Slayer + Anthrax + Obituary + Lamb Of God @Forum – Assago (MI), 20 novembre 2018
Il 22/11/2018, di Redazione.
di Alex Ventriglia e Federica Cafagna
L’infuocato, indimenticabile show milanese degli Slayer ha dato la stura alla competizione, creando fazioni e alimentando sfide su sfide, tra chi avrebbe voluto esserci e chi, invece, ha fatto lo snob e ha evitato di presenziare accampando scuse a dir poco zoppicanti e pretestuose. Oggi poi, in un’epoca in cui Internet e il suo figlioletto degenere Facebook sembrano far più danni che altro, sui social network imperano maggiormente gli scontri all’ultimo sangue che non le condivisioni sane e costruttive tra appassionati di questo o quell’altro schieramento. Ma tant’è. Purtroppo, è lo specchio dei tempi che viviamo, e noi, che credevamo di essere una numerosa famiglia di privilegiati, non siamo immuni dal vizio, anzi, ci distinguiamo tra le categorie più a rischio. Stridono i contrasti, in maniera lancinante, perfino al cospetto di una tra le massime formazioni che hanno fatto dell’onestà personale e della coerenza artistica le proprie, indissolubili regole di vita, si è quasi preferito litigare e polemizzare anziché tributare in tutto e per tutto la sua grandezza, amplificata ora ancora di più dal fatto che la band ha deciso di dire basta, ravvivando lo strazio dopo una performance milanese per la quale forse non esiste un aggettivo adeguato, per descriverne l’immensa portata. Un happening quello del 20 novembre al quale non si doveva assolutamente mancare, difatti, all’interno del Mediolanum Forum, tutto è stato vissuto come un ritrovo tra vecchi e nuovi fans fieri di essere presenti al passo d’addio dei loro eroi, a cui si sono affiancati colleghi del calibro di Anthrax e Obituary, facce diverse ma identiche, della stessa, storica medaglia, con in più in dotazione una scheggia impazzita quali i Lamb Of God, che della novella confraternita “thrashy” made in USA sono gli indiscussi capostipiti e che, specie nell’affollata serata di Assago, si riveleranno a dir poco stupefacenti.
A regolare l’apertura i floridiani Obituary, che io personalmente ho sempre trascurato ma che stasera, ispirati alla massima potenza, hanno letteralmente spaccato il culo ai passeri con una veemenza e una compattezza che non gli avevo mai riconosciuto, trainati a tutto spiano dalla chitarra di Trevor Perez e dai fratelli John e Donald Tardy, quest’ultimo un inesorabile rullo compressore col suo drumming! Mezza dozzina di pezzi, con l’occhiolino strizzato a ‘Cause Of Death’ (‘Choppen In Half’, ‘Turned Inside Out’ e ‘Find The Arise’, tre legnate mica da ridere!), ma soprattutto è stato l’inno finale ‘Slowly We Rot’ a rivoluzionare gli animi dei devoti alla causa Obituary, autentici padrini del più truculento e abrasivo death metal made in Tampa. Killers!
Al giro di boa, ad attenderci, gli Anthrax, da qualche anno a questa parte tornati ad esser familiari presso i nostri palchi ma che con l’Italia hanno comunque mantenuto spesso un rapporto privilegiato, tra frizzi, lazzi e quelle battute in siculo che al “paisà” Joey Belladonna piacciono sempre tanto, per ribadire di una band che noi amiamo molto e che seguiamo fin dai suoi esordi. Perentori e inflessibili, ma al tempo stesso giocosi e “cazzari”, i newyorkesi han badato al sodo spiattellando una serie di classici che più classici non si può (‘Caught In A Mosh’, ‘Efilnikufesin (N.F.L.)’, ‘Be All, End All’, ‘Indians’), più le immancabili cover di ‘Got The Time’ e ‘Antisocial’ (una meraviglia, udire l’intero Mediolanum gridare il coro a squarciagola!), con la ciliegina sulla torta rappresentata da “frammenti” di ‘Cowboys From Hell’, suonati come intro e outro e che fanno capolino nella setlist di questa tournée. Il ricordo per i fratelli Darrell e Vinnie Paul Abbott è più che mai vivido, idem dicasi per gli stessi Pantera, a mio modo di vedere un gruppo che, purtroppo, non aveva ancora completamente espresso le sue potenzialità, che erano e restano enormi. Ed enorme, in quei momenti, è stato il rimpianto che ha avvolto anche la platea milanese, nonostante le belle scariche d’adrenalina e uno show dinamico e all’altezza della fama dei newyorkesi guidati dall’indomito Scott Ian. Unico neo della loro prova, forse l’assenza di Charlie Benante, bloccato a casa da problemi fisici, il quale, mi spiace per il suo sostituto Jon Dette, regala sempre una marcia in più a tutto l’insieme, è uno di famiglia e la famiglia, si sa, per noi italiani è fondamentale…
