Vince Pastano & Noisebreakers – Il silenzio della notte e il suono dell’anima
Il 28/03/2025, di Fabio Magliano.

In un mondo saturato da melodie effimere e da ritmi incalzanti, poche opere riescono a trascendere il mera intrattenimento, toccando invece le corde più profonde dell’anima. È in questo contesto che si inserisce ‘Nocturnal’, il nuovo album di Vince Pastano & Noisebreakers. Un’opera che si erge al di sopra del consueto, un viaggio sonoro che invita l’ascoltatore a esplorare le sfumature della notte, non solo come un momento di oscurità, ma come uno spazio di riflessione, vulnerabilità e scoperta interiore. Questo album è molto più di una semplice raccolta di canzoni; è un rituale catartico, una manifestazione della fragilità umana e dei conflitti interiori che tutti affrontiamo, ma che raramente osiamo condividere. Vince si mette a nudo, svelando le ferite, le ansie e le speranze che caratterizzano la sua esistenza e, in un gesto di autenticità raramente riscontrabile nell’odierna industria musicale, invita l’ascoltatore a viaggiare insieme a lui lungo un sentiero di introspezione. È un album che richiede tempo, un’attenzione profonda che si oppone alla frenesia dei nostri giorni, e per questo colpisce in modo tanto potente quanto intimo. Le sonorità avvolgenti e le liriche sincere di ‘Nocturnal’ riescono a far emergere emozioni spesso dimenticate, rendendo palpabili le vivide esperienze vissute da chi scrive e, in tal modo, stimolando una riflessione collettiva sulle vulnerabilità che uniscono l’umanità. La notte, con le sue ombre e i suoi silenzi, diventa un palco in cui i demoni personali si rivelano e, nel contempo, si trasformano in strumenti di liberazione e di confronto. In questa intervista, avremo l’opportunità di immergerci nel mondo di Vince, comprendendo non solo il significato di ‘Nocturnal’, ma anche cosa significhi per lui creare musica come atto di resistenza e di autenticità. Scopriremo i luoghi oscuri che ha esplorato e come questi abbiano plasmato la sua visione artistica. In un dialogo sincero e profondo, Vince ci darà la possibilità di conoscere non solo l’artista, ma l’uomo dietro le note, un’anima che si impegna a tradurre il dolore e la bellezza dell’esistenza in melodie che risuonano nel cuore di chi ha la fortuna di ascoltarle. Preparatevi a un viaggio che, attraverso il buio, guida verso la luce.
‘Nocturnal’, come scritto in fase di recensione, è un lavoro che necessita di più ascolti per essere assimilato e per poterci entrare dentro totalmente. Non pensi che questo “spessore” rischi di perdersi tra le decine di uscite discografiche quotidiane e con la superficialità che spesso caratterizza gli ascoltatori?
“Oggi è tutto più semplice con l’autoproduzione, ma allo stesso tempo è come una giungla. Secondo me i curiosi ci sono ancora, io sono uno di questi. Io sono onnivoro, passo ore al computer, navigando da un link all’altro, e lo faccio con enorme soddisfazione, come se fosse una ricerca etnomusicologica, però sono consapevole che non è facile. Io spendo soldi per la musica, così come li spendo per vedermi un bel film, se la cosa mi interessa non mi faccio problemi, però non è così per tutti. Siamo diventati pigri e bisogna andare a suscitare curiosità là dove potrebbe esserci interesse. Ma dobbiamo essere bravi a riuscire a farlo”.
Tu hai smosso questa curiosità attraverso un disco decisamente profondo, delicato, sofferto, che la dice lunga sul tuo spessore artistico e umano. Che sensazioni hai provato una volta avuto in mano questo lavoro?
