili ‘Mirror Mirror’ e ‘Valhalla’, meravigliosa coppia finale con cui i cinque salutano un pubblico in visibilio, forse anche sorpreso dalla voglia e dal coinvolgimento dimostrati dai Blind Guardian, fautori di un concerto magnifico.
Ma, ed è opinione sempre più diffusa, che i gruppi e gli artisti stessi si sentano finalmente liberi di esprimersi, seppur con qualche strascico pandemico ancora rimasto, e quando hanno modo di salire sul palco, laddove hanno sempre sognato di essere, facendo una precisa scelta di vita, questi alla fine diano tutto sé stessi, con una passione e una contentezza che non possono non lasciare indelebilmente un segno, almeno questo è quanto mi sta attualmente capitando di vivere, girovagando per Festival e concerti tra Italia ed estero, e, sinceramente, tutto questo scalda il cuore. Fateci caso, l’aria sembra cambiata, si respira (finalmente) qualcosa di diverso, indipendentemente dalla musica che si ascolta o si suona…
Qualcosa di diverso, di profondamente diverso, si è infine respirato lungo tutto l’arco della monumentale esibizione offerta da Sua Maestà King Diamond e i suoi leggendari Mercyful Fate che, al loro ritorno sulle scene, danno vita a uno show che semplicemente non si può descrivere, per l’intensità, per il pathos, per l’eccellente stato di forma al quale probabilmente neppure il più positivo tra noi inguaribili fans poteva augurarsi tale, per il ritorno in pompa magna del Fato Misericordioso i cui neri strali stanno ammantando l’Europa intera. Chi scrive aveva già avuto modo e fortuna di poter godere di un loro concerto estratto dal corrente tour, esattamente la settimana prima in Belgio, al Graspop Festival, rimanendo a dir poco spiazzato dalla suggestione e dalla bellezza dello show marchiato Mercyful Fate, e non faccio fatica ad ammettere che a Villafranca il gruppo comandato dal Re Diamante è andato oltre, nettamente oltre, consegnandoci probabilmente lo spettacolo perfetto. Per chiunque ami i Mercyful Fate, naturalmente.
Discutere della scaletta, forse non ha senso alcuno, sarebbe solo uno sterile elenco specie se non si conoscono a fondo album che appartengono al mito, all’aristocrazia del metal propriamente detto, quello che ha sparso i suoi semi più pericolosi, album dell’importanza di ‘Melissa’ e di ‘Don’t Break The Oath’, per non dire del pionieristico, omonimo EP, sono passi fondamentali, capolavori senza tempo che vanno rispettati e ossequiati. Sui vari componenti della band, cosa dire, se non fare delle considerazioni forse scontatissime, che il frontman e deus ex machina dell’intero progetto si è rivelato fantastico, e forse non è neppure il superlativo giusto per poter descriverne l’impatto, mentre si è piazzato quasi alla pari l’altro elemento storico dei Mercyful Fate, il chitarrista Hank Shermann, geniale come musicista ma che in passato è stato quasi il pomo della discordia, spesso in conflitto con il vocalist e con le sue scelte artistiche. Sul podio metto anche quel fenomeno che risponde al nome di Joey Vera, bassista eccezionale e tra le persone più genuine dell’intero metal stardom, il quale, dopo aver riassestato Armored Saint e Fates Warning (soprattutto), ha portato a pieno regime l’intero apparato ritmico dei Mercyful Fate, dandogli nuovissima linfa e una potenza che, probabilmente, in passato non aveva. Concerto dell’anno, senza se e senza ma. E si era capito abbondantemente.
