Vince Pàstano – E il tempo crea eroi

Il 25/06/2024, di .

Vince Pàstano – E il tempo crea eroi

“Ma lo sai che, a casa mia a Grottaglie, ho ancora un quaderno ad anelli con dentro ritagliate tutte le recensioni dei miei primi demo uscite su Metal Hammer?”. Chi, sorridendo, me lo dice stringendomi la mano nella hall di un lussuoso hotel alla periferia di Milano è un ragazzo di 46 anni genuinamente innamorato della musica, dalla passione contagiosa e dall’inesauribile sete di scoperta. Cosa, questa, non assolutamente scontata, perché chi ci sta oggi davanti non è un artista qualsiasi ma uno dei musicisti, compositori e produttori più influenti della scena musicale italiana, il “chitarrista 2.0” che, da qui a qualche ora, salirà sul palco di San Siro per il settimo sold-out consecutivo di Vasco Rossi. Perché Vince Pàstano è colui al quale il Komandante ha consegnato le chiavi della propria musica, affidandogli non solo il ruolo di direttore musicale del suo tour ma anche il compito di guidare la sua controversa svolta metal. Ma andiamo con ordine, perché prima di arrivare al “Blasco Metallaro” di acqua sotto i ponti ne deve passare per il nostro Vince, nel cui cuore in tenerissima età l’amore per la musica viene instillata dal papà “…che appesa alla parete aveva una Eko 12 corde che ammiravo sin da bambino, e a 4 anni mi portò al cinema a vedere ‘The Wall’ di Alan Parker – inizia a raccontare – Io piangevo, e allora lui mi prese in braccio tenendomi con la schiena rivolta allo schermo, peccato che davanti io avessi uno specchio che mi fece ugualmente vedere tutte quelle scene allucinanti!”.
 Quindi galeotti furono i Pink Floyd…
“Direi proprio di sì… Pensa che a sei anni mettevo da solo su il vinile di ‘The Final Cut’ e me lo ascoltavo per ore… E ancora oggi li ascolto con la stessa affezione ed emozione, perché mi ricordano tutta la mia infanzia. Sono ancora un ‘Watersiano’ convinto, per me i Pink Floyd sono morti quando è andato via lui”.
Ma sono stati importanti per te a livello di ascolto, perché ti hanno fatto “entrare” nel mondo della musica rock, o anche nella tua formazione stilistica pensi ci sia qualcosa di pinkfloydiano?
“Beh, è indubbio che abbiano fatto sempre delle cose eccelse, anche dal punto di vista proprio della produzione. Sono sempre stati avanti. Invece dal punto di vista musicale penso sia sempre mancata la figura più rabbiosa che andasse a incastrarsi con quella più melodica di Gilmour, e che fuse insieme davano vita a qualcosa di incredibile. Dopo l’abbandono di Waters ho sentito una mancanza pesantissima, alcuni pezzi erano belli, per carità, ma altri sembravano più dischi solisti di Gilmour firmati però Pink Floyd e per questo faccio fatica ad ascoltarli. Ho visto invece gli ultimi concerti di Waters, è ancora troppo avanti, è inarrivabile. La produzione è incredibile, il disegno del palco è incredibile, qualsiasi idea è incredibile… c’è solo da prendere esempio. Per non parlare dell’impegno politico, perché è raro vedere cantanti, autori, compositori di quello spessore esporsi in modo così marcato. Oggi viviamo un momento molto complesso, sin troppo politicamente corretto. C’è questa sorta di scissione per la quale se canti devi solamente badare alla musica e basta. Io sono invece del partito per cui se canti a quei livelli hai un gran potere e devi “sfruttarlo” in termini positivi, magari per mandare messaggi di pace a un mondo che a volte viene trascinato. Non è che noi cittadini possiamo fare chissà che cosa, però possiamo aiutare a sensibilizzare, a ricordare alla gente che ogni tanto siamo messi un po’ così, nella merda…”.