“Fabio, immagina una persona che scrive un disco finalmente con la serenità di poterlo fare in due anni anziché due mesi. Io mi sono sempre immaginato che la volta scorsa non fosse andata così bene, perché il disco era stato fatto con la fretta di un tour che doveva partire dopo due mesi e mezzo. Dovevamo fare il disco in quel breve tempo, mentre questa volta è stato diverso: non avevamo nulla di programmato, ci siamo messi lì per scrivere delle canzoni. In due anni puoi metterci tutto quello che vuoi, se hai voglia di spogliarti, di mostrarti. Altrimenti puoi sempre fare il solito disco che abbiamo già sentito negli anni ’70, che all’epoca era figo, ma oggi non si può più ascoltare. Ecco perché, a mio avviso, le cose più belle sono quelle dove senti davvero quella che io chiamo ‘la sofferenza’. In realtà, sono quei momenti in cui percepisci il sottotesto.”
Il disco è stato promosso recentemente dal vivo. Come è stato recepito un lavoro simile dai fan, tenendo conto che molti ti associano inevitabilmente a Vasco Rossi e cercano nella tua musica un certo rock che, spesso, qui passa in secondo piano a favore di soluzioni più intimistiche e sperimentali?
“Mi sono reso conto che ai nostri concerti, quelle cento persone che ci sono, alla fine ritornano. Questo significa che c’è un momento all’interno del concerto, che dura magari un’ora e quaranta, che riesce comunque a catturare tutti. Cattura quelli come te e me, che sono un po’ più preparati e hanno il palato fine, e poi c’è il momento anni Settanta, più facile, con l’assolo, e chi si approccia per la prima volta a questa realtà non aspetta altro. Aspettano quel rock che potrebbe ritornare in Vasco, tu che suoni la chitarra con la posa del guitar hero… loro rivivono quel momento. C’è un equilibrio. Il problema è che in Italia tutto questo è numericamente limitato, ma a quasi cinquant’anni non ho più voglia di farmi questi problemi, me li sono fatti per anni, poi ho smesso. Ho detto: ‘abbandonati, fai quello che devi fare se ne hai voglia, se no non farlo’. Tant’è che questo disco l’abbiamo promosso dopo… Era pronto da un anno e mezzo e avevo anche qualche remora per suonarlo dal vivo”.
Durante il nostro incontro a Milano si era parlato del tuo eclettismo artistico, una dote che emerge chiara in questo tuo nuovo lavoro. Pensi che il tuo bisogno di sperimentare, di suonare cose nuove sia alla base di ‘Nocturnal’?
“Avevo creato un progetto, i Malacarna, qualcosa al quale il pubblico di Vasco difficilmente sarebbe arrivato perché era qualcosa di estremo, una sorta di Almamegretta 3.0. In quel progetto ho sperimentato forse ancora di più che oggi. Paradossalmente i pezzi rock del disco sono quelli che mi piacciono di meno, li faccio perché so che dal vivo sono quelli che tirano di più, quelli che fanno battere il piede alla gente. Poi ci sono i pezzi da affinare. Mi piace molto la poesia, quindi dove c’è poesia, lì c’è il pezzo che mi dà la possibilità di esprimere chi sono davvero, e non parlo dal punto di vista tecnico. Dietro certi pezzi c’è di più della bravura stilistica, c’è la sofferenza, ci sono emozioni forti, c’è qualcosa che va oltre. Proprio per questo, rispetto alla volta scorsa, ci siamo presi tutto il tempo che volevamo. Volevamo che il songwriting fosse più fuori dagli schemi rispetto a quello del disco precedente. Ecco, era lì che volevamo arrivare. Io volevo arrivare a questo, e volevo dimostrare a me stesso che ero capace di scrivere una canzone emotivamente più forte di quella che avevo composto prima. E’ un confronto costante con me stesso ed è per questo che, quando leggo certe recensioni che spendono parole lusinghiere per il disco, mi riempio di gioia, perché significa che non sono un visionario, che quelle emozioni sono reali e sono riuscito a metterle e a trasmetterle nelle mie canzoni. La cosa che mi fa sorridere è che all’inizio, quando uscì il mio primo disco, alcune recensioni dicevano che era “un disco che non si capiva dove volesse andare a parare”. Oggi questa percezione anche grazie alla popolarità che mi da Vasco si è ribaltata, oggi sono “l’eclettico produttore e chitarrista di Vasco”, ma eclettico io lo sono sempre stato, in quanto ‘onnivoro’”.
