Distruggi La Bassa Festival @Agriturismo Ai Due Laghi, Gambulaga (FE), 5/6/7 luglio 2019
Il 21/08/2019, di Francesco Faniello.
Vorrei farvela semplice, davvero. Ma quando di mezzo ci sono la passione, i Kina, l’hardcore… non è mica così semplice attenersi ai semplici numeri, alla fredda cronaca e a quanto altro ruota intorno a un reportage, da sempre. Mi piacerebbe anche parlarvi di ogni singolo particolare che ha riguardato questa tre giorni, ma rischierei davvero di farla più lunga del solito, per cui non mi resta che accogliere gli incauti lettori e dare inizio alle danze!
Il collettivo ferrarese che si occupa del Distruggi La Bassa ha fatto registrare in questi anni una crescita continua dal punto di vista dell’offerta sia “artistica” che di quanto c’è intorno, segno di mesi e mesi di sbattimenti e rogne da affrontare, il che vale doppio soprattutto in un circuito come quello dell’hardcore/punk, da sempre guardato con sospetto da più parti. Tempo di fare le cose in grande, dunque: vari stand per mangiare, uno per bere ultra affollato a qualsiasi ora (per l’anno prossimo si parla ovviamente di ampliare questo aspetto) e ovviamente un proliferare di banchetti con dischi, fanzine e quanto altro ci riporti alla galassia DIY!
Venerdì 5
Il venerdì sono completamente solo, e questo è un fattore che ha un suo lato positivo: vedere tutti i concerti dall’inizio alla fine, vivere il festival meticolosamente. Come dicevo, le cose sono state fatte in grande, prevedendo due palchi che si alternano fino alla parte “alta” della scaletta. I primi che intercetto sono i veneziani Confine, a set già iniziato. Hardcore metallizzato e suonato con rabbia, complice la presenza di un bel modello Flying V che campeggia sul palco. Vale proprio la pena di fare un salto al loro banchetto, per fare due chiacchiere e prendere il loro ‘Incertezza continua’.
Se non sbaglio, è l’ora degli hardcorers pescaresi 217 e l’immagine della band autrice di ‘Atheist Agnostic Rationalist’ non tradisce le aspettative: teste rasate nel miglior solco della tradizione cittadina (Straight Opposition / When Mind Reflects), randello nel pieno stile dell’East Coast (sia italiana che USA) e la presenza del buon Vittorio Del Prete dietro le pelli, giovane ma attivissimo drummer abruzzese già in forza agli Hybrid Circle.
È già tempo di Le Tormenta e non so come io abbia fatto a non approfondire questa band in tutti questi anni… forse i tempi sono maturi solo ora, per me, fatto sta che avevo già intercettato il quintetto dal vivo una manciata di settimane prima, e l’ottima impressione che ne avevo ricavato è più che confermata: i forlivesi sono autori di un emo/core molto emozionante e molto “core”, un approccio intimista e “poetico” che in qualche modo mi riporta alla mente gli Indigesti, accompagnato da un sound articolato guidato dagli inusuali intrecci delle due chitarre (al limite della bossa nova negli stacchi) e coronato dall’attenzione al messaggio da trasmettere – sono una delle poche band rimaste in circolazione con la buona abitudine di distribuire un libretto con i testi. Il palco piccolo è la loro dimensione ideale: tra bordate come ‘Accettare / resistere l’ingranaggio’ e ‘Le urla’, si corre dritti verso ‘Lo spirito continua’ dei Negazione, cantato a squarciagola da tutti i presenti.
Eu’s Arse sul palco principale, al grido di “il punk non è un genere musicale!”: la band friulana è un vero e proprio pezzo di Storia dell’hardcore italiano più oltranzista, ma nel tempo si è evoluta proponendo un sound quadrato e non semplicemente debitore dei fasti del passato. È così che classici come ‘Attacco’ e ‘Costretti a soffrire’ scorrono senza lasciare prigionieri, tra il basso distorto e l’ottimo guitar work (il chitarrista è anche nei Tytus, se la memoria non mi inganna), fino all’inno ‘Eu’s Arse’ e al suo refrain “il punk non è morto”, più che mai valido in questa situazione.