I Pink Floyd, quindi, sono stati il tuo approdo al mondo della musica ascoltata, mentre i tuoi primi passi con quella suonata li hai fatti insieme ai General Store quando eri poco più che un ragazzino, e lì il riferimento erano i Faith No More…
“Erano gli anni ’90, i bellissimi anni ’90, che oggi io e i miei coetanei abbiamo rivalutato. Ci capita ogni tanto di parlarne: ‘Ti ricordi quando ascoltavamo anche i primi Blur?’, che non c’entrano nulla con il rock ma oggi, paragonati a cosa c’è in giro, sembrano dei geni. In realtà non lo sono, ma all’epoca c’era veramente tanta bella roba…Soundgarden, Faith No More…c’era una scena talmente ampia, geniale in certi versi, che paragonata a quello che c’è oggi è oro! Quando ho iniziato a suonare con i miei amici la folgorazione me la diede, nel 1991 Ozzy Osbourne con ‘No More Tears” quando c’era ancora Videomusic che mandava video assurdi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Io ricordo questo video bellissimo di questo brano altrettanto bello. Da lì in poi rimasi folgorato da Ozzy e mi comprai tutti i dischi dei Black Sabbath. Quindi io già a 11 anni, in modo maniacale, conoscevo qualsiasi roba. Mi sniffavo i vinili o i CD, la carta, il cartone…oggi non esiste più questo concetto, no? Del vinile e del CD, rapportato alle nuove generazioni, intendo. Io sono poi un grande amante di Alice Cooper, infatti conoscevo Stef quando avevo 11 anni e lo avevo ascoltato su ‘Hey Stupid’, il disco con il quale inizia a lavorare con Alice. Da buon nerd comprai anche delle VHS bootleg in un negozio del nord per poter avere tutto dei gruppi che amavo. Poi c’è stato il movimento grunge che mi rapì… Soundgarden, Alice in Chains… Sono cresciuto con una cultura musicale con radici negli anni ’70-’90… Quindi dal Nu Metal in poi ho iniziato a fare un po’ di fatica a starci dietro. Stiamo parlando di qualcosa di settoriale. Poi parallelamente ho ascoltato sempre molte altre cose…Soprattutto quando mi sono trasferito a Bologna mi sono reso conto che, avendo questa ambizione lavorativa, avrei dovuto necessariamente ascoltare altro per poter “collaborare” con gente con cui poi ho avuto la possibilità di lavorare, tipo Guido Elmi, che era un’enciclopedia vivente e da cui ho capito che bisogna essere altrettanto enciclopedici”.
E lì sono stati fatali i Type O Negative…
“Esatto! I TON sono il gruppo che ascoltavo insieme a mia sorella. Avevamo le stanze comunicanti, lei studiava e io “studiavo”, con questo radiolone che faceva andare ‘October Rust’ dall’inizio alla fine e poi ricominciava… E’ un disco pazzesco, ancora oggi uno dei miei preferiti… io sono entrato in lutto quando è morto Peter Steele, perché era uno dei miei gruppi reference. Penso che avrebbero potuto fare delle cose incredibili, anche perché veramente sono riusciti a miscelare Black Sabbath, Pink Floyd, Beatles…hanno trovato una formula unica, che io ho sempre adorato. Anche di loro, ho qualsiasi edizione, tutto…”