‘Nocturnal’ è un lavoro incentrato sulla notte e sulle sensazioni che essa evoca, andando a ricreare un caleidoscopio di suoni e sensazioni davvero intenso. Il pensiero è che dietro ci sia molto di più di un’esigenza di sperimentare suoni nuovi e scrivere canzoni…
“È un disco notturno, Fabio. La notte la vivo in maniera un po’ contrastante, è qualcosa di molto intimo. È chiaro che, se uno sta molto male, è perché ha dei demoni dentro. Quando scrivi un pezzo come ‘Darkest Night’, o ‘There Ain’t No Love’ stai affrontando l’abisso. Quello è un abisso. ‘There Ain’t No Love’ arriva dal progetto Malacarna, e nasce in inglese, come tutti i pezzi di Malacarna. Tony non ha dovuto ricantare nulla. Io ho solo tolto un po’ di quella ‘polvere industrial’ che c’era sopra per renderlo più omogeneo, più rock. Ma si sente ancora che ci sono momenti estremi. ‘There Ain’t No Love’ è un girone dell’inferno. ‘Dead Calm Sea’ come dice il titolo stesso, trasmette una calma apparente. Questo pezzo lo vedo come un film di David Lynch. È quel tipo di non-sense che ha un senso solo per chi lo scrive, ma non per chi lo ascolta. Se leggi il testo, c’è una sorta di controsenso. Quindi, questo mare è silente o no? Sì, è silente, ma è pericoloso. Il pezzo è sinistro, proprio per questo. Non è calmo. È notturno, è sinistro. Un po’ come in ‘The Porthole’, un pezzo strumentale di due minuti; anche lì c’è una calma che poi si trasforma. Le cose sinistre emergono soprattutto di notte, questa è la mia opinione. Al mattino siamo troppo distratti per fare cose normali, quotidiane. Di notte, invece, si risvegliano cose in tutti noi, e si pongono delle riflessioni, come nel caso di un pezzo come ‘Dead Calm Sea’. Poi ci sono testi che fanno parte della cultura di Tony, legati a pezzi tipici del rock anni ’70, come ‘The Gambling Witch’. Lì c’è tutta la sua cultura, legata al blues, alla tradizione rurale. Ma la sua cifra stilistica, la trovi in altre cose. La trovi quando soffre, in brani come ‘Red Pain Novel’. O nella semplicità dalla quale emerge tutto il suo amore per i Doors. ‘Love Me No More’ è un pezzo semplice, dove si sviscerano le strofe. Ecco, lì c’è una maturità tangibile”
Hai detto di aver impiegato due anni a fare uscire questo disco. Non pensi che questa possa essere un’arma a doppio taglio? Voglio dire, sei un musicista affamato di musica, ascolti di tutto e sei costantemente aggiornato e musicalmente in continua evoluzione, non pensi che dopo due anni le composizioni più datate possano suonare “vecchie” rispetto alla tua attuale visione della musica?
“Eh sì ci sono dei pezzi che cambieresti anche una settimana dopo. La mia fortuna, però, è che essendo il produttore di questo disco, ho potuto mettere in pratica un grande insegnamento ricevuto da Guido Elmi. Quando sei produttore, devi avere il coraggio di assumerti la responsabilità enorme di dire basta. La parola ‘basta’ significa fine. Da lì in poi, potrei rovinare tutto. Ho assistito a molti cambiamenti forzati che hanno ridotto la qualità del lavoro, e alcuni di questi li ho fatti io stesso su cose mie, e ho imparato la lezione. Ho detto: ‘Sai che c’è? In questo momento, questo pezzo ci rappresenta, mi rappresenta, basta’. Quindi basta, è così. Poi, nel corso di questi due anni, qualcosa è cambiato, alcune cose le ho riaperte, ma se una cosa ti fa commuovere, vuol dire che va bene. Poi ci sono cose su cui il produttore non può fare a meno di riflettere: ‘Ah, qui avrei messo un suono diverso, un po’ più lungo alla voce…’. Ma poi pensi: ‘Vabbè, mica devo crepare oggi. Domani farò un altro disco’. Ecco, da questa cosa capisci che stai crescendo, che hai compreso l’errore e che la prossima volta non lo rifarai. A volte bisogna avere la maturità di dire basta, questo è, andiamo avanti.”
