Lee Aaron – Scritto sulla pelle

Il 26/07/2024, di .

Lee Aaron – Scritto sulla pelle

Lee Aaron è, a modo suo, una leggenda del rock. E’ un’artista che, pur attraversando trasversalmente il mondo del metal, ha saputo ritagliarsi il proprio spazio, cucendosi addosso l’etichetta di “Metal Queen” (anche se in modo improprio, come vedremo) e aprendo di fatto la strada a moltissime rock woman negli anni a venire. Perchè Karen Lynn Greening ha avuto il coraggio di lanciarsi in un mondo, quello dell’hair metal degli anni Ottanta, quando le cantanti donne si contavano sulla punta delle dita e le ragazze trovavano spazio giusto in bikini in qualche video dei Motley Crue o in reggicalze su qualche copertina dei Ratt, e lo ha fatto in una scena, quella canadese, ancora in attesa di esplodere e di lanciare i suoi big in tutto il mondo. Lee Aaron lo ha fatto, ha lanciato la sua sfida al maschilismo dominante con il singolo ‘Metal Queen’, ha riscosso un buon successo tra gli anni Ottanta e Novanta poi, con il cambio di gusti e scena musicale, ha saputo reinventarsi, mettendo le proprie notevoli doti canore al servizio del jazz, dello swing e del blues, non ha avuto timore di contaminarsi dando così alla luce un paio di album di classe eccelsa sempre con a fianco il marito batterista John Cody (anche cotanta longevità sentimentale è cosa rara nel mondo del rock). Come diceva qualcuno, però, “certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano”, quindi dopo aver assaporato la gioia di una doppia maternità, nel 2016 ritorna a fare rock pubblicando una serie di dischi ancora una volta eccellenti, l’ultimo dei quali, ‘Tattoo Me’ da poco uscito, la vede reinterpretare a modo suo alcuni classici del rock. Un ottimo pretesto per contattarla e ripercorrere con lei in un’intervista/fiume una carriera affascinante e ben poco canonica.

Benvenuta su queste pagine Lee. Il pretesto è la pubblicazione del tuo nuovo album di cover ma, se sei d’accordo, vorrei intraprendere con te un viaggio attraverso la tua carriera e la tua musica che, come vedremo, è davvero varia e multiforme…  

“Grazie per questa possibilità! Assolutamente sì, grazie per avermelo proposto! Non molte persone sono interessate a compiere un simile viaggio. Di recente ho fatto un’intervista con una rivista californiana chiamata Stereogum. Hanno voluto ripercorrere il video di ‘Metal Queen’, fotogramma per fotogramma, e farsi raccontare come fosse stata quell’esperienza. È stata un’intervista molto divertente, ma trovo che sia stimolante poter ripercorrere tutta una carriera e non fermarsi su una singola canzone!”.
L’idea che ho da sempre di te, è quella di una pioniera… al quadrato. Sei stata una delle prime donne ad affermarsi nel mondo del metal, e sei anche stata una delle prime a portare linfa vitale ad una scena rock come quella canadese, oggi decisamente florida ma, all’epoca, sicuramente più ristretta. Che effetto ti fa se ci pensi?
“Ti ringrazio per queste parole! Onestamente non mi sono mai vista come una pioniera, perchè ci sono state artiste prima di me alle quali io stessa mi sono ispirata. Janis Joplin e Ann e Nancy Wilson delle Heart, Grace Slick dei Jefferson Airplane….anche Debbie Harry. C’erano donne che facevano rock, non molte e non facevano musica dura, ma sicuramente hanno aperto la strada per tante cantanti come me. Poi siamo arrivate io, Doro, le Runaways, le Girschool… eravamo una manciata di gruppi, all’inizio degli anni ’80 era tutto lì l’hard rock al femminile. Però solitamente non vado in giro a darmi una pacca sulla spalla e a lodarmi di essere stata una pioniera… Sono stata ispirata a diventare una rocker da Ann e Nancy Wilson e da Cherie Currie nelle Runaways, perché le ascoltavo quando ero adolescente. Lo stesso vale per Stevie Nicks e Christine McVie. E’ un po’ più vera la questione del Canada. Chi c’era all’epoca? Joni Mitchell forse, ma non c’erano rocker canadesi donne e io sono stata probabilmente una delle prime donne canadesi a sfondare sulla scena internazionale. E questo sì, mi rende orgogliosa. Mi rende orgogliosa perché, dopo di me, sono arrivate Alanis Morissette e Shania Twain, anche se quest’ultima non è propriamente una rocker. Oggi come hai detto tu la scena è decisamente florida, ci sono i Kittie, i Kobra And The Lotus e c’è JJ Wilde che è una grande cantante e Fefe Dobson, fantastica! Ci sono così tante grandi rocker canadesi al giorno d’oggi. Quindi, sì, questo mi rende orgogliosa, orgogliosa di aver spianato la strada, anche solo in minima parte, a queste incredibili artiste. Ma sai cosa dico sempre? Che se ho ispirato anche solo una sola ragazza a prendere una chitarra e a scrivere una canzone arrabbiata, allora ho fatto il mio lavoro”.
