Gods Of Metal 2008 @Arena Parco Nord – Bologna, 27-28-29 giugno 2008
Il 27/06/2021, di Redazione.
Tre giorni di fuoco, sotto il sole cocente di fine giugno, e ovviamente tonnellate di tuonante metallo sono quanto offerto anche quest’anno in occasione dell’immancabile metal happening estivo del Gods Of Metal. Fra tanto sudore versato, telluriche emozioni, gli evergreen di sempre, neanche a dirlo gli Iron Maiden, hanno trionfato anche questa volta per la qualità dello show proposto e per il numero di fan presenti all’appuntamento. Accanto alla eterna Vergine di Ferro, però, anche una agguerrita Metal Militia ha inondato i nostri capienti padiglioni auricolari all’Arena Parco Nord di Bologna.
Venerdì 27 giugno
Si sposta nuovamente all’Arena Parco Nord di Bologna il festival Gods Of Metal. Rispetto alle precedenti edizioni, notiamo subito qualche miglioramento in termini di servizi offerti. I bagni sono più numerosi e tendenzialmente più puliti di quanto ci saremmo aspettati, i prezzi di bevande e panini sono relativamente più abbordabili e particolarmente gradita è soprattutto la presenza di numerosi banchetti dove personale qualificato, non necessariamente di nazionalità italiana, vende CD, vestiti, gadget e merchandising vario. Spiace, invece, dover constatare che la venue prescelta non consenta neanche questa volta di ripararsi facilmente dai temibili raggi di sole estivi. Ma si tratta di “piccoli” dettagli per gli appassionati di metallo e dintorni. Bando alle ciance, dunque, e diamo spazio alla musica. Il benvenuto all’arena ci viene servito dai progressive Kingcrow, ensemble tricolore che ha già avuto modo di farsi apprezzare da più di un lustro a questa parte grazie alla pubblicazione di ben tre full-length. Sfortunatamente, come d’altronde spesso accade ai gruppi di apertura, il suono non è eccezionale, i volumi sono piuttosto bassi e l’arena è sciaguratamente vuota. La prova offerta dai capitolini è, però, di tutto rispetto e permette ai presenti di apprezzare in modo particolare l’esecuzione della conclusiva ‘A Merry Go-Round’ e la performance vocale del frontman Mauro Gelsomini. Il tempo scorre inesorabilmente ed è già quasi ora di pranzo quando i Black Tide, “bimbi” super coccolati, calcano le scene. Sono davvero giovanissimi questi imberbi ragazzini di Miami, autori finora unicamente di un disco su full-length, quel ‘Light From Above’ che ha assicurato loro persino i servigi di una major. I “soliti raccomandati” di turno? Fanno invidia questi americani, diciamo la verità. E parte del pubblico radunatosi sotto il palco conferma questa prima spiacevole sensazione quando viene esposto uno striscione con su scritto ‘Abbasso i Finley’. In verità la band in questione non sembra essere così sprovveduta, suona un apprezzabile heavy thrash melodico e, grazie alla cover di ‘Hit The Lights’, celebre cavallo di battaglia dei Metallica, riesce a catturare l’attenzione anche del pubblico meno benevolo nei suoi confronti. E poi? Rimaniamo in tema di “raccomandati”, questa volta davvero di lusso, perché sale sul palco la reginetta Lauren Harris, cantante e figlia del decisamente più noto bass player degli inossidabili Iron Maiden. Lo show di Lauren è a dir poco imbarazzante, bisogna avere la forza di ammetterlo, pur rischiando di suscitare il disappunto del celebre papà. Le parti vocali lasciano molto a desiderare e le stonature non mancano. Su disco Lauren non ha certo finora offerto prove magistrali, ma si è fatta tutto sommato accettare di buon grado. Dal vivo, però, se non altro al Gods Of Metal, non si è certo distinta per le sue qualità canore. Di tutta altra forza è, invece, la sua band, indubbiamente ben equipaggiata e pronta a suonare rock ‘n’ roll dalle tinte più hard. Ad ogni modo, su tutte