Enslaved + Ne Obliviscaris + Oceans Of Slumber @Traffic Live Club – Roma, 27 Ottobre 2016
Il 01/11/2016, di Redazione.
Enslaved di nuovo a Roma. Non ci venivano da molto tempo. Erano i tempi del Frontiera, nel 1997, ricordate? Chi c’era, allora? Tutti? E quanti eravamo ad accoglierli nel 2016? Gli stessi? Un centinaio di persone. Centocinquanta? Sad but True. Del resto la serata è andata bene, dai. C’era un’atmosfera intima, così friendly under the sign of black mark. Noi del pubblico ci siamo divertiti e loro, gli Enslaved, pure… o se non altro hanno professionalmente inscenato un grande appeal con la gente, un godimento sinuoso nello smaneggio degli strumenti. C’è chi all’uscita mi ha informato che sulle prime canzoni hanno toppato, quando erano in fase di riscaldamento; chi sostiene abbiano spaccato il columbro nelle “old shit songs” come ‘Fennnnnrrris! e chi, tipo me, ha orgasmato dalla prima alla penultima nota. L’altra sera, al Traffic, c’erano genuini amanti degli Enslaved e anche una sfilza di ragazzotti cresciuti a pane, social metal e You Tube con i loro dannati cellulari sempre in mano a fotografarsi tutti insieme inscenando shangai di cornine e lingue biforcute o urlare bestemmie tutti in coro a qualche amico comune, ma cosa vogliamo fargli a ‘sti tipi qui? Li leghiamo al muso del Drakkar e appicchiamo il fuoco?
A proposito di lingua… Vedeste la puntuta mucosa del violinista e mezzo front-man degli australiani Ne Obliviscaris. Mezzo perché ha diviso il micro-palco assieme a un altro cantante dall’aria ‘corvo nero non avrai il mio smalto’. I due rappresentavano una sorta di dualismo tra luce e ombra: pacioccosa gioia energizzata da una parte e misantropia a senso unico dall’altra.. Il più delle volte sembravano ignorarsi pestandosi i piedi nel paniere. Xenoyr, olimpico screamer cimiteriale che teneva capelli sulla faccia facendo sì con tutto se stesso e Tim Charles, angelico e allegrone fighetto con maglione, che passava sopra il cerchio di nera mestizia del compagno e deflagrava tutte le volte tipo un Fiorello d’annata, incitando la gente ad alzare in alto le corna e a far cori tutti insieme di ah! ah! ah! ah! e oh! oh! oh! oh!, ma no, però, così andate fuori tempo, ragazzi! Dai, almeno urlate in controtempo ma state sulla battuta, no?!
I Ne Obliviscaris sono stati spaventosi per livello tecnico e maestosità stilistica, peccato che siano sembrati davvero mal assemblati, come due band rimaste intrappolate nello stesso ascensore. C’era il bassista rosso tiziano che faceva pandàn con il batterista rosso tiziano. I due sembravano fratelli e facevano tanto campus universitario, tra birre, rugby e noia, noia, noia da prendersi tutti a fucilate. L’aria dei secchioncelli non gliela leva nessuno e infatti eccoli che suonano precisini, perfettini, impeccabilini, sprofondando nel vuoto differenziato di scale incessanti e controtempi sbullonanti. Il bassista si chiama Brendan “Cygnus” Brown e rappresenta l’attrazione riccardonesca del gruppo: è una specie di drago del cinque corde (o erano sei?). Tutti aspettano il momento in cui parte a tappettapperuggia tutto solo per urlare dichiarazioni amorose al fuoco eterno ma lo fanno sentire un po’ una scimmia funambola di dita, no? Quello è un musicista, non un giocoliere. Meno intelligibili di tutto e tutti i due chitarristi, malaticci e anemici reietti di millenarie ore trascorse nelle loro camerette a pendere dal metronomo e ora catapultati sul patibolo del rock and roll nelll’altro lato del globo. Eccoli lì, posti come colonnine decò ai lati estremi del palchetto, non belli ma seducenti, sapete? Fraseggianti alla grande, sapete, ma il mixerista è di scuola Harrisiana e quindi vavavuva il basso e abbasso le chitarracce maledette e inutili. Per capire ogni armonia bisognava dargli la Royal Albert Hall a ‘sti qui, comunque: troppe note, troppi cazzi. Il Traffic è un locale piccolo e con un’acustica non eccelsa. da punk. Spesso veniva fuori una baraonda iperinutile ma esteticamente straordinaria. Se il caos e il silenzio si equivalessero, i Ne Oblivescaris al Traffic potrebbero esser stati dei perfetti mimi del rumorismo. Poi, che volete, dopo i primi venti minuti di frenesia brutal-prog, arpeggi tappinginizzati, momenti evocativi col violino, blast-beat, beat-blast, strofe gutturali, ritornelli melodici con luce bianca sparata alle spalle e giù di violino etereo e trascendentalissimo, insomma, non si capiva se fosse mai finita la prima canzone o se stessimo alla terza.