Il tuo debutto avviene giovanissima nel 1982 con l’omonimo album del Lee Aaron Project…
“E’ un album acerbo, ma per me rimane un disco speciale. Ero una ragazzina quando l’ho realizzato, avevo compiuto da poco 18 anni e non sapevo molto di come si scrivesse una canzone. Avevo composto qualcosa da ragazzina con la mia prima rock band ma di songwriting non ne sapevo nulla, così come non sapevo nulla di come si registrasse un disco in studio. Ero assolutamente inesperta, così il mio manager dell’epoca mi mise insieme a Rick Santers e Frank Soda e mi fece lavorare con loro. Anche Rik Emmett dei Triumph mi diede una mano su quel disco. È stata un’esperienza davvero bella per me, perché ho potuto imparare da maestri dell’hard rock che avevano già fatto questo tipo di musica. E così anche nella scrittura, nell’imparare a diventare un’autrice migliore, nell’imparare come ci si comporta in studio… Anche Buzz Shearman dei Moxy mi ha dato molti consigli su come stare lontana dal microfono e su come usare la mia voce in un ambiente di registrazione. Poi Rik… era venuto a registrare le backing vocals in una canzone, ‘Under Your Spell’, che avevo composto con Dave Aplin. E’ arrivato, ha preso il ritornello di quel pezzo e lo ha portato a un livello completamente nuovo, aggiungendo un’armonia di contrappunto, che ha cambiato volto a quel’hook. E questo mi ha aperto gli occhi. Ho pensato: ‘Wow, è come aggiungere un altro hook all’hook di una canzone’. Ed è come se fosse un trucco che ho continuato a usare in tutte le mie registrazioni nel corso della storia. Ero come una spugna che assorbiva informazioni e imparava con quel primo album. È stata una grande esperienza per me”.
Il disco ha fatto da traino per quel ‘Metal Queen’ uscito due anni più tardi che ha finito per marchiare a fuoco la tua carriera da quel momento a venire. Infatti da allora tu, a prescindere da cosa suonassi, sei rimasta la “metal queen”…
“Quel disco ha sicuramente cambiato la traiettoria della mia carriera anche se, forse, non rispecchia quella che è la realtà dei fatti. Siamo onesti, è un disco più pesante del suo predecessore, ma a confronto con album di band come Slayer, Nightwish… non è poi così hardcore. E’ un album metal molto commerciale, molto melodico. Caso vuole che avessi composto una canzone intitolata ‘Metal Queen’ scelta dalla casa discografica come singolo per il quale è stato poi inciso quel video, e da quel momento ho avuto attaccata addosso quell’etichetta… Ma è stata una cosa inaspettata perchè quando l’ho composta non avevo idea che sarebbe successa una cosa simile. Quello che volevo io era solo scrivere una canzone sull’emancipazione femminile. Parlava di donne in grado di governare il mondo e di indossare i pantaloni, in un momento in cui culturalmente era in contrapposizione con tutto questo materiale hair metal e hard rock nel quale le donne erano davvero sessualizzate e mercificate in tutti i video. Le donne erano come ornamenti sul cofano della tua auto per farla sembrare figa, per far sembrare fighi gli uomini. In tutti i video le donne di solito erano in bikini, tutte bagnate, intente a lavare la macchina della rockstar di turno. E io pensavo: “Fanculo”. Io non volevo essere la donna del capo, io volevo essere quella che comanda. L’ispirazione per ‘Metal Queen’ era quella di proiettare un’immagine di potere femminile, uscita in un momento culturalmente importante, negli anni ’80, in cui ogni quindicenne vedeva il video ed esclamava: ‘Ecco la mia dea del rock che posso adorare!’. La cosa però alla lunga mi si è un po’ ritorta contro, perchè ho finito per diventare io stesso un’icona sexy, la dea del metal… la gente in quel momento ha scoperto Lee Aaron ma io mi sono trovata a combattere questa costante battaglia negli anni ’80 lottando contro l’immagine distorta della donna sexy e tutto il resto”.