spiccano la cover di ‘Natural Thing’ degli UFO e la più energica ‘Steal Your Fire’. Rimaniamo sempre in ambito rock con l’esibizione indubbiamente più convincente ed energica dei tanto chiacchierati Airbourne. La formazione australiana da circa un annetto promuove il suo ultimo album, ‘Runnin’ Wild’, con la necessaria convinzione e determinazione. Ma solo in tempi recenti abbiamo sentito parlare di loro anche in Italia. Il genere proposto è in realtà clone in tutto e per tutto del sound degli immortali AC/DC. Inutile allora parlare di originalità perchè gli Airbourne sono deludenti sotto questo aspetto. Ma i brani proposti piacciono ugualmente, colpendo dritto dritto al cuore dei più irriducibili rocker. Vedere, inoltre, il singer e chitarrista Joel O’Keeffe che si arrampica lungo le colonne portanti del palco e prosegue quindi a suonare una volta raggiunta la vetta designata, fa un certo effetto. ‘Stand Up For Rock And Roll’, ‘Girls In Black’ e il gran finale con ‘Runnin’ Wild’ sconquassano con ineffabile piacere. Altro giro, altra corsa. Si cambia questa volta registro con i finlandesi Apocalyptica. E dall’hard rock infuocato degli Airbourne si passa alla musica sui-generis proposta da un drummer e da quattro violoncellisti indiavolati. L’ensemble è noto soprattutto per le singolari cover dei Metallica e il pubblico del Gods lo sa bene al punto da invocare in più occasioni ‘Master Of Puppets’. Gli Apocalyptica preferiscono, però, allietarci in altro modo. ‘Refuse/Resist’ dei Sepultura e ‘Helden’, rivisitazione di ‘Heroes’ di David Bowie, sono delle gradite sorprese. Ma è con le cover di alcuni brani dei già citati Four Horsemen che il pubblico manifesta maggiore partecipazione. ‘Creeping Death’, ‘Fight Fire With Fire’ scaldano gli animi. Degna di nota anche l’esibizione di ‘Nothing Else Matters’, sebbene il climax venga raggiunto con ‘Seek And Destroy’, brano che scatena la folla in un delirio collettivo capace di far cantare tutti a squarciagola. Dai violoncelli degli Apocalyptica all’hard rock degli storici Rose Tattoo il passo non è così breve, ma tant’è. Non spiace in fondo tornare subito a rockare con dei veri veterani del settore. E fa specie rivedere il corpulento singer Angry Anderson, con la sua da sempre inquietante testa rasata, ancora oggi sul palco. La voce graffiante di Anderson sembra essere rimasta davvero immune agli effetti del tempo, ostentando così tutta la sua proverbiale potenza e il suo irresistibile fascino. Una prova esemplare quella degli australiani, navigati rocker e oggi pronti ad allietarci con brani più recenti come ‘Man About Town’ o ‘Once In A Lifetime’, entrambi tratti dall’ultimo album in studio ‘Blood Brothers’, e soprattutto con i grandi classici ‘Rock ‘n’ Roll Outlaw’, ‘Rock ‘n’ Roll Is King’, ‘Scarred For Life’, ‘Bad Boy For Love’ e, ovviamente, l’intramontabile ‘Nice Boys (Don’t Play Rock ‘n’ Roll)’. Ci avviciniamo in serata e il pubblico, fino a poco tempo prima in realtà piuttosto esiguo nel numero, aumenta a vista d’occhio e a dismisura. Marca così proprio male per gli americani Avenged Sevenfold, autori di musiche fin troppo eterogenee e “fantasiose” per chi oggi è qui solo e unicamente per quella nota istituzione del metal anglosassone chiamata Iron Maiden. Un vero peccato, però, non averne potuto apprezzare la performance dal momento che questa band ha qualità da vendere e radici comunque riconducibili all’heavy metal di cui noi tutti siamo grandi fan. Invocare gli Iron Maiden per tutta la durata dello show della band in esame, lanciare bottigliette di plastica sul palco, proferire improperi di ogni genere manifestando evidente avversità nei confronti di chi sta svolgendo il proprio lavoro con la massima attenzione, non deve essere stato certo d’aiuto