La sensazione è stata simile anche per gli Oceans Of Slumber, messi in apertura. Stile e caratterizzazione estetica precisa ma si distinguesse un pezzo dal successivo. Hanno una cantante che sembra sia stata rapita ai Morcheeba da quattro brutti ceffi metallari. Lei ci prova a dare l’afflato lounge, artistico, inscenando la versione soul dei The Gathering ma loro, brutti e cafoni, finiscono per rovinare tutto con quella gran caciara da scapoccio al culmine di ogni melodia. La cover di ‘Night in White Satin’ dei Moody Blues, messa quasi in chiusura, a ridosso del singolo, è stato il momento più avvincente. Sul serio.
Ma torniamo agli Enslaved. Sensazioni sparse. Attitudine Rock and Roll anche se suonano viking prog. Gibsonismo mulo e setticlavio faffanculo. Calzoni meravigliosi di Grutle: bei zamponi d’elefante su stivalazzi da vaccaro e panza svervegica da birraiolo fino a Helheim, anche se al Traffic gli è andata male: disseminate sul palco, a parte le bottigliette d’acqua, c’era il nettare levitico dell’Eurospin. Dice se le siano comprate da soli proprio come detta il decalogo “When you play in Rome” circolante tra le metal band veterane. When You Play In Rome, You Must bring pure the ass paper if you want clean your ass, cause the romanic localz don’t have a caz of nothing.
Speriamo almeno che la grappa che si è sorseggiato Grutle per buona parte del concerto, tra un pezzo e l’altro, sia stata di livello più alto, magari Conad.
Mutande Underwear in bella mostra oltre la cintola dei calzoni di pelle per il serpente elettrico Arve Isdal, chitarrista per nulla spento da una dieta povera di carboidrati: la sua tartaruga in bello sfoggio sotto le tette toniche e depilate, sembrava viva.
Memorabile trecciona scandita da molteplici legaccini per il batterista Cato Bekkevold (anche se Grutle l’ha presentato come Alberto Tomba), tradito impietosamente dalle tempie in espansione.
Scene madri per Herbrand Larsen, aggrappato alle tastiere e ugolante come una sirena in menopausa nelle nebbie più fiorde. Premio di simpatia e carisma per il norwaissimo Ivar. Maestoso blocchetto di fierezza nordica fin troppo tenero: ecco cosa succede quando al bear togli lo zerk!
Per concludere va registrata la presenza di sei donne in tutta la voliera, inclusa mia moglie e un’altra fotografa che aveva un pass più pass del suo e poteva accedere anche al palco e quello che c’era dietro. Le altre quattro pischelle erano piccoline ma ben messe. Buona serata per fottersi l’udito, in ogni caso.
Foto MARA CAPPELLETTO