Anche perchè in un periodo storico in cui le band lanciavano messaggi leggeri, tutti party, eccessi e divertimento, cercare di affidare messaggi sociali alla propria musica non deve essere stato per niente facile…
“No, infatti. La sensazione che ho è che il significato di quel brano la gente stia iniziando a comprenderlo da dieci anni a questa parte. Negli anni ’80 la gente non lo aveva capito a fondo… anzi, non lo aveva capito per niente! In quel disco c’erano diversi messaggi sociali. C’è una canzone, ‘Steal Away You Love’ che dice come le donne non fossero quelle descritte nelle canzoni dell’epoca, non fossero solo quelle bamboline senza cervello che sculettavano nei video. L’immagine della donna e, in qualche modo, la sua riscossa è centrale come argomento nel disco”.
Con ‘Metal Queen’ hai gettato il seme per il successo, sbocciato nel 1989 con ‘Bodyrock’, il tuo lavoro di maggiore successo capace di arrivare al numero 24 delle classifiche canadesi grazie anche al singolo ‘Whatcha Do To My Body’…
“Questo è il primo album nel quale ho finalmente trovato la mia dimensione come songwriter. E’ un lavoro equilibrato, con la mia composizione sono riuscita a trovare la combinazione perfetta tra chitarre pesanti e voci melodiche. Ed è anche il primo album nel quale sono stata coinvolta nella produzione anche se non compaio nei credits come produttore. In tutti gli album che avevo inciso sino al quel momento avevo potuto usufruire di un produttore esterno che aveva spinto il disco in una direzione ben precisa. Per ‘Bodyrock’ dovevamo lavorare con Pat Glasser che aveva lavorato con i Night Ranger ma, durante un incontro preliminare, disse a me e a John Albani, il mio coautore di non sentire la nostra musica, di non vederci canzoni che potessero avere successo e che non gli piaceva quello che stavamo facendo. Però aveva alcune idee per noi e qualche canzone nel cassetto che avremmo potuto pubblicare. Ricordo che, a fine incontro, ho detto a John: ‘Non gli piace la nostra musica, non gli piace quello che facciamo, perchè dovremmo lavorare con lui?’. Voglio dire, è un grande produttore, nessuno lo mette in dubbio, ma non era la persona giusta per noi. La casa discografica questa cosa non la prese bene, si arrabbiarono e il quarto di milione di dollari che avrebbero stanziato originariamente per il disco si ridusse a 60 mila dollari. Così io e John abbiamo chiesto al nostro A&R Brian Allen se volesse lavorare lui alla produzione, visto che aveva supervisionato l’intero processo che ha portato alla realizzazione del disco, ascoltando tutti i demo. Ci ha così aiutato a lavorare sul materiale e siamo arrivati a pensare che fosse fantastico perchè sapeva esattamente cosa stava facendo e, soprattutto, era sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Abbiamo quindi inciso un disco con un budget molto inferiore a quello di tutti gli album precedenti e ‘Bodyrock’ è stato il risultato. Quello è l’album che volevamo davvero fare, un disco autentico e credo che questo traspaia dalle sue canzoni. E’ la quintessenza del rock degli anni Ottanta, ed è stato il mio primo disco ad andare a ruba. Ha ottenuto il doppio disco di Platino qui in Canada, ha vinto diversi riconoscimenti per la composizione, è stato premiato da un paio di riviste ed è considerato uno dei dieci migliori album canadesi degli anni Ottanta. E credo che questo sia dovuto al fatto che per noi si trattava di un vero e proprio lavoro artistico”.