per il bravo frontman Matt Shadows e la sua ciurma. Solo quando viene eseguita la cover ‘Walk’ dei Pantera, il pubblico decide di porre allora attenzione agli Avenged Sevenfold, salvo poi tornare in seguito a denigrare l’act americano. Ed eccoci finalmente in chiusura con l’attesissimo show dei principali autori del verbo heavy metal, gli headliner Iron Maiden. L’Arena parco Nord di Bologna è ormai stracolma di gente in ogni dove. E basta sentire la voce di Winston Churchill echeggiare nell’aria per capire che lo show sta per avere inizio, proprio come avveniva a cavallo fra la prima e la seconda metà degli anni Ottanta nel corso del mastodontico e glorioso World Slavery Tour. Segue, quindi, quasi come da copione Eighties, l’inarrivabile ‘Aces High’. Scoppiano inevitabilmente i primi boati di entusiasmo fra la folla. Le aspettative sono elevatissime. D’altronde gli Iron Maiden hanno promesso di rileggere la propria storia con il preciso obiettivo di fornirci una setlist memorabile che, per molti aspetti, dovrebbe ricalcare quanto proposto in passato su ‘Live After Death’, ‘Somewhere In Time’ e ‘Seventh Son Of A Seventh Son’. Idem dicasi per la faraonica scenografia, con tanto di piramidi egizie e l’inseparabile Eddie, chiamato in causa nelle sue forme più disparate. E così è, infatti, per il sommo gaudio dei presenti. La scaletta proposta è entusiasmante, la scenografia semplicemente spettacolare e la band mostra fortunatamente di essere ancora in gran forma. Il cantante Bruce Dickinson continua, a dispetto dell’età che avanza, ad essere un animale da palcoscenico, muovendosi in lungo e in largo sullo stage con una disinvoltura certo fuori dal comune. Difficile dire allora quale sia l’episodio più riuscito. Particolarmente gradite sono, però, indubbiamente ‘Rime Of The Ancient Mariner’, proposta per l’occasione nella sua interezza, ‘Powerslave’, e ‘Heaven Can Wait’. Discutibile, invece, la scelta di riproporre la relativamente “recente”, ma comunque epocale, ‘Fear Of The Dark’. Nonostante Dickinson dichiari che, per ragioni tecniche, non è stato possibile avvalersi di tutto il materiale pirotecnico preventivato, i fuochi e i flash bomb non mancano. Uno show indimenticabile, inutile tergiversare. The beast is back.
Sabato 28 giugno
A poco o nulla è servito il forte temporale abbattutosi nel corso delle prime ore del mattino a Bologna. Il caldo infernale subìto il giorno precedente, infatti, non accenna a diminuire di intensità. E, quasi a dispetto della folta schiera di nubi presenti per buona parte della prima parte della giornata, l’afa si fa sentire molto di più di quanto sarebbe stato lecito immaginare. I primi a sfidare le avverse condizioni climatiche sono, quasi a sorpresa, gli Oltrezona, band di cui non era stata comunicata la partecipazione al festival ed ensemble vincitore del concorso ‘Suonica’. Hardcore e, soprattutto, thrash metal, costituiscono i principali ingredienti utilizzati dalla formazione veneziana con risultati ad onor del vero in questa sede apprezzabili solo parzialmente. Sempre in ambito thrash, questa volta con influenze più marcatamente e dichiaratamente Bay Area, si muovono anche i Brain Dead, act eporediese vincitore del demo contest Gods Of Metal 2008 e per l’occasione capace di mostrarsi determinato, con idee chiare e obiettivi ben precisi da raggiungere. Maggiore interesse viene non a torto manifestato dal pubblico nei confronti degli Stormlord, il sempre più apprezzato ensemble capitolino, votato ad un extreme metal sound epico e originale, ma rispettoso nei confronti del passato della musica a noi più gradita. Il tempo concesso a questa formazione, che è oramai presente sulle scene da più di dieci lunghissimi anni, è purtroppo limitato a soli venti minuti. Si