Ma i testi sono opera tua o del cantante Tony Farina?
“I testi sono di Tony. Io, quando compongo, come capita spesso, uso il ‘finto inglese’. Ad esempio, nel caso di ‘Darkest Night’, il testo era già scritto, poi lui l’ha sistemato, proprio perché, appunto, se non componi solo la musica e l’armonia ma anche la melodia, ti viene naturale cantare in ‘finto inglese’. Quindi, metà delle volte dai uno spunto fondamentale, al punto che a volte c’è solo bisogno di correggere la grammatica. Ma poi l’atmosfera l’hai già catturata tu, tu che l’hai appuntata sull’iPhone. ‘Darkest Night’ forse è l’esempio massimo che potrei fare.”
Ci sono dei momenti molto intensi, che richiamano la crudezza del blues, ma anche passaggi estremamente intimi. Volevo capire se fosse stato naturale riuscire a bilanciare questi due aspetti, o se sia stato difficile trovare il giusto equilibrio…
“C’è un filo conduttore ben preciso e poi ci sono le varie sfaccettature. Ho avuto molte difficoltà a fare la scaletta, perché dopo i primi tentativi avevo la sensazione di avere tra le mani un disco un po’ strano dal punto di vista della coerenza artistica. Secondo me la svolta c’è stata quando ho avuto il coraggio di dire ai ragazzi che questo disco si sarebbe dovuto intitolare ‘Nocturnal’. Primo perché questo è un pezzo che rappresenta a livello atmosferico tutto il disco; se prendi ogni singolo brano e lo analizzi ti rendi conto che tutti finiscono per linkarsi a ‘Nocturnal’. La parola “Nocturnal” di per sé non ha un significato preciso, ma evoca quella sensazione che ho sempre provato quando lavoravo di notte, pensando a tutte le cose che si possono fare in quel periodo e a quanto le sofferenze, spesso, si manifestino più intensamente in queste ore. L’atmosfera di questo brano, al di là del titolo, può essere creata solo se la composizione avviene durante le ore buie. Sono convinto che solo in questo momento ci sia qualcosa che ti può arrivare, e non si tratta semplicemente di calma. Io vivo queste ore in modo diverso; c’è chi cerca serenità tra le lenzuola, mentre io rimango sveglio fino alle tre, a volte con la chitarra in mano per comporre, altre volte a confrontarmi con pensieri profondi, non sempre piacevoli. È di notte in cui ti ritrovi faccia a faccia con il tuo io più nascosto. Non voglio banalizzare il discorso, ma è difficile descrivere le sensazioni di questo disco. Qui dentro c’è la colonna sonora di quello che io e i ragazzi abbiamo passato negli ultimi due anni, i patimenti, le sofferenze”.
E’ una banalità dire che la musica in alcuni casi può essere terapeutica o aiuta veramente nei momenti bui della propria vita?
“Beh, aiuta. Aiuta chi la fa, perché ti permette di liberarti di un pezzo, di una fetta di te che poi rimane lì. Ogni volta che lo ascolto, magari mi fa venire da piangere, ma se ci pensi, non piangi più perché ormai sei riuscito a tagliarti quella fetta e soprattutto sei riuscito a esprimerla con il linguaggio a te più congeniale. Nel mio caso specifico, non è il verbo; io non sono bravo a parlare, mi esprimo con la musica. Quando quelle poche volte ci riesco, piango perché dico: ‘Cazzo, finalmente piango!’. Piango se riesco a mettere in musica la felicità, la tristezza o quel senso che mi dà qualcosa a livello emotivo. Quando ci riesco, penso di liberarmi di qualcosa.”
Metterti a nudo in questo modo, andare così in profondità, è liberatorio oppure è difficoltoso? Nel senso che, quando hai questi demoni, questo peso addosso, suoni e lo sfoghi, lo tiri fuori, oppure c’è una sorta di pudore a frenarti?
