Judas Priest @Mohegan Sun Arena – Wilkes-Barre (USA), 13 marzo 2018
Il 12/04/2018, di Piergiorgio Brunelli.
Non si suona il primo show di un tour mondiale con un chitarrista nuovo di zecca, Sabbath esclusi, partendo da una piazza importante. Ed ecco che dal cappello dell’itinerario salta fuori Wilkes-Barre, in Pennsylvania. Siamo in collina, in mezzo al nulla, qui si gioca a hockey su ghiaccio e si beve birra. Assolutamente locale, dato che è pieno di piccole fabbriche di birra. L’IPA scorre a fiumi nel pre-concerto… Concerto che ha un lieve ritardo perché i Black Star Riders hanno un inconveniente tecnico che li blocca per un po’, e ne consegue che sia loro che gli svogliati Saxon si trovano lo show ridotto al minimo storico. Mi piace ‘Nosferatu’ estratta dal nuovo album, ma quando hai solo sei canzoni nel set e suoni solo tre classici, beh, è come fosse una garanzia di apatia del pubblico.
Anche se, invece, pare essere un sentimento che non pervade i seimila presenti, la curiosità di vedere come se la cava Andy Sneap è palpabile. Un battesimo di fuoco, stando al titolo dell’album solista di Glenn Tipton, il quale è messo maluccio, a giudicare dal filmato girato una settimana dopo nel New Jersey. Fortunatamente, i Judas Priest hanno appena sfornato un capolavoro di album con ‘Firepower’ e, con tutto quel popò di catalogo da cui sfornare canzoni, non possono fallire le scelte. La scaletta, mi dicono dalla regia, è cambiata una miriade di volte nelle ultime due settimane; E, con il senno di poi, posso dire che il risultato è perfetto nella sua metallica confezione. Come un pacchetto regalo che si apre a poco a poco e ti rifila una legnata, prima di estrarti un dente sano e spararti un proiettile nel cervello…
‘Firepower’ suona brutale, ed Andy si proietta immediatamente a bordo palco. Nessun timore reverenziale. Corre via alla stessa velocità di ‘Running Wild’. Un grassone in prima fila ha già perso cinque chili in sudore, poi arriva ‘Grinder’ ed il malcapitato sviene per lo sforzo. Chi è ancora in piedi si ritrova o le guance strappate o le orecchie sanguinanti… Rob Halford ha un ghigno satanico stampato in faccia, la sua voce alterna toni cupi ad acuti altissimi, come ai bei tempi che furono. Come diavolo fa a mantenere la voce così sana? D’accordo, al centesimo show forse l’età si farà sentire, ma per per ora godiamo di questa assoluta bellezza artistica. Se la sua voce ci ricorda gli anni Ottanta, ‘Sinner’ e ‘The Ripper’ ci ricordano come fossero belli gli anni Settanta, poiché i primi Priest sono sempre una chicca. ‘Lightning Strike’ ci riporta al presente. Per velocità, fa coppia con ‘Running Wild’. E se non ci fossero le sedie, il mosh pit sarebbe infernale! Dalla scatola delle sorprese escono un paio di jolly: la prima è ‘Bloodstone’, che non ci deliziava da quasi trent’anni! La seconda è, invece, una prima assoluta. Rob si avvicina a Ian e gli consegna il testimone per aver suggerito ‘Saints In Hell’. Mai suonata prima, nemmeno nel tour di ‘Stained Class’, storico album a cui appartiene. Per i vecchi fans come il sottoscritto si tratta di un momento da pelle d’oca. E’ epocale, è cattiva, è viscida, nonché un test per Scott Travis che deve mettere il freno a mano e suonare a metà velocità.
‘Turbo Lover’ non manca mai e che, in tal caso, accentua quello che è lo spettacolo nello spettacolo, ovvero lo schermo dietro la band che la suona con un motore digitale alle spalle. Durante la serata ci saranno momenti altamente spettacolari dove l’occhio sarà distratto da quello che succede visivamente dietro alla band.
La canzone spartiacque dello show è ‘Angel’ che in questo tour si alterna con ‘Before The Dawn’, due canzoni che si accoppiano come amanti in un prato anche se hanno venticinque anni di differenza. Bellissima!
Glenn Tipton manca però a tutti. La sua presenza è in ogni nota, in ogni assolo, ma Ritchie Faulkner abbonda di sicurezza e Andy è capace di riempirne le scarpe ad ogni riff. Non è vistoso come Ritchie, il quale strapazza la sua chitarra alla KK dall’inizio alla fine e, almeno stasera, sembra avere un suono meno pieno di quello che aveva Glenn. Più pulito, più metallico. Diversa la chitarra, diversa la pedaliera. Meglio così, perché il basso di Ian Hill risulta talmente spesso che sembra di essere seduti su uno speaker che ti fa vibrare il culo tutta la sera! Una cura dimagrante compresa nel prezzo del biglietto? Ritchie si prende l’incarico di suonare molti degli assoli, svolgendo anche quelle che erano nell’ultimo tour le parti di Glenn. La prova visiva ci viene da ‘Painkiller’ ove lo schermo ci offre il filmato tributo di un concerto passato, in cui è appunto Tipton il solista. Il titolo della canzone, un chiaro riferimento alla sua malattia…
La terza canzone estratta dal nuovissimo full length è ‘Evil Never Dies’, minacciosa, arrabbiata, una bomba! Con Rob nel ruolo di assoluto padrone dello show, detto della sua voce che ha tutti i toni che ti aspetti, ma la sua presenza è diventata ancor più rilevante ora che è il frontman storico, l’unico rimasto. Ian è inchiodato al suo posto nelle retrovie come sempre, Scott è confinato dietro al drum-kit, mentre gli altri sono nuovi. Halford è l’incontrastato Dio. Con i suoi cappotti metallici pieni zeppi di borchie e la sua moto che arriva un po’ prima del solito per la spinosa ‘Hell Bent For Leather’. Cosìccome ‘Electric Eye’ non poteva mancare, e idem dicasi per ‘Metal Gods’ con suggestivi robot che marciano sullo schermo ad imitare il passo di Rob sul palco.
I bis sono classici che più classici non si può, e Rob testa la voce del pubblico prima di ‘Another Thing Comin’’ ottenendo un responso totale. ‘Living After Midnight’ e ‘Breaking The Law’ invece ci ricordano come il metal fosse materiale da vertice di classifiche dei singoli, trent’anni fa. Altri tempi… In una Santa Barbara di luci la band si accommiata, Rob si unisce agli altri solo in un secondo momento, quasi a non offuscare il loro momento di gloria personale, ma se ne resta da solo alla fine. Solo, sul palco a godersi i seimila presenti urlare “Priest-Priest-Priest!”, a marchiare a fuoco un trionfo, super legittimato da una band che pare irresistibile al tempo.