ha giusto l’opportunità di promuovere il nuovo album, ‘Mare Nostrum’, proponendo, oltre alla title-track, i brani ‘Legacy Of The Snake’ e ‘And The Wind Shall Scream’. E poi tocca già congedarsi per lasciare il posto sul palco ai Between The Buried And Me, una band davvero unica nel suo genere, complessa, mai banale. Meriterebbero anche loro molto più spazio per poterci permettere di cogliere tutte le differenti sfumature del loro sound. Il cantato metalcore si alterna alle clean vocal, parti strumentali più suadenti cedono il passo a violentissime accelerazioni grindcore che fungono a sua volta da apripista per soluzioni tecnicamente molto elaborate, cambi di tempo repentini e quindi nuovamente la quiete dopo la tempesta. Ancora più sorprendenti, ma certo anche più conosciuti, sono i The Dillinger Escape Plan, una band semplicemente folle, capace di radere al suolo tutto ciò che incontra sul proprio cammino, un fiume in piena quindi o, se preferite, una vera e propria macchina da guerra. Difficile trovare altri aggettivi per l’act capitanato dal palestrato e instancabile frontman Greg Puciato. La band si muove con grande disinvoltura sul palco, massacrando quest’ultimo fra spettacolari balzi e vertiginose proiezioni compiuti dai musicisti sotto esame. Una prova maiuscola, in grado di convincere chiunque (o quasi) del valore del loro destabilizzante e indiavolato mathcore. La più datata ‘Sugar Coated Sour’ e le più recenti ‘Milk Lizard’ e ‘Black Bubblegum’ tratte da ‘Ire Works’, l’ultimo album in studio della band, dal vivo sono davvero convincenti. Chiuso un capitolo, se ne riapre un altro, quello del ritorno sulle scene dei mai troppo lodati e influenti At The Gates. Non è difficile constatare che gran parte del pubblico è qui proprio per loro. L’arcinoto e super indaffarato singer Tomas Lindberg ha oggi solo qualche anno in più e i capelli più corti. Per il resto niente altro è cambiato. Lindberg è tuttora un frontman carismatico e irrefrenabile. E la musica dei seminali At The Gates colpisce dritto in faccia anche oggi, soprattutto dal vivo, quando vengono riversate sui presenti brani come l’immortale ‘Slaughter Of The Soul’, ‘Cold’, ‘Suicide Nation’ o ‘The Swarm’. E quando si ode un suono di ferraglia in sottofondo, si intuisce facilmente che sta per essere eseguita la devastante ‘Blinded By Fear’, brano che tuttora suscita i deliri della folla. Dopo gli At The Gates tocca ai longevi thrasher della Bay Area, i Testament, il compito di riaprire le danze. La formazione, da sempre nei cuori dei metal kid tricolori, dà il massimo anche oggi per perorare la sua causa, nonostante i discutibili suoni e i bassi volumi sembrino muovere a suo sfavore. Si comincia con le pesantissime ‘Over The Wall’ e ‘Into The Pit’ ed è subito una gran festa sotto il palco. La scaletta proposta non presenta, però, molte sorprese. E così dal nuovo entusiasmante album in studio, ‘The Formation Of Damnation’, vengono stranamente eseguite solo due tracce, la più prevedibile ‘More Than Meets The Eye’ e ‘Henchmen Ride’. I duelli di Eric Peterson e Alex Skolnick alla chitarra, opportunamente supportati dal drumming potente e preciso di Paul Bostaph, lasciano davvero il segno. Chiudono, fra i boati della folla, ‘Alone In The Dark’ e ‘Disciples Of The Watch’. Una pausa un pò più lunga del previsto, il tempo di rivedere i suoni e i Meshuggah sono finalmente pronti a dare inizio al loro show. Lo spettacolo è piuttosto breve, in realtà, inferiore all’ora prevista da programma, ma fornisce ai fan ciò che si aspettano: un’esibizione fredda, tuttavia tutt’altro che incolore, in cui la musica è l’unica vera e propria protagonista. E così non ci stupiamo più del dovuto se il cantante Jens Kidman non sembra essere interessato a trovare