Killing Joke @Campus Industry – Parma, 25 ottobre 2018
Il 01/11/2018, di Giovanni Rossi.
È la serata dei Killing Joke, quella che in molti attendevano, perché dopo una carriera tanto sofferta quanto monumentale, oggi si celebrano i quaranta compleanni di questa straordinaria band. Descrivere l’importanza e l’imprescindibilità del quartetto inglese è quasi superfluo, basti solo ricordare quanto artisti come Ministry, Nine Inch Nails, Tool, Metallica e molti altri siano loro debitori, in varie misure. Sì, perché i Killing Joke hanno raccolto le ceneri del punk, le hanno gelosamente fatte proprie e risputate lungo una carriera che li ha presto eletti a band di culto. Ma andiamo con ordine. Al Campus Industry di Parma scaldano subito la serata i Deflore, o sarebbe meglio dire la infiammano. Il duo scatena una raffica di brutale electro industrial sul già folto pubblico. Basso, chitarra e synth a pioggia, per una manciata di brani violenti quanto accattivanti. Sono appena le venti, ma il pubblico c’è e partecipa all’ottimo inizio di serata. Proseguono nel percorso di avvicinamento i Turbowolf, esperta formazione di hard rock inglese carica di carisma e brani uncinanti. Performance potente e coinvolgente, con un suono che spara in avanti le chitarre ed un frontman, Chris Georgiadis, che sa come intrattenere ed accendere. Poi cala il silenzio. Il palco si ammanta della classica luce viola, la candela gialla accesa sul muro di amplificatori di Youth preannuncia l’arrivo del quartetto. Il locale è gremito fino all’ultimo posto, impossibile avvicinarsi alle prime file. Finisce l’attesa e finalmente le note di ‘Love Like Blood’ aprono le danze. Coleman è vestito di nero, la folta chioma sulle spalle ed uno sguardo che definire spiritato è eufemistico: dopo poche note il pubblico è già suo, posseduto da un carisma che ha pochi paragoni. Il muro di suono costruito dalla chitarra di Geordie Walker è monolitico, frontale, una mitragliata che satura l’aria. Il pubblico intona le strofe, canta il ritornello e si unisce a Coleman nella celebrazione liturgica. Il salto temporale tra i brani in scaletta è un’immersione potente nel percorso della band che mostra comunque la presenza di un filo conduttore ben definito tra i primi periodi ed oggi. È così che l’accoppiata ‘Eighties’ e ‘New Cold War’, pur nell’estetica differente, mostra quella matrice comune che ha reso celebre il gruppo, fatta di declamazione, ritmica serrata e metodica frontalità. Poco importa se la voce di Coleman a volte fatica, a volte stenta, il suo timbro rimane inconfondibile ed il magnetismo che sprigiona in ogni modo, dalle movenze, agli sguardi, alla proverbiale impugnatura orizzontale del microfono, è il vero fulcro su cui ruotano i Killing Joke. Ed è per questo che ‘Requiem’ rimane negli anni quell’inno che il pubblico attende con religiosa partecipazione, nonostante i capelli bianchi e le corde vocali che non sono più quelle dei trent’anni. Perché non è il tempo l’unità di misura dei Killing Joke, ma la forza che sprigionano, una grandezza fisica che si compone di contenuti sempre attuali ora come quando sono stati scritti ed una musica che resiste, perfettamente cristallizzata nella dimensione del mito. Paul Ferguson e Youth sono una sezione ritmica compatta e granitica, per tutto il tempo hanno eretto cadenze serrate e veloci, senza mai cadere di intensità. Dopo poco meno di venti brani, Coleman lancia nei bis ‘Wardance’, la celebrazione di un’epoca ed il manifesto dei Killing Joke; quando la sua voce grida “this is music to march to do a war dance” sembra che tutto debba ricominciare e ripetersi all’infinito, come esattamente avviene da quarant’anni memorabili. E con l’ammonimento sinistro della devastante ‘Pandemonium’ cala il sipario su una serata indimenticabile in cui i Killing Joke sembrano dire di essere pronti per accantonare i primi quarant’anni e poi ripartire.