“No, no, lo suoni e lo tiri fuori. Durante le prove è successa una cosa molto bella. Qualcuno del gruppo si è messo a piangere mentre suonavamo. Non è una cosa che capita facilmente tra maschietti, perchè siamo un po’ stupidi, ci vergogniamo a piangere perché pensiamo di dover essere duri. Però, quando inizi a suonare, ti rendi conto che quel pezzo lì non significa solo quattro accordi e un testo, ma evidentemente per te significa qualcos’altro. Rimane l’amarezza che questo senso di spontaneità, questo mettersi a nudo, non arrivi a molta gente. Non per presunzione, perché non sto dicendo che i pezzi sono belli, sto dicendo che sono veri, che è diverso. Quindi, chissà quanta gente prova la sofferenza o la gioia che c’è scritta in questo pezzo. Io ne conosco tanta, potrei fare nomi e cognomi. Sono venuti ai concerti e hanno pianto. Dico, se quella stessa cosa si riuscisse a moltiplicare, sarebbe forse l’unica soddisfazione. Perché non sarebbe nemmeno una questione economica, non voglio parlare di soldi. È il discorso terapeutico di cui parlavamo prima: una sorta di terapia di massa”.
Però non è tutto buio come sta emergendo da questa chiacchierata. Un brano come ‘Lord Pray For Me’, ad esempio, è un gospel che trasmette una buona dose di energia…
“Tra l’altro, la versione in dialetto era cantata da Raiz, bellissima, ma siccome noi commercialmente non siamo troppo furbi, abbiamo deciso di pubblicare la versione originale cantata da Tony… un po’ come farsi un autogol. Se tu analizzi il testo di ‘Lord Prey for Me’ nemmeno questo pezzo finisce benissimo. Non c’è dubbio che sia un gospel, però testualmente è disperato. C’è la disperazione, c’è un uomo che sta urlando come un matto, sta chiedendo salvezza per tutti”.
Spesso tiri fuori riferimenti al cinema, quindi non è un caso se in fase di recensione ho trovato un che di cinematografico nei brani di questo disco…
“Io sono un patito di cinema. Spero tanto che un giorno qualcuno mi chiami per una colonna sonora, visto anche il lavoro che faccio con Vasco… l’intro, l’interludio, le intro delle canzoni, le sonorizzazioni che a volte sembrano rubate da Roger Waters, in termini di rumoristica. Quello che faccio è tutto di derivazione cinematografica. Ho fatto una miriade di dischi strumentali, penso di averne fatti 5-6, ma nessuno mi ha mai considerato, alla fine chiamano sempre gli stessi. A me va bene, vuol dire che sono bravi. Io continuo a sperarci, in questo disco ci sono diversi pezzi che starebbero bene in una colonna sonora per quella che è la loro natura. Penso a ‘The Porthole’ con la tromba suonata da Tiziano Bianchi, un brano di due minuti perfetto per la colonna sonora di un film degli anni ’60, o il minimalismo chitarristico di ‘Nocturnal’… insomma, io ci provo.”
‘Nocturnal’ è un pezzo che è palesemente molto importante per te, lo hai citato più volte nel corso dell’intervista, però hai deciso di aprire il disco con ‘Darkest Night’. Come mai questa scelta? Forse perchè questo brano ha un significato particolare per te, sia da un punto di vista personale che musicale?