consenso tra la folla con le sue parole. Industrial, post thrash ‘n’ death o semplicemente metal estremo originale e moderno? Chiamatela come preferite, ma una cosa è certa: la proposta dei Meshuggah non lascia certo indifferenti, irritando oltre misura coloro che non l’hanno mai apprezzata e confermandosi al tempo stesso ai vertici di una scena che non ha rivali. Fra i brani proposti, hanno trovato posto tracce tratte dal nuovo album ‘Obzen’, come la title-track, ‘Bleed’, ‘Electric Red’, ‘Pravus’, ‘Combustion’. Ma è con i classici come ‘New Millenium Cyanide Christ’ e l’immancabile ‘Future Breed Machine’ che l’ensemble riesce ad avere la meglio. La storia del grind e del death metal rientra nuovamente in scena con i Carcass, i quali insieme agli At The Gates e agli headliner sono fra gli ensemble più attesi della giornata. L’opener prescelta per l’occasione è ‘Inpropagation’, brano accolto con caloroso entusiasmo dal pubblico. Anche nel caso dei Carcass a farla da padrone è soprattutto la musica. Jeff Walker pronuncia ogni tanto qualche parola fra i denti, spesso e volentieri mostrando un tono piuttosto polemico. Dopo aver visto l’ottima reazione del pubblico in seguito all’esecuzione di ‘Keep On Rotting In The Free World’, il bassista e cantante afferma, ad esempio, che non si spiega per quale ragione l’album ‘Swangsong’ abbia venduto così poco. Ad ogni modo ‘Buried Dreams’, ‘Corporal Jigsore Quandary’, ‘Carnal Forge’, ‘No Love Lost’ e ‘Heatwork’ sono fra gli episodi migliori del lotto, seguiti da alcuni brani, come ‘Genital Grinder’ e ‘Exhume To Consume’, appartenenti ai primi due più acerbi e discussi lavori della band. Un’ottima prova, indubbiamente, resa ancor più memorabile quando, inaspettatamente, il primo storico e sfortunato batterista della band, Ken Owen, sale sul palco per salutare i fan, mostrando così gli evidenti problemi motori e di salute di cui è stato purtroppo vittima negli ultimi dieci anni. Tocca infine ai maestri indiscussi del metal estremo impartire l’ennesima lezione di stile. Gli Slayer non hanno davvero bisogno di presentazioni né di scenografie magniloquenti per fare la differenza. Bastano allora le luci dei riflettori, un telone che riproduce la copertina di ‘Reign In Blood’ come sfondo e, ovviamente, tutta la loro proverbiale e immancabile potenza espressa in musica e dal vivo con ancora maggiore efficacia. La scaletta proposta, diversa dal solito e inizialmente priva di episodi tratti da ‘Reign In Blood’, lascia quasi presupporre che gli Slayer eseguiranno in chiusura il già citato masterpiece nella sua interezza. Così non è, in realtà, ma il massacro sonoro è servito ugualmente con udibile ferocia. Un grande show, quindi, in cui sia il vecchio sia il nuovo repertorio degli Slayer hanno trionfato su tutti i fronti. Grandi classici ultimamente meno gettonati come ‘Chemical Warfare’ e ‘Captor Of Sin’ hanno fatto la loro devastante figura accanto a brani immortali come ‘War Ensamble’, ‘Spirit In Black’, ‘Dead Skin Mask’, ‘Hell Awaits’, ‘Postmortem’ e ai più recenti ‘Darkness Of Christ’, ‘Disciple’, ‘Cult’, ‘Jihad’, ‘Eye Of The Insane’. E poco importa, in fondo, se l’esecuzione non è sempre perfetta o se Tom Araya non riesca più da tempo a riproporci l’urlo lacerante iniziale di ‘Angel Of Death’ perché gli show degli Slayer si distinguono per altri fattori, in primis per il grande impatto. Spiace, invece, dover constatare che il pubblico, probabilmente perché stremato per il caldo e per le lunghe giornate di concerti, non abbia reagito manifestando il massimo entusiasmo come al solito. E’ stato quasi imbarazzante vedere Tom Araya prendersi delle lunghe pause durante le quali ringraziava il pubblico senza ottenere feedback adeguati al nome altisonante degli Slayer.