Il tempo di un cambio palco sullo stage principale, e arrivano i Nabat! Ecco, qui è un po’ difficile trasmettere le sensazioni che si provano ad assistere a un concerto della storica formazione bolognese, campioni dell’Oi! in Italia e veri e propri portabandiera di battaglie per gli spazi autogestiti, come è il caso dell’XM24, purtroppo sgomberato proprio in questi giorni. Gli spazi si assottigliano e la repressione avanza, ma le sensazioni sono lì, indelebili, con Steno e la sua banda che snocciolano i classici come l’immancabile opener ‘Zombie rock’, ‘Lunga vita ai ribelli Oi!’, le clamorose ‘Nichilist’ e ‘Vasco Q8’ e l’anthem ‘Scenderemo nelle strade’, finché per ‘Skins & Punks’ e l’attualissima ‘Laida Bologna’ il palco non è completamente invaso dagli aficionados accorsi a trasmettere tutto il loro calore al quartetto e alla causa degli spazi autogestiti bolognesi. Neanche il tempo di fare due chiacchiere con i rappresentanti della crew foggiana e salgono sul palco gli headliners Total Chaos: nel loro caso posso però dire di non essermi mai appassionato a una proposta che – a quanto vedo – raccoglie molti consensi tra i punk convenuti. Il tempo di sentire ‘Ace of Spades’ nel soundcheck e di constatarne la buona preparazione tecnica, che i californiani attaccano un set che mi porta a definirli “i Venom dell’anarcopunk”, tanto è sanguigna e “quadrata” la loro esibizione. “Punk will never fucking die”, come dicono loro…
Sabato 6
C’era da aspettarselo: vai al festival da solo, annoti tutto con precisione certosina. Vai al festival con gli amici, annoti al massimo le sensazioni che provi nel rivederli dopo tanto tempo, uniti nella comune bandiera dell’hardcore/punk. È così che la prima band che riesco a intercettare sono i romantic punx milanesi Kalashnikov, forti di un’iconografia esteuropea dei tempi che furono e di un sound fortemente legato alla new wave; davvero affascinanti. Si passa al palco piccolo e ai Methedrine, uno dei motivi per cui sono qui: tanta è infatti la curiosità di vedere all’opera il nuovo progetto di Lucio e Bone degli Upset Noise, a poco tempo dallo scioglimento della band originaria, che avevo avuto modo di vedere dal vivo proprio nello stesso scenario, tre anni orsono. Il combo scatena la bolgia, forte di un sound dal sostrato decisamente motorheadiano, ma intriso fino al midollo del miglior crossover thrash di Suicidal Tendencies e compagnia cantante… peccato solo per la scaletta striminzita, che a detta dello stesso Lucio non ha potuto prevedere l’inclusione di uno/due classici degli Upset Noise per motivi di durata; certo è che ‘Weekend Massacre’ o ‘Grigiore’ ci sarebbero state a pennello… si prosegue con l’Oi! classico e ruspante dei Razzapparte, con l’HC stradaiolo e senza compromessi degli olandesi Vitamin X (su No White Rag e Face Your Enemy ero impegnato ai banchetti… vado sulla fiducia!), per giungere ai laziali Plakkaggio, alias i new wavers del black/heavy/Oi! di Colleferro. Non sono esattamente la mia tazza di tè, ma è innegabile la loro capacità di coinvolgimento del pubblico, anche a suon di robuste cover, tra cui spiccano ‘Col ferro col fuoco’ dei Colonna Infame Skinhead (vero inno della Roma Oi!), un accenno a ‘Breaking the Law’ e ‘I nostri anni’, tamarrissima versione dell’altrettanto tamarro originale degli 883. Basta, siamo qui per i Kina, inutile negarlo: Francesco “Monta” Montanari e la crew del Distruggi La Bassa hanno offerto un decisivo contributo alla titanica impresa di riportarli in pista, e dall’iniziale idea di una data one/off al festival il terzetto aostano ha tirato fuori un tour italiano in pieno regola, che a breve sconfinerà anche nelle amate terre germaniche che tanto hanno rappresentato per la crescita degli Husker Du delle montagne. Basterebbe solo l’incipit del concerto a incorniciare la peculiarità dei Kina: voce e chitarra come da loro mai sopita tradizione acustica, Sergio Milani e Alberto Ventrella intonano una commovente