Siamo però nel 1989, gli anni Novanta sono alle porte e, con essi, quella rivoluzione che ha visto l’interesse verso l’hair metal scemare a favore di altre forme di rock. Anche tu inizi a guardare stilisticamente altrove, e già con ‘Emotional Rain’ del 1994 attui una prima svolta stilistica…
“’Emotional Rain’, così come il successivo ‘2Preciious’ del 1996 non sono stati successi commerciali come i dischi precedenti. Nel 1996 il mio manager, forse perchè ha visto che il solito treno di denaro non passava più dal suo ufficio, ha accettato un incarico decisamente prestigioso, andando a fare il rappresentante di licenze estere per Koch America e da quel momento è risultato irreperibile. Non riuscivo a sentirlo al telefono ed è letteralmente sparito. Poi, qualche settimana dopo, mi sono vista recapitare a casa scatoloni di documenti della banca e io, mentre li guardavo, pensavo ‘Oh mio Dio, ho mezzo milione di dollari di debiti e non ho un manager, cosa devo fare?’. La conseguenza è che, quell’anno, ho dovuto dichiarare bancarotta. È stato un periodo piuttosto buio per me. Ero depressa, poi mi sono data una scossa e ho deciso di tornare a cantare. Ho iniziato a suonare in alcuni night club locali e a fare jazz e blues. Sinceramente era una cosa che facevo più che altro per me, una sorta di terapia, non volevo che venisse pubblicizzata, ed invece prima che me ne accorgessi, tutti i giornali locali hanno iniziato a recensirmi e a dare giudizi entusiastici. Subito dopo ho sentito il bisogno di fare un album, cosa che ho fatto nel 2000, e sono andata in tournée nei festival jazz di tutto il Paese. Tutto questo racconto per spiegarti che la svolta stilistica non è stata dettata direttamente dal cambio di scena ma, per alcuni versi, è stato qualcosa di inaspettato anche per me”
Nel 2000, come hai accennato, sei uscita con ‘Slick Chick’ un disco a cavallo tra il jazz e lo swing…
“Te l’ho detto, è stato qualcosa di terapeutico per me. Quando ero giovane e crescevo negli anni Ottanta, era quasi tabù dire ‘mi piace il jazz’ o ‘mi piace il blues’. Era una sorta di ‘O rock, o muori!’. Non ti era permesso uscire dal tuo genere musicale. Dovevi giurare fedeltà eterna alla Chiesa del rock’n’roll o a quella dell’heavy metal. Il problema è che, a me, piacevano anche altri generi, da sempre! Poi crescendo e maturando ti rendi conto di quanta bella musica ci sia là fuori, quanta linfa per la tua anima possa esserci in un negozio di dischi, quindi è assurdo limitarsi ad ascoltare un solo genere musicale”.
Anche perchè, se non sbaglio, hai iniziato a cantare già da ragazzina proponendo standard di Broadway, quindi la realizzazione di lavori come ‘Slick Chick’ o ‘Beautiful Things’ è stato per te una sorta di ritorno alle origini…
“E’ così al 100%! Sono cresciuta cantando tonnellate di materiale di Broadway e di canzoni degli autori di Tin Pan Alley. E molto di quel materiale era influenzato dal jazz e dal blues. Così, quando sono tornata indietro e ho iniziato a riascoltare molto di questo materiale e a cantarlo nuovamente, canzoni di artiste come Dinah Washington, Anita O’Day, Billie Holiday, Sarah Vaughan… mi sono resa conto che avevo già cantato questi brani quando ero molto più giovane. Quindi sono convinta che fosse difficile per i critici stroncare i miei spettacoli, perchè si rendevano conto che erano qualcosa di autentico, non un ripiego, non qualcosa costruito a tavolino. Poi, durante il periodo in cui cantavo jazz e blues, sono diventata molto curiosa riguardo agli artisti che amo, come i Led Zeppelin, Heart, Fleetwood Mac e molti altri artisti degli anni ’70 da cui ero molto influenzata. Mi chiedevo: ‘Chi sono state le loro influenze?’ E se vai indietro, ti rendi conto che uno come Jimmy Page deve molto a Chuck Berry, Howlin’ Wolf e a tutti quei vecchi blues, capisci? Jimmy Hendrix rubava i licks ai ragazzi del blues. E ti rendi conto che le radici del rock’n’roll sono nel blues. Quindi è stato davvero gratificante dal punto di vista artistico, ma è stato anche un grande insegnamento per me su chi ha influenzato chi nel corso degli anni. In tutto questo mi ha aiutato moltissimo mio marito John Cody (nonché suo batterista Nda). Lui possiede una delle più grandi collezioni di vinili di tutto il Nord America. È enorme. Sono circa 200.000 pezzi. Così, in qualsiasi momento, ho una biblioteca di musica da consultare ed esplorare, quindi anche questo è molto bello”.