Sabato 25
La quiete dopo la tempesta? Ma nemmeno per idea! Ritardi vari, il solito traffico estivo e congiunzioni astrali che mai ti aspetteresti fanno sì che l’ingresso al Castello viene ritardato di molto, con il Rock the Castle che si presenta già in pieno svolgimento, preso d’assalto da circa 10mila persone, tutte convenute lì per omaggiare il Sacerdote di Giuda. Entro nella suggestiva location veneta che gli Exciter ne stanno quasi mettendo a repentaglio le antiche fondamenta, con il loro speed metal inossidabile e inestimabile. Altra band carica di gloria, quella canadese, ritornata in pugno al leader di sempre, ovverossia Dan Beehler, batterista e cantante che, divertito dal contesto, durante la giornata si farà vedere spesso e volentieri tra il pubblico. Giustamente anche per riscuotere il tributo che gli spetta, dato che il suo gruppo suona con la grazia di un maglio perforante, forte di una set list che non ammette replica alcuna! Basta il trittico centrale ‘Heavy Metal Maniac’, ‘Rising Of The Dead’ e ‘Pounding Metal’ per spedire a casa la concorrenza, annichilendo ogni possibile resistenza. Se aggiungiamo poi la “ciliegina” finale, la cover di ‘Iron Fist’, totem motorheadiano, beh, che altro dire, il massacro è completo. Exciter: un nome, una garanzia.
Mentre attendo l’arrivo della “navicella aliena” (loro sì, che saluteranno per sempre…) mi informo su come hanno suonato le precedenti formazioni, gli altoatesini Skanners e le inglesi Girlschool, entrambi gruppi classici che più classici non si può, entrambi pionieri delle loro rispettive scene, entrambi protagonisti di un metal style che bada piuttosto al sodo anziché perdersi in smancerie inutili. Ambedue le band hanno rispettato le consegne mettendo a ferro e fuoco il palco, anche se i pareri più favorevoli li raccolgono gli Skanners, che in formazione possono appunto vantare quell’autentico animale da palcoscenico che di nome fa Claudio Pisoni, frontman e assoluto valore aggiunto.
Sono da poco passate le 18, e un altro dei miti della mia, della nostra adolescenza si materializza, gli UFO che del primordiale splendore conservano lo storico singer Phil Mogg e il batterista Andy Parker (uscito e rientrato a più riprese nella band, e oggi stabilmente fisso, in questa che sarà la parte finale della loro gloriosa epopea, epopea che ha da poco tagliato il traguardo delle cinquanta candeline), e subito corrono i brividi, specie con ‘Only You Can Rock Me’ e ‘Cherry’, accoppiata estratta da ‘Obsession’, assoluto capolavoro marchiato UFO, tra i prediletti del sottoscritto, e ultimo studio-album con in formazione un tale che si chiama Michael Schenker. Dietrologie a parte, mentre scorrono le note di una manciata o poco più di canzoni storiche risalenti al periodo aureo, mi tornano alla memoria tutti gli eroi che non ci sono più, che alla causa degli UFO hanno dedicato la loro intera esistenza, penso a Paul Raymond, a Paul Chapman, ma specialmente a Pete Way, tra i bassisti più bravi e iconici di sempre e simbolo stesso della mitica band londinese. ‘Lights Out’, ‘Doctor Doctor’ e ‘Shoot Shoot’ fungono da epitaffio per un gruppo arrivato ai saluti finali, una band che abbiamo tutti amato quasi incondizionatamente, se così si può scrivere.
