Dish-Is-Nein + The Young Gods @Neuropa Festival (Zona Roveri) – Bologna, 28 aprile 2018
Il 03/05/2018, di Giovanni Rossi.
Più che un live, quello dei Dish-Is-Nein è un rituale, una celebrazione liturgica, viscerale prosecuzione di un cammino iniziato molti anni prima sotto la bandiera Disciplinatha e ripreso ora con nome nuovo e inalterata carica frontale. L’introduzione sulle note di ‘Bandiera Nera’ resetta gli orologi di un pubblico che aveva pazientato 40 anni affollando una Zona Roveri Music Factory in grande spolvero per la due giorni del festival Neuropa. Ma non c’è tempo per la nostalgia, i Dish-Is-Nein sparano subito ad alzo zero il loro nuovo EP che sembra scritto apposta per essere suonato dal vivo. L’impatto dei cinque inediti è diretto, con la violenza di ‘Macht Frei’ e ‘Toxin’ a fare da contrappeso all’evocazione atmosferica di ‘Ultima Notte’ e ‘La Chiave della Libertà’. Ci sono momenti di silenzio e buio in cui la realtà sembra sospesa, il pubblico immobile, completamente rapito, fedelmente asservito alla grande presenza di un carismatico Cristiano Santini. Quando inizia la seconda parte della scaletta, è invece la mano di Dario Parisini a condurre tutti lungo le pieghe di una delle più oscure e vive pagine della storia della musica italiana. ‘Crisi di Valori’, ‘Nazioni’, ‘Milizia’, ‘Addis Abeba’, quattro schiaffi che non hanno perso un grammo della loro carica, pezzi che avevano reso celebre l’amato e odiato nome dei Disciplinatha. La chitarra di Parisini è di una espressività sorprendente, capace di suoni e tocchi unici, ancor più esaltata in questa dimensione dal vivo. E quando tutti aspettano le botte finali, i Dish-Is-Nein piazzano una ‘Up Patriots To Arms’ riarrangiata anni luce rispetto alla hit che li aveva resi celebri e una conclusione ambientale elettronica sulle note di ‘Esilio’ che commuove per delicatezza. Solo un gruppo di questa levatura può concedersi un finale meditativo ed emozionante come questo, dopo un’ora di musica intensa, fisica, nutrita nella dinamica degli opposti incarnata dai clangori industriali delle lamiere percosse da Simone Bellotti e dai vocalizzi eterei della splendida voce di Valeria Cevolani, tutto amalgamato dalla cadenza ritmica scandita dall’inossidabile basso di Marco Maiani. Sono passati oltre trent’anni dall’alba dei Disciplinatha e quanto visto e ascoltato stasera è la perfetta evoluzione di un gruppo che se da una parte ha fieramente puntato sul non ripetersi, al tempo stesso non ha rinunciato alla formidabile capacità di rappresentazione del presente e alla contaminazione sonora. Non è più il tempo delle risse e delle cariche, perché la passata virulenza sacrilega si è sublimata nel disincanto, nell’amarezza, nella disillusione e nella croce, immagine onnipresente e incombente su tutto.
La conclusione della serata spetta agli svizzeri The Young Gods, uno dei gruppi più influenti e originali della musica europea degli anni Novanta, quando l’avanguardia era rappresentata da nomi come Godflesh, Scorn, Treponem Pal. Il terzetto guidato da Franz Treichler è un’impressionante macchina di suoni che annichilisce, distrugge, atterra. Un’introduzione su due bellissimi inediti in cui Treichler imbraccia una chitarra, poi via, a ripercorrere una carriera di incredibile spessore. La spaventosa perfezione di questa band è tutta nella geometrica semplicità di elettronica, batteria e voce, una triangolazione in cui avviene di tutto, quasi sul palco si muovano venti persone contemporaneamente. E invece sono solo in tre. Certo che quando si ha dietro le pelli un batterista come Bernard Trontin, tutto è possibile: dalla sala sembra di sentire fisicamente la possanza dei colpi inferti ai tamburi, tanto è la forza con cui li percuote. Treichler si contorce alternando movenze sciamaniche a passi da ballerino classico, mentre il timbro viscerale della sua voce compone linee magiche, siderali. ‘Skinflower’ e ‘Kissing The Sun’ sono solo due degli inni che i giovani dèi innalzano al cielo, con un pubblico che li segue rapito. “Noi facciamo semplicemente rock senza chitarre”, mi aveva raccontato candidamente Treichler un paio di anni prima, ed è proprio questo il loro segreto: la forma rock in chiave elettronica. Il palco è tutto per loro ed allora la scenografia è scarna, inesistente, tre affilati fasci di luce gialla, uno per ciascun componente del gruppo, unico elemento coreografico sul palco. Con solo quel fascio di luce gialla Treichler riesce a disegnare danze, mima ombre, allunga la mano minaccioso, è l’apoteosi dell’istinto creativo. E non serve altro, perché i The Young Gods hanno in questo la loro cifra esistenziale: l’inspiegabile capacità di scuotere la terra con la spietata semplicità di una brezza notturna.