“Nel contesto del disco tutto può essere collegato a ‘Nocturnal’, ma questo è un pezzo difficile anche da collocare, perché i brani strumentali non piacciono alla gente, li snobbano, e quindi non sai dove metterli. Io volevo partire con ‘Nocturnal’, poi ho pensato ‘No, la gente penserà che abbiamo fatto un disco strumentale, in più è la title track’, quindi non potevamo iniziare da lì. Poi ho pensato a ‘The Gambling Witch’ come opener, ma quello è un pezzo che richiama il rock degli anni ’70, un tipo di musica che facciamo dal vivo e che abbiamo già fatto nell’altro disco. Però questo non è un disco che va in quella direzione, è un disco che tende al nero. Allora ho deciso di aprire con ‘Darkest Night’, che tra l’altro è stato uno dei primi pezzi che ho scritto, in un momento di grande amarezza legata a una relazione. Non una relazione amorosa, ma una relazione lavorativa. Quando finisce la stima, anzi, quando si va oltre la perdita della stima, quando blocchi una persona, congeli un rapporto e poi pensi, rifletti e ti chiedi: ‘Ma io, in tutti questi anni, con chi ho avuto a che fare?’. Ero talmente depresso per questa situazione nella quale non ci sono soldi di mezzo ma solo coinvolgimenti emotivi, che è venuto naturale scrivere ‘Darkest Night’. E’ il pezzo che rappresenta il soul del disco, perché in quel periodo ascoltavo molta soul music. È un brano che per tre quarti trasuda sofferenza, Tony la esprime con il canto blues-soul, e alla fine la esprimo io con la chitarra, con questa esplosione di poche note. Non è un assolo virtuoso, ma è un assolo sofferto. Un passaggio che probabilmente cambierei, ma che alla fine ho deciso di lasciare così. In quel momento stavo sentendo quel dolore e sono riuscito a esprimerlo in quel modo. Oggi, forse, quella terapia mi è servita un po’, ma se dovessi rifarlo lo farei comunque allo stesso modo. Mi piace molto più ascoltare quello che provavo in quel momento. Infatti, dal vivo non lo cambio, lo faccio così perché ho visto la gente piangere e questo vuol dire che qualcuno sta vivendo ancora qualche dolore simile a quello che ho vissuto io.”
Come te anche io ho sempre vissuto la prolificità della notte. Ho sempre scritto maggiormente di notte che non durante il giorno, forse perché nella quiete, nella calma che solo la notte può portare, i pensieri fluiscono meglio, mentre durante il giorno le contaminazioni di ciò che ci sta attorno finiscono per condizionare il nostro lavoro…
“Durante il giorno abbiamo, secondo me, la fortuna di avere un altro tipo di sensibilità. Anche se avessimo solo quella, saremmo fottuti. Al contrario, la notte ci regala intuizioni differenti che arrivano solo grazie a non so cosa. Non è solo una questione di tranquillità. È qualcosa che ha a che fare con l’astrale, con qualcosa di spirituale. Credo molto in questa cosa. Quindi penso che ci sia una non casualità, che alcune cose, alcuni pensieri, alcune poesie, alcuni testi, alcune musiche, alcune sceneggiature possano nascere solo di notte. Io, David Lynch, che si mette a scrivere al primo mattino, non lo vedo proprio…”
L’hai già citato diverse volte nel corso della chiacchierata, quindi è uno dei riferimenti.
“Ma sì, è uno dei riferimenti, esatto”.
Insieme a Nick Cave…