A proseguire la discesa verso l’abisso, i Lamb Of God che hanno dovuto adempiere a un arduo compito: precedere gli Slayer, cercando di caricare e coinvolgere un pubblico sempre più impaziente. La band di Richmond, Virginia, è sicuramente riuscita nell’impresa; nonostante l’assenza di una delle colonne portanti del gruppo, il batterista Chris Adler, egregiamente sostituito da Art Cruz (già all’attivo con Prong e Winds Of Plague). Un sound non proprio perfetto ha sicuramente penalizzato la performance del vocalist, soprattutto nel growl, non influendo però incontrovertibilmente sulla resa finale dell’intera esibizione. Si può dire che lo show sia cominciato in sordina con ‘Omerta’, passando per ‘Ruin’, ma arrivati a ‘Walk With Me In Hell’ si sono spalancate le porte dell’Inferno e noi eravamo lì, a contare i danni, con il pubblico letteralmente impazzito, non appena entrata in circolo la successiva ‘Now You’ve Got Something To Die For’. A questo punto il frontman, Randy Blythe, ha introdotto il brano ‘512’, estratto dal loro ultimo album ‘VII: Sturm Und Drang’ (2015), dedicandolo agli amici Lacuna Coil, presenti tra il pubblico. Un concerto durato circa cinquanta minuti, di cui gli ultimi due brani, ‘Laid To Rest’ e ‘Redneck’, hanno fatto da degna chiusura, ispirando un “wall of death” che ha coinvolto praticamente tutto il parterre, per un assalto condotto all’arma bianca! Concitazione e sgomento sui volti di molti che, evidentemente, non erano preparati ad un’esibizione tanto abrasiva e devastante, che ha imposto i Lamb Of God in maniera definitiva, sui destini di una serata irrimediabilmente votata al massacro.
E se si parla di massacro, gli unici detentori sono proprio loro, gli Slayer, quelli che hanno realmente tradotto il diavolo in musica, rendendolo palpabile nel corso di una carriera quasi quarantennale, in cui il loro magistrale furore esecutivo e una sfacciata superiorità compositiva sono andati meravigliosamente a braccetto, infischiandosene di ciò che il mercato e le mode chiedevan loro. Anzi. I quattro californiani si sono sempre distinti per la propria indipendenza artistica, una delle ragioni per le quali gli Slayer sono infatti tra i gruppi più idolatrati di sempre dal popolo metal, e non solo. Si è rischiato davvero il collasso non appena si sono spente le luci e sono partite le note sinistre di ‘Delusions Of Saviour’, intro che regala poi vita a ‘Repentless’, title-track impetuosa di uno studio-album che sarà dunque destinato a restare l’ultimo per gli Slayer; incredibile a dirsi, ma sarà così, per un tacito accordo tra le parti e per certi versi condizionata dalla tragica scomparsa di Jeff Hanneman, la band è giunta al suo epitaffio artistico, a questo Final World Tour al quale credo nessuno di noi avesse granché voglia di assistere. È stato letteralmente un crescendo rossiniano, l’ultimo concerto degli Slayer in Italia, vissuto in un turbinio di fiamme e di umori neri, caliginosi come la pece, impugnati da un gruppo che lascia come soltanto i grandi sanno fare, ovverossia nel pieno delle loro forze e con l’assoluta consapevolezza del proprio ruolo. Kerry King non ama troppo esporsi, e anche al Forum, spigliato e deciso solo a menar fendenti, ha fatto il suo dovere, affiancato dal solerte Gary Holt, ma quello che ha gettato il cuore oltre l’ostacolo, con una prova d’altri tempi e una passione che si toccava con mano, è stato Tom Araya, arrivato a congedarsi perfino in italiano, con un “mi mancherete” che ci ha paralizzati sul serio, tanto è stato genuino e toccante, quasi irreale… Fare un resoconto nudo e crudo di uno show finale, di un commiato tanto importante, senza scendere nella retorica più semplicistica, la trovo un’impresa ardua. E forse inutile. Con una band che è già leggenda, che anche a Milano ha saputo alternare tra vecchi e nuovi cavalli di battaglia – il trittico ‘Dittohead’ / ‘Dead Skin Mask’ / ‘Hell Awaits’ e una ‘Chemical Warfare’ tanto violenta e appassionata, quattro brani che di questa serata porterò sempre con me – dando libero sfogo a tutte le inquietudini che alimentano il genere umano. Carissimo Tom Araya, anche voi ci mancherete. Anzi, degli Slayer sentiamo già la mancanza…
FOTO DI ROBERTO VILLANI