Domenica 29 giugno
Fra tutte, la giornata di domenica 29 giugno è quella che registra un cambio della guardia più frequente sotto il palco. Chi è venuto principalmente per Obituary e Morbid Angel, infatti, non si fermerà a lungo nell’arena. E chi è venuto per i Judas Priest, difficilmente si è affrettato a strappare il biglietto di ingresso molto prima dell’esibizione dei propri beniamini. Fatte le dovute premesse, veniamo quindi agli show in programma. Il ruolo di opener spetta ai The Sorrow, formazione votata al metalcore, ma anche sufficientemente heavy al punto da presentarci una serie di thrash riff che, pur peccando in originalità, mettono in evidenza un apprezzabile gusto melodico. E’ poi il turno dei Nightmare, storico ensemble francese sorto negli Eighties, morto e quindi tornato a nuova vita circa quindici anni dopo la sua nascita. La loro proposta musicale non è certo una novità poichè sposa in tutto e per tutto la causa dell’heavy metal più tradizionale, ma riesce ugualmente a catturare l’attenzione del pubblico, ottenendo un giudizio complessivo più che dignitoso. Dal metal classico dei Nightmare si passa, quindi, al death metal più indiavolato con i sempre più determinati e vincenti Infernal Poetry, indubbiamente fra le nuove leve più promettenti del metal estremo tricolore. Lo show vede per giunta protagonista anche Trevor dei Sadist, a quanto pare pronto a scommettere in prima persona sul futuro di questa band. La “benedizione divina” arriva, però, poco dopo con una vecchia conoscenza per il pubblico più affezionato del Gods Of Metal. Stiamo parlando del sempre più chiacchierato Frate Cesare Bonizzi, in arte Fratello Metallo, un vero frate, ma anche, evidentemente, un vero metallaro. Discutibile la musica proposta, a onor del vero di scarso interesse e non ancora adatta ad essere presentata in veste ufficiale in una manifestazione importante come quella del Gods Of Metal. Ciò non toglie che il coraggio non è mancato davvero a Frate Cesare che, da buon metallaro, ha infranto le regole con successo, riuscendo così a dare uno scossone di non poco conto all’opinione pubblica. L’equazione “heavy metal – musica del Diavolo” non è più vera. Ora toccherà affermarlo anche sulle principali emittenti televisive. Ma torniamo a parlare di musica, di grande musica. Sul palco ci sono gli Enslaved, i re del Viking metal, se volete, ma anche e soprattutto una band che non ha mai smesso di sperimentare nuove soluzioni. Progressivi, eclettici, con evidenti radici ancora nel black metal e, più in generale, nel metal estremo, i norvegesi danno l’anima anche oggi, a dispetto del caldo asfissiante e della accecante luce del giorno, certo poco adatta come cornice del loro sound. Le conclusive ‘Isa’, ‘Return To Yggdrasill’ e ‘Ruun’ sono, fra gli episodi proposti, i più convincenti. Ancora metal estremo è quanto prevede il bill del Gods Of Metal, ma questa volta nessuna influenza Viking e nessuna vena progressiva. Stiamo parlando di due delle più influenti death metal band di tutti i tempi, vale a dire Obituary e Morbid Angel, gruppi che da sempre sono motivo di interesse e non solo e unicamente per i cultori di uno specifico genere musicale. Per entrambe le band sono trascorsi circa venti lunghissimi anni dai loro esordi ad oggi. Cosa è cambiato? Per il sound degli Obituary poco o nulla. In formazione, però, oggi c’è il disponibile e poliedrico guitar player Ralph Santolla (Deicide, Death, Iced Earth, Sebastian Bach & Friends), chiamato in causa in veste di sostituto di Allen West (quest’ultimo è ancora in prigione per i danni causati da guida in stato di ubriachezza). Sorprende vedere John Tardy in long sleeve sotto il sole cocente delle tre del pomeriggio, sempre attivo e con la sua immancabile voce sepolcrale. ‘Find The Arise’, ‘On The Floor’, ‘Insane’, ‘Evil Ways’, ‘Chopped In Half’, ‘Slow Death’, ma soprattutto la più applaudita ‘Slowly We Rot’, lasciano il segno su un pubblico che si prepara ad un’altra dose massiccia di death metal. I Morbid Angel, con in formazione anche lo storico cantante e bassista David Vincent, sono infatti attesi al varco con percepibile impazienza. Il numero di gente sotto il palco aumenta sensibilmente. E poi, finalmente, ecco la band sul palco e ‘Rapture’ a fungere da apripista. L’impatto è consono alle aspettative. Trey