“Si, sulla musica, potrei dirti Nick Cave. Ultimamente lo seguo molto e penso di essere entrato molto in empatia con lui a livello testuale. Dopo la morte dei due figli, si è sentito il cambiamento. Ha fatto due o tre dischi che erano delle vere e proprie messe, almeno, io li ho sempre considerati tali. La prima volta che ho sentito ‘Ghosteen’ su YouTube, ho passato un’ora a piangere, perché quella roba è un testamento. È una sofferenza che puoi esprimere solo così…la perdita di un figlio. Lui, se si è salvato, lo deve alla scrittura. Quindi tu ti salvi solo se scrivi una messa quando ci sono cose così gravi. Ma pensa a chi non è in grado di scrivere e subisce una perdita, come quella di un figlio, che è la cosa più atroce che possa capitare. Lui si è salvato con l’arte, con la scrittura, ed è prolifico. E secondo me ha la fortuna, tutta meritata, di avere dei fedeli, tra cui ci sono io, che piangono per le sue disgrazie, che soffrono empaticamente, che riescono a captare quello che sta provando l’uomo”
Abbiamo parlato di Nick Cave perché alcune atmosfere malinconiche tipiche della sua musica, alcuni passaggi sofferti sono riscontrabili nella tua produzione, però penso sia riduttivo per un “pozzo musicale” come te, limitarsi ad un singolo nome…
“No, anche perché Nick Cave è solo uno dei miei molteplici ascolti. Faccio un esempio specifico. ‘Nocturnal’, per me, è Neil Young. Quella chitarra lì nasce da come suona Neil Young con l’acustica, semplicemente è una sua versione più oscura. Io lo conosco, lo adoro, forse è tra i primi cinque artisti per me, quindi è una sorta di omaggio a Neil Young. Lui ha scritto ‘Harvest Moon’, ha scritto delle dichiarazioni bellissime. Ma c’è altro in questo disco. ‘Red Pain Novel’ è un omaggio agli U2. Forse la sparo grossa, ma io dico sempre che per me gli U2 sono molto più importanti dei Led Zeppelin. È un gruppo che è riuscito a fare una marea di dischi e canzoni straordinarie in un periodo in cui c’erano già stati i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin, i Pink Floyd e tutto il mondo del pop degli anni Ottanta. Pazzesco, bellissimo. Loro a metà degli anni Ottanta, insieme a due produttori straordinari, si sono inventati qualcosa di incredibile. Un altro gruppo che ascolto e mi do del folle per non avergli dato una chance all’epoca sono i Blur. L’altro giorno ascoltavo un pezzo che si intitola ‘No Distance Left To Run’ e mi rendo conto che è un piccolo capolavoro. Nella loro semplicità, nella loro schiettezza, erano dei geni. Però negli anni Novanta, quando sono usciti, non gli ho dato il giusto peso. ‘Red Pain Novel’, per me, è un omaggio agli anni Novanta, con quell’atmosfera che magari oggi non c’è più”
Ti è mai capitato di avere un’illuminazione mettendo i tuoi patimenti in musica? Una soluzione che non trovavi ragionandoci su in modo razionale ma che hai trovato invece affidandoti al tuo lato più irrazionale, magari componendo con una chitarra in mano…
“Io credo che ci siano cose che possano guarire prima se si ha la capacità di esprimerle in altri modi, senza nemmeno parlarne direttamente. La forma musicale, la forma arcaica, quella arriva forse prima di ogni altra forma. C’è il suono prima di tutto… a mio avviso la forma più rapida per essere compresi è la musica, prima ancora del testo. E qui qualcuno potrebbe volermi crocifiggere, magari anche Vasco, ma io sono a favore, sono pro-musica: è la musica che ti condiziona l’animo. Se poi ci metti un testo che si abbina alla musica, è fatta. È il colpo perfetto. Lì hai raggiunto tipo il Nirvana, sei un genio. E vabbè, ma lì stiamo parlando di casi rari, infatti in Italia ce ne sono pochissimi. Non cito Vasco per non fare la sviolinata al datore di lavoro, però lui sicuramente è uno di quelli. Ma, nell’ambito musicale degli autori veramente incredibili, ci sono anche Neil Young, Bob Dylan, Roger Waters… questa è la gente che scrive di cose vere.”