versione di ‘Fammi sorridere’ degli Eversor, omaggiando Marco Morosini e The Miles Apart, che non hanno potuto partecipare al festival proprio in virtù delle condizioni di salute del loro bassista e fondatore (sia degli Eversor che del loro spin-off The Miles Apart, per chi non lo sapesse). Neanche il tempo di riprendersi e già l’inconfondibile attacco di batteria dell’Intro si riversa su ‘Sfoglio i miei giorni’: ho visto sia i Kina (in versione reunion nel 2010) che i Frontiera varie volte in questi ultimi vent’anni, ma ogni volta il senso di appartenenza comunicato dalla loro musica si rinnova in un modo che è difficile da spiegare a parole. I vari estratti da ‘Cercando’, ‘Se ho vinto se ho perso’ e ‘Parlami ancora’ sono ancora lì, a costituire una colonna sonora eccezionale di più di una generazione, ognuna delle quali è qui rappresentata a cantare a squarciagola ‘Tempo di cambiare’, ‘Mondo mai visto’ e ‘Camminando di notte’. C’è spazio per l’ultima fase, più melodica, qui rappresentata da ‘Strade divise’, ‘Non c’è scampo’ e ‘Percorsi a migliaia’, ma è innegabile che quando il trio rispolvera i classici, passando da ‘Cosa farete’ a ‘Sabbie mobili’, da ‘Nel tunnel’ a Lo specchio’, all’incredibile ‘Occhi di rana’, a ‘La forza del sogno’, fino all’inno ‘Questi anni’ e alla commovente ‘Troppo lontano’, non ce n’è per nessuno. Gianpiero Capra è tornato a essere motore pensante del trio, Alberto Ventrella ha uno stile di chitarra ancora oggi riconoscibile tra mille, e Sergio Milani è la macchina da guerra che non sembra scalfita dal tempo, come testimoniano anche gli estratti dal primo disco ‘Irreale Realtà’ (su tutti ‘Nessuno schema’), che insieme a ‘Hangin’ on’ e a una versione di ‘Questi anni’ con “invasione di palco” chiudono un’esibizione emozionante come solo i nostri eroi degli anni ’80 sanno regalarci.
Domenica 7
Il terzo giorno è un po’ quello dei sopravvissuti, prevedendo un cartellone con qualche nome “minore” ma non per questo meno interessante. La cosa più bella forse è stata quella di potersi godere il festival in una dimensione più raccolta, dopo il bagno di folla dei primi due giorni, ma è una finezza che conta poco: a contare sono le esibizioni di giovani promesse e realtà consolidate, che hanno sfidato il maltempo (a tratti preoccupante) e un’affluenza minore ma non per questo non degna di nota.
Tocca ai Tutto Brucia aprire le danze, con una formula eterogenea che va dall’alternative al death metal (!), in un caleidoscopio che rilascia sfaccettature DRI, Crumbsuckers e Sepultura (epoca ‘Arise’), il tutto chiuso da una cover del classico ‘Sex & Violence’ che coinvolge i presenti. Segue LaPazzia, il cui HC/crust di riferimento è ben sviscerato, alternando D-beat a parti mosh di tutto rispetto, con la loro versione di ‘Nato per essere veloce’ dei Crash Box a costituire la ciliegina sulla torta. Si alternano dunque sul palco i Sud Disorder, col loro randello intriso di melodie e la logica scelta di coverizzare ‘Questi anni’, e i Rough Touch, NYHC senza compromessi e con un vocalist la cui timbrica ricorda a tratti quella di Roger Miret degli Agnostic Front. Ai Destroy All Gondolas sono dedicate le mie ultime parole di questo report (mi scuso con i Danny Trejo per non essere riuscito a fermarmi fino alla fine, ma non ho dubbi sul fatto che siano stati protagonisti di una performance impeccabile, come di consueto): una bella scoperta, questa band veneta dal monicker super evocativo e dalla formula che sembra prendere le atmosfere lisergiche degli Eyehategod e spararle a mille in un cocktail street punk in acido, complice la timbrica filtrata del cantante. La coda della scaletta spariglia le carte in tavola, prima con una deriva surf che sembra la naturale conseguenza di certe sonorità ascoltate in precedenza, e poi col teatrino delle cover, che vanno dal classicone maideniano ‘Wrathchild’ alla sempre efficace ‘Bullet’ dei Misfits. Capitolo chiuso, chissà cosa ci riserverà l’edizione 2020…