I critici ti hanno acclamato, però c’è anche l’altro lato della medaglia. Per chi ti identificava come la “Regina del Metal” ascoltarti cantare jazz e blues non è stato semplice…
“Cos’altro potevo fare? Quando ho iniziato a suonare questo tipo di musica era circa 25 anni fa, dove va il tempo? Certo, chi aveva familiarità con il mio catalogo degli anni Ottanta è rimasto shockato, però le cose non potevano andare diversamente. Intanto considera che, come hai detto prima tu, con gli anni Novanta la cultura musicale è cambiata radicalmente. Band come Nirvana, Soundgarden, Green Day, Pearl Jam hanno iniziato a riscuotere un successo enorme e l’intera industria discografica mondiale ha smesso di supportare l’hair metal e l’hard rock. Erano una cosa del passato che non aveva più ragione di esistere. Io ho cercato di cambiare pelle con ‘Emotional Rain’ e ‘2preciious’, due album che strizzavano l’occhio all’alternative perchè ero convinta che avrei potuto continuare la mia carriera rock inserendo semplicemente nella mia musica le influenze degli anni Novanta, anche perchè ero un’artista relativamente giovane e quella nuova musica mi piaceva molto. Un po’ come fecero i Rolling Stones che, in pieno periodo Disco, uscirono con ‘Miss You’. Ma per i media non doveva andare così. Io dovevo vivere e morire da “Metal Queen”. Nessuno voleva sentire qualcosa di più avventuroso e artisticamente profondo da Lee Aaron. Questo mi ha fatto arrabbiare parecchio. Poi ho pensato che non poteva finire tutto con ‘Emotional Rain’, un album che è stato comunque rivalutato negli anni tanto che, ancora oggi, molte persone mi dicono essere uno dei loro dischi preferiti. Quindi dopo un anno di pausa nel 1996 sono tornata nel 1997 dopo aver ascoltato tonnellate di jazz e blues. Un mio amico mi suggerì un giorno di andare a cantarlo nei club visto che lo amavo così tanto, io gli ho dato retta e ho iniziato a cantare jazz e blues in un paio di piccoli locali notturni di Vancouver con un pianista. Ma quello che stavo facendo è arrivato molto rapidamente alla stampa. All’improvviso i più grandi giornali del Canada sono venuti a recensire il mio spettacolo: il Globe and Mail, il Sun e lo Star. E sorprendentemente, quello che facevo piaceva davvero tanto. Ho ricevuto ottime recensioni. Hanno detto che era estremamente autentico. E allora è diventato naturale registrare un disco con questo materiale, così nel 2000 è uscito appunto ‘Slick Chick’ andando a riscuotere ottime recensioni da parte della critica. Ho fatto un po’ quello che da sempre fa Robert Plant, invece che continuare a ‘fustigare un cavallo morto’ ha deciso di intraprendere una direzione completamente diversa e di estendersi artisticamente”.