Collegandomi al tuo discorso di “suono come forma più rapida per essere compresi” posso dirti che io lavoro da anni con l’autismo e soggetti con grandi problemi comunicativi, spesso non verbalizzati, si attivano con la musica, battendo le mani, ballando, addirittura cantando… ed allora capisci realmente che la musica può arrivare là dove altri mezzi non arrivano…
“Questa cosa che hai detto è proprio la fotografia massima. La musica, se parliamo di quella arcaica, tipo la musica gregoriana, prima di aggiungere suoni come l’organo, proprio a cappella, era un modo che io sento un po’ perduto. Ne parlavo con uno studioso l’altro giorno, che spiegava che loro cantavano, ma non cantavano casualmente. Stiamo parlando dell’inizio del canto, e l’unico modo per arrivare a Dio erano spesso dei simboli numerici. Quindi la musica veniva cantata in forma numerica, espressa con numeri, e a ciascun numero veniva associato un suono. La somma di questi numeri, però, ti portava su. Quindi stiamo parlando di canto arcaico, di una delle fonti di spiritualità. L’unico modo per uscire dalla banalità del terreno e andare verso qualcosa di più elevato. Loro ragionavano così, ma sempre di canti stiamo parlando, non di parole. Addirittura, in questo caso specifico, canti composti secondo una logica che avrebbe portato il monaco o il frate di turno in una sorta di trance spirituale. Però io ci credo, ci credo profondamente. Chiaramente tutte queste nozioni possono sembrare delle riflessioni astratte, ma non lo sono quando trovi una testimonianza come quella che hai appena fatto. Quindi non è che funziona solo se sei religioso, funziona e basta. Un medico o uno psicologo potrebbero spiegarcelo, ma io sono convinto che quelle siano solo teorie”
Magari direbbero che si tratta solo di un riflesso condizionato, perché battere le mani o il piede al ritmo della musica è quanto di più naturale possa esserci, magari è qualcosa di inconscio…
“Non credo nel riflesso, credo che la musica, il suono, siano qualcosa che ci portiamo dentro, forse anche da altre vite. Non è che ce le siamo inventate oggi, o non ti spieghi come mai alcune persone, come Frank Zappa, arrivano dal nulla, creano delle cose e poi se ne vanno. Poi arriva Hendrix, dal nulla, ha preso il blues e lo ha trasformato, è arrivato come un uragano e poi se n’è andato. Prima di loro possiamo parlare di Bach, di Mozart… ma come fa un semplice essere umano a fare tutto questo? Poi tutto è diventato più semplice con l’avvento del pop, con i Beatles. Io amo i Beatles, ma alla fine è diventato tutto un gioco di quattro accordi. La musica classica, però… come facevano questi personaggi a scrivere musica per 70 elementi? Come facevano a 25…30 anni ad avere tutta questa competenza? Poi tu la puoi chiamare come vuoi, ma per me è una reincarnazione di qualcosa che veniva da prima. Noi siamo qui per una ragione, questo è il senso, almeno per me, in relazione alla musica. Queste persone sono arrivate per delle ragioni e poi se ne sono andate in fretta, sono arrivate per trasmettere qualcosa, per darci qualcosa, perché qualcuno ha detto loro di farlo. Sono come dei tubi vuoti, dei flussi che arrivano da chissà dove, probabilmente molto, molto più pieni di energia di me, pronti a riversare tutta questa estasi musicale. E quella era l’opera compiuta di quell’uomo, di quell’essere terrestre. Poi, per loro, non aveva più senso andare avanti. Anche per Hendrix, che senso aveva continuare? Aveva fatto quello che doveva fare, aveva creato quei dischi che ancora oggi stiamo studiando, cercando di capire il perché. Perché? Nessuno lo ha capito, lo imitano solo. Nessuno ha mai studiato il motivo per cui questo poveretto, senza soldi, senza una madre, abbandonato, facesse quelle cose. Queste sono le cose che dovremmo cercare di spiegarci. Ma alla fine, andiamo sempre a parare con la non risposta. Un medico potrebbe dirti la sua, ma sarebbe solo un’opinione. Come fa un ragazzo autistico a sbloccarsi ascoltando musica? Come fai tu, con i tuoi studi, a spiegarmi questo? Forse se avessi studiato etnomusicologia potresti dirmi qualcosa di più. Forse, la combinazione di persone giuste potrebbe darmi qualche risposta. Forse sono un po’ polemico, perché l’argomento è davvero vivo in me, in generale, perché io vivo la musica così.”
Per chiudere questa conversazione così intensa e ricca di riflessioni, mi viene da dire che la musica, come una lingua universale, va oltre le parole, i concetti e le logiche razionali. È una forma di comunicazione che attraversa il nostro corpo, la nostra mente, la nostra anima, toccando corde che spesso nemmeno sappiamo di avere. Quando Vince parla di suoni che arrivano da “altre vite”, sembra suggerire che la musica non è solo una creazione umana, ma una forza ancestrale, qualcosa che ci collega a un’essenza più profonda e misteriosa. Forse è proprio in quel mistero che risiede il suo potere di risvegliare emozioni, di farci entrare in contatto con aspetti di noi stessi che altrimenti resterebbero nascosti.