Si resta in Terra d’Albione con l’arrivo degli inossidabili Saxon, band immortale e che ha legato il proprio destino all’Italia sin dai suoi lontanissimi esordi, quando lo Stivale proprio non se lo filava nessuno, in tempi in cui vigeva il tabù dei concerti internazionali e ad infrangerlo ci pensavano coloro che il coraggio lo avevano per istinto primario, era il caso dei Motorhead, dei Raven che suonavano quasi più da noi che in Patria, gli Iron Maiden che fecero debuttare Bruce Dickinson addirittura in un concerto bolognese ormai famosissimo, e appunto i Saxon, che sui palcoscenici italiani si fecero letteralmente le ossa. Sarà forse anche per quella gavetta, tosta ma funzionale, che Biff Byford e i suoi compari suonano sempre meravigliosamente bene davanti al pubblico italiano, tra i più affezionati e fedeli che la band originaria dello Yorkshire possa vantare. Una scaletta da urlo, infarcita di ogni classico possibile e immaginabile, con le suggestioni migliori a carico di ‘And The Bands Played On’, ‘Broken Heroes’ e soprattutto ‘Crusader’, che suonata dentro un castello medievale potete capire bene quali sensazioni faccia scaturire… Quando ci son di mezzo i Saxon, ci si ritrova presto senza voce perché sacrificata in onore dei loro immortali cavalli di battaglia, che li cantiamo a squarciagola e li snoccioliamo neanche fosse la formazione della Nazionale Italiana di calcio ai Mondiali di Spagna ’82, ‘Motorcycle Man’, ‘Wheels Of Steel’, ‘Heavy Metal Thunder’, ‘Strong Arm Of The Law’, ‘Denim And Leather’, in cui vanno ad incastrarsi ottimamente brani nuovi tipo ‘Thunderbolt’ e ‘They Played Rock And Roll’, dedicata di cuore ai Motorhead dello scomparso Lemmy, amico e compagno d’armi negli storici concerti di inizio carriera, quando i due gruppi inglesi amavano mettere sotto torchio il proprio pubblico con tournée che fecero epoca, sotto il rollio del temibile Bombardiere…
Più che una semplice band, come tante, i Saxon sono e restano una famiglia, di quelle unite e che sopportano tutto, anche il trascorrere del tempo.
Un altro che si fa beffe del tempo che inesorabile scorre è un attempato giovanotto che di nome fa Robert John Arthur Halford, uno che la storia del metal l’ha fatta veramente, quando a Birmingham, cinquant’anni fa, smise i panni dell’hippy scanzonato per indossare pelle nera e borchie, esasperando i volumi del proprio sound, con quel colpo di genio che portò la veemenza delle due chitarre agli onori di cronaca. Si sa, l’heavy metal, quello vero, fiero e tonante, è nato lassù, nella Black Country, tra Wolverhampton e i sobborghi di Birmingham, ad Aston, dove nacque e proliferò il nero germe dei Black Sabbath, nella cittadina di West Bromwich da dove arriva un tal Robert Plant, insieme a John Bonham l’anima più dura e ribelle dei Led Zeppelin, oppure a Walsall, piccolo centro in cui nacque appunto Rob, che entro breve sarebbe diventato il prototipo del metal singer per antonomasia…
Il quale, con assoluta naturalezza, va da una parte all’altra del palco mentre, contemporaneamente, azzanna il microfono e mette a dura prova gli speaker, sconquassati dall’impeto vocale per il quale Rob Halford è universalmente conosciuto. La sua performance, è da spellarsi le mani dagli applausi, Richie Faulkner, sempre più emulo di K.K. Downing, gli dà buona assistenza quando è il caso di sprintare sul palco, mentre è quasi nullo l’apporto degli altri due, Andy Sneap e Ian Hill, troppo statici e scarsamente funzionali sotto il profilo visivo, ma forse è voler cercare il pelo nell’uovo. Scenografia a livelli super e una setlist da tramandare ai posteri, con un occhio di particolare riguardo per il repertorio di ‘Painkiller’ (‘A Touch Of Evil’ e ‘One Shot At Glory’ hanno letteralmente provocato incidenti!), una ‘Blood Red Skies’ che ricorderemo vita natural durante, ‘Freewheel Burning’ e ‘The Sentinel’, per non dire di ‘Diamonds & Rust’ subito a ruota di ‘The Green Manalishi’, probabilmente la più bella coppia di cover di sempre nella storia del metal!
Domani Dave Mustaine e i suoi rinnovati Megadeth (a proposito, l’annunciato nuovo album ‘The Sick, The Dying… And The Dead!’ è un’autentica fucilata in faccia, con qualcosa che può ricordare ‘So Far, So Good… So What!’, e mi fermo qui con le anticipazioni…) avranno da sudare le proverbiali sette camicie per mettersi almeno alla pari con i titani che li hanno preceduti, Mercyful Fate e Judas Priest, ma lascio il compito alla dinamica Margherita che ci racconterà appunto tutto… Da Villafranca è tutto, passo e chiudo.
Alex Ventriglia
Foto di Di Luca/Ruggeri