Questa tua ‘estensione artistica’ è passata anche attraverso un lavoro decisamente delicato nel 2002 insieme alla Modern Baroque Opera Company…
“Si, è stata un’esperienza interessante. Mentre cantavo jazz e blues sono stata avvicinata da Peter Hinton, uno dei produttori di questa Compagnia, che stava per mettere in scena una produzione qui a Vancouver. Mi chiese di fare un’audizione per la sua opera e io ho subito accettato perchè era una cosa che non avevo mai fatto, ma sono sempre pronta ad affrontare una sfida creativa interessante. Fa parte della mia natura, mi piace spingermi fuori dalla mia zona di comfort a volte, perché penso che ti aiuti a crescere come persona e come artista. Alla fine non ho avuto il ruolo per il quale avevano pensato che fossi adatta ma me ne hanno dati di differenti perché pensavano a una donna più anziana di me per quel particolare ruolo. È stato interessante. Era un cast di dodici persone che interpretavano sessantacinque ruoli diversi, quindi ognuno di noi aveva più ruoli nell’opera, ed era un barocco moderno. Quando la partitura è arrivata a casa mia, mi sono quasi spaventata perché era grande come una Bibbia. Io non ho una formazione classica, quindi non ero in grado di sedermi e leggere a vista tutte le mie parti e tutte le mie armonie. Molte opere barocche avevano un’armonia a quattro o cinque parti. In pratica, mi sono seduta con una tastiera, ho accordato un mezzo tono sotto, che è l’accordatura barocca, e ho seguito passo dopo passo tutte le mie parti, imparandole in questo modo, suonandole prima su una tastiera. È stata sicuramente un’esperienza arricchente”.
Il richiamo del rock, però, è forte, e ritorni a queste sonorità nel 2016 con ‘Fire And Gasoline’…
“Esatto, anche se non è stato semplice perchè, in mezzo, ho assaporato la gioia della maternità. Nel 2004 e nel 2006 ho avuto mia figlia e poi mio figlio, ma all’epoca avevo questa folle idea che avrei avuto il mio bambino, e poi sarebbe scivolato via tutto senza problemi continuando a avere il doppio ruolo di mamma e rocker, che avrei viaggiato e portato il bambino con me. Ma non è andata proprio così. I figli sono la cosa più bella che potesse capitarmi, sono fantastici, ma hanno comportato cambiamenti importanti nella mia vita. Sono stata ferma quasi dieci anni, mi sono dedicata totalmente a loro ma, negli ultimi due, quando ho ricominciato ad avere un po’ più di tempo per me, ho iniziato a nutrire la convinzione che avrei dovuto incidere un altro disco rock. Destino ha voluto che incontrassi Sean Kelly, un chitarrista che aveva suonato con Nelly Furtado, autore di un libro sulla storia della musica canadese intitolato ‘Metal on Ice’ e insieme abbiamo iniziato a tirare giù qualche brano. Poi quando ho capito che era giunto il momento di incidere un disco, le cose hanno iniziato a correre molto velocemente, in circa sei mesi mi sono trovata con un album pronto”.

Da qui tutto è ripartito, e due anni più tardi sei tornata con ‘Diamond Baby Blues’…
“E’ la naturale evoluzione di ‘Fire and Gasoline’ solo che, se quell’album era il primo che incidevo insieme a Sean Kelly nonché il primo che scrivevo dopo dieci anni di silenzio, il nuovo lavoro è stato decisamente più ragionato. Diciamo che ‘Fire And Gasoline’ era un disco per rodarci, per capire dove stavamo andando e dove saremmo potuti andare, mentre ‘Diamond Baby Blues’ è decisamente più lineare da un punto di vista stilistico, un album più mirato e orientato verso il rock classico. Oggi ascolti la radio ed è impossibile non sentire roba fatta con l’autotune, i giovani non ascoltano più gruppi come i Led Zeppelin e i Deep Purple e non capiscono la bellezza di ciò che hanno fatto. Noi volevamo andare contro corrente, volevamo scrivere un album fortemente influenzato dall’hard blues. E’ una musica che vive, che respira, che necessita di attenzione sul palco. Per questo abbiamo composto musica che fosse orientata verso l’aspetto live, che potesse essere suonata da una vera band, forse un po’ più scarno rispetto al lavoro precedente ma decisamente più diretto” .
Qui, come una valanga che raccoglie neve scivolando a valle, hai dato un’accelerata alla tua carriera. Un disco all’anno dal 2020 al 2022, ‘Almost Christmas’, ‘Radio On!’ e ‘Elevate’ ed oggi ‘Tattoo Me’, il tuo primo disco di cover. Come mai questa decisione?