Ripercorrendo la tua discografia e intersecando i vari progetti, una cosa che salta all’orecchio è la differenza di stili in progetti quasi contemporanei. Nel 2005 esci con il disco ambient degli Araliya e poco dopo con i God Of Success dedicandoti al jazz rock e fusion; nel 2011 pubblichi il tuo lavoro solista ‘Invisibili Distanze’ con la sua anima post-rock e ‘Hakhel Tribulation’ il disco elettronico dei Past The Mark…Perché una contrapposizione di stili così marcata? Perché non vuoi rimanere imbrigliato in un unico genere?
“No, io sono proprio così. Quando iniziano a dirmi ‘ah ma tu sei… ‘, Ecco, quello è il momento per me di scappare via. Quando qualcuno inizia a identificarmi come rock, scappo via. Mi diverto così. Io soffro a fare solo una cosa. Adesso ho una band chiamata Noisebreakers con cui faccio un blues rock decisamente anni ’70, però assieme al cantante Tony Farina abbiamo fatto tantissimi progetti differenti. Abbiamo suonato musica cubana, balcanica… non riesco a star fermo, è una roba ossessivo-compulsiva che ho da sempre anche qui da Vasco, infatti forse ogni tanto bisognerebbe imbrigliarmi. Nell’intro sfogo le cose più alla Ben Frost, più sperimentali, poi c’è l’interludio che quasi va sulla musica classica, poi c’è il pezzo rock invece di Vasco dove metto sempre delle citazioni di cose bellissime legate al metal… infatti io qui trovo una mia pace dei sensi. In due ore e mezzo cerco di spalmare quelle che sono le mie ambizioni, porto la mia idea e se viene accettata mi sento molto realizzato e quindi super appagato”.
Nella tua discografia trovano posto due album, anche qui decisamente vari, dei Pulp Dogs…
“I Pulp Dogs erano un gruppo partito come cover band delle colonne sonore di Tarantino. Abbiamo iniziato a suonare per divertimento, poi è diventata una roba un po’ più seria. Abbiamo inciso un disco (‘Lu Cunnannatu ‘ del 2010, Nda) che forse è la cosa più interessante fra le varie cose abbiamo fatto. E’ un album realizzato assieme al canzoniere popolare del mio paese, Grottaglie. Abbiamo iniziato a suonare delle cover di musica cubana, poi sono arrivati pezzi folk, pezzi della tradizione ionico-salentina che abbiamo riarrangiato in chiave moderna, mettendoci del latin, del surf, l’idea di Morricone…Quel disco secondo me è la cosa più originale che abbiamo fatto. Poi dopo si sa benissimo che è difficile tenere assieme una band per varie ragioni… però siamo tuttora amici. Antonello D’Urso, ad esempio, che suonava la chitarra con i Pulp, suonava con gli Araliya e oggi è anche lui con Vasco. Alla fine siamo sempre noi…”.
Nel 2021 esce invece il progetto Malacarna, forse la rappresentazione del tuo volto musicale più “estremo”…
“Siamo usciti con questo progetto nel 2021 ma la sua gestazione ha avuto in verità tempi lunghissimi. L’idea dalla quale nasce tutto è la stessa del disco dei Pulp di cui parlavo prima, solo che, se per quell’album ci eravamo appoggiati al dialetto ionico-salentino ovvero quello mio e di Antonello, imparato e cantato benissimo dal cantante lucano Tony Farina, per l’EP dei Malacarna abbiamo fatto le cose al contrario. Tony è una persona come me di paese, legato a molte storie del folklore che gli raccontava suo nonno. Non è cosa da tutti far tesoro dei racconti o filastrocche o canzoni della tradizione orale… Ad un certo punto, leggendo i testi di queste canzoni, autentiche poesie che non sfigurerebbero in una raccolta di testi di Jim Morrison, ho proposto di fare un disco partendo da questa idea. Visto che Tony ha una bellissima voce blues, un po’ ridendo mi ha detto ‘facciamo una sorta di Almamegretta 2.0′ ed io essendo anche amante del dub e del reggae l’ho trovata una buona idea. Però quello era anche il momento in cui stavo sviluppando idee molto alternative tipo The Raveonettes, Radio Dept, roba noise con la chitarra, quindi ho proposto di unire quei testi in dialetto a sonorità blues che si prestano particolarmente bene per quel linguaggio ed è venuto fuori questo EP. In un secondo tempo ho conosciuto Dorothy Bhawl, un artista visionario pazzesco con il quale abbiamo deciso di allargare il progetto dandogli anche una dimensione visiva. Lui è un genio, un pazzo furioso che ha realizzato queste opere d’arte contenute anche sul vinile ispirate ai testi delle canzoni, affinché potessero aiutare chi non conosce il dialetto lucano a comprendere il senso e il mood del brano. Al momento non siamo ancora riusciti a portare dal vivo questo progetto perché è una roba troppo ambiziosa, però ci piacerebbe perché musicalmente è davvero interessante, alla fine ricorda alcune cose dei Nine Inch Nails, mentre visivamente è una mazzata e Dorothy è stato bravissimo a ricreare l’atmosfera di quello che suonavamo”.

Stiamo ripercorrendo in modo trasversale la tua discografia e quello che emerge chiaro è la tua curiosità e il tuo coraggio nello sperimentare, nel contaminare, nell’osare…
“Io ho sempre avuto sete di musica, faccio fatica a fermarmi a un solo disco. Se mi piace un autore devo subito scoprirne la discografia, cerco di capire se gli album sono realmente tutti così belli. E questa è stata la mia fortuna. Nulla mi annoia, però allo stesso tempo faccio fatica a rimanere fermo, e questo non vale solo per la musica. Le chitarre le cambio, il look dopo un po’ mi annoia, capelli lunghi e capelli corti… il genere: musica classica, dopo un po’ passo al post-rock, dopo un po’ mi sono rotto le palle del post-rock… ma questa curiosità sulla lunga distanza si è rivelata una carta vincente. Quando mi sono trasferito dalla Puglia a Bologna e ho iniziato a conoscere di persona tutti questi grandi musicisti, ho capito che l’unico modo per stare a galla era proprio quello che stavo già percorrendo, ovvero non fermarmi. Non fermarmi perché in realtà, quando suoni a alti livelli, non sempre si riduce tutto ad un discorso di accordi e di spartiti musicali. Non lo si faceva con Guido Elmi e neppure con Beppe D’Onghia, maestro di Lucio Dalla, arrangiatore incredibile, eccezionale direttore d’orchestra nonché uno dei miei mentori insieme a Guido. Con loro non si parlava solo di accordi, di spartiti… loro parlavano per similitudini di genere. Venivano e ti dicevano: ‘Hai presente quel disco di Bjork dove c’è quel pezzo lì?’ E tu dovevi sapere, dovevi conoscere di cosa stavano parlando. Come dicevo prima, devi essere enciclopedico per confrontarti con certi personaggi. Ti racconto questo: il primo incontro con Guido Elmi, è stato epico, perché Guido era uno di poche parole. Quindi quando Stef Burns mi presentò Guido, era nel periodo in cui lui stava scoprendo