Azagthoth appare, però, esageratamente margo al punto da far dubitare del suo buono stato di salute. La scaletta è, tuttavia, delle migliori. Vengono eseguiti soprattutto i brani appartenenti ai primi album, con particolare preferenza a favore del disco debutto ‘Altars Of Madness’. ‘Chapel Of Ghouls’, ‘Maze Of Torment’, ‘Immortal Rites’ non hanno evidentemente ancora perso il loro fascino, come si evince facilmente oggi a Bologna. E fra altri capitoli importanti come ‘Fall From Grace’, ‘Pain Divine’ e ‘World Of Shit’, trova posto anche il gradito inedito ‘Never More’. Termina qui la parentesi votata al death metal. Sonorità decisamente più classiche, infatti, stanno per prendere il sopravvento. E la cosa buffa è che tutte le band o artisti che si avvicenderanno sul palco d’ora in poi, avranno in comune tra loro l’esperienza vissuta con Tim “no more Ripper?” Owens alla voce. Oggi Owens è alla corte del guitar hero svedese per eccellenza, Mr Yngwie J. Malmsteen, musicista che dà inizio allo show con le note della storica ‘Rising Force’. Lo spettacolo proposto dall’idolo della sei corde è, in fondo, sempre lo stesso. Ma a fare la differenza questa volta è davvero il formidabile cantante, ex Judas Priest e ex Iced Earth. La voce di Owens si adatta in ogni circostanza, dando nuovo smalto persino ad una ‘You Don’t Remember, I’ll Never Forget’ che chi scrive ha sempre disdegnato. Gradita particolarmente anche ‘I’ll See The Light Tonight’, mentre si fa più fatica ad accettare la lunga strumentale ‘Trilogy Suite’, noto cavallo di battaglia di Malmsteen, forse perché il deisderio di rivedere l’ex ripper in azione è più forte del già visto e già sentito. Peccato per l’ennesima chitarra distrutta in chiusura. Yngwie poteva anche evitarci la solita manfrina. Si ricomincia, quindi, a muovere vorticosamente la testa con gli Iced Earth, tornati oggi in azione con il tanto acclamato singer Matt Barlow. E bisogna riconoscere, senza nulla togliere per questo a chi lo ha preceduto, che si tratta di un piacevolissimo come-back. Grazie a Barlow, infatti, gli Iced Earth appaiono più originali e convincenti. Segno che l’inconfondibile marchio di fabbrica della voce dell’ex lungocrinito cantante fa ormai parte integrante dei cromosomi di questa grande band americana. ‘Burning Times’, ‘Ten Thousand Strong’, ‘Travel In Stygian’, e soprattutto ‘Declaration Day’, ‘Melancholy’ e ‘My Own Saviour’ conquistano definitivamente i fan. Non resta che attendere adesso il nuovo album, ‘The Crucible Of Man’, previsto in uscita nei negozi a settembre, per vedere se la nuova line-up sarà ancora in grado di produrre altri intramontabili brani, secondo la migliore tradizione Iced Earth. Tempo di gran finale. Gli headliner sono pur sempre gli headliner. E ciò è vero in modo particolare se la band in programma risponde al nome Judas Priest, ovvero uno fra i principali autori del verbo e dell’iconografia heavy metal. E allora fuori i giubbotti di pelle nera, fuori le borchie e le rombanti motociclette. E riflettori finalmente puntati sui Metal Gods per eccellenza. Non si parte subito in quarta, però, poiché in apertura vengono proposte le note più pacate di ‘Dawn Of Creation’ e ‘Prophecy’, episodi tratti dall’ultimo album in studio ‘Nostradamus’, a cui fanno seguito l’epica ‘Metal Gods’. Si recupera, quindi, presto terreno con alcuni dei brani più celebri e potenti firmati dai Judas Priest. ‘Between The Hammer And The Anvil’ conquista subito la folla con i suoi energici riff e gli scream esasperati di Rob Halford. Quest’ultimo mostra di avere ancora una grande voce. Ciò che, invece, lascia purtroppo a desiderare sono i lenti movimenti del celebre singer di cui, tuttavia, eravamo già a conoscenza. Poco male, in fondo, perché lo show è in ogni caso un successo. Come resistere d’altronde ai melodici refrain di ‘Breaking The Law’ e ‘Hell Patrol’? Per non parlare poi della furia espressa con ‘Dissident Aggressor’, brano che i più irruenti Slayer hanno fatto loro, della sempre entusiasmante e potente ‘Painkiller’, di ‘Hell Bent Leather’ e della conclusiva anthemica ‘You’ve Got Another Thing Comin”. I Metal Gods sono tornati. Ed è ragionevole rendere loro l’onore che meritano.
Report di Enrico De Paola
Trascrizione e foto di memorabilia a cura di Gianfranco Monese
Foto di Roberto Villani