“Questa è una domanda interessante. Nel corso della mia carriera credo di avere realizzato qualcosa come 19 album tra studio, live e best of, ma non avevo mai inciso un disco di cover. Oggi ho la fortuna di suonare con una band meravigliosa, Dave Reimer al basso, Sean Kelly alla chitarra e John Cody alla batteria e con loro c’è un confronto costante sulla nostra musica. L’anno scorso, durante la crociera Monsters of Rock, davanti a un bicchiere di vino, ci siamo detti: ‘Quale sarà la nostra prossima impresa?’ Qualcuno ha ventilato l’idea di un disco di cover e io ho pensato che fosse un’idea fantastica. Non ne avevo mai fatto uno e anche questa è una sfida affascinante, perchè c’è un’arte nell’interpretare il materiale di altre persone. Così abbiamo affrontato il disco canzone per canzone, e alcuni brani si prestavano maggiormente a modifiche e a essere riletti in una direzione rispetto ad altre. È stato divertente. Addirittura qualcuno ha ascoltato qualche cover e ha pensato che fossero pezzi originali di Lee Aaron e se così è stato, significa che abbiamo fatto bene il nostro lavoro”.
È stato difficile scegliere le canzoni che volevate inserire nell’album?
“Non direi che è stato facile scegliere le canzoni. Avevo alcuni artisti che volevo assolutamente coverizzare, ma non ero sicura di quali brani. Naturalmente, Heart, Fleetwood Mac, Nina Simone che adoro e Led Zeppelin erano sulla lista. Alcune scelte sono state un po’ spontanee, come la cover degli Elastica. La canzone è venuta fuori durante una conversazione con il mio chitarrista ed entrambi ci siamo detti “facciamola!”. Una che invece non ha funzionato è stata ‘Little Red Corvette’ di Prince. Il loop di batteria originale con quell’eco era così unico che abbiamo faticato a trovare il “feeling” del brano e alla fine abbiamo dovuto accantonarlo”.
Con un disco nuovo appena uscito ci si aspetta la sua promozione dal vivo. Attualmente hai una notevole attività soprattutto in Canada, mentre latiti nel resto del mondo. Pensi ci sia la possibilità di vederti anche in Europa?
“Mi esibisco soprattutto in Canada perché è il Paese in cui sono più popolare e mi offrono più soldi per esibirmi. Gli artisti devono comunque guadagnarsi da vivere, giusto? Molte persone non capiscono quanto sia costoso o complesso fare una tournée all’estero. So bene di avere dei fan che non vedono l’ora di vedermi dal vivo in Europa, ricevo spesso offerte per suonare Oltre Oceano, ma molto spesso queste offerte non coprono i costi per portare la band così lontano. Alcuni Paesi hanno aumentato il costo di un visto di lavoro al punto da rendere proibitivo per le band straniere lavorare lì, a meno che non siano famose in stile arena. Sono cose di cui la maggior parte dei fan non è a conoscenza, ma che rendono difficile lavorare. Non è così semplice come saltare su un aereo e andare a suonare in qualche club. Ecco perché, salvo in grandi Festival, mi è molto difficile organizzare un tour in Europa”.
Lee, l’intervista volge al termine, a te il compito di chiudere come meglio credi…
“Vorrei ringraziare Metal Hammer per avermi ospitata e per avermi fatto fare un viaggio nei ricordi, che fa sempre piacere. Vorrei chiudere però con un messaggio a tutti quei giovani artisti che iniziano oggi il loro viaggio con un bagaglio carico di speranze e aspettative. A loro dico: seguite il vostro istinto, non fatevi influenzare dalle opinioni altrui. Io non l’ho fatto quando ero più giovane, non fatelo neppure voi. Se siete convinti che quella sia la vostra strada, seguitela, anche se ci vuole del tempo. Non arrendetevi se, dopo due anni, non avete ancora raggiunto il successo. Oggi tutti si aspettano risultati immediati anche grazie ai social media, ma non è così che funziona. Studiate la musica, raccogliete tutte le influenze che potete, fatele vostre ma non imitatele. Siate sempre voi stessi. E non siate mai sazi del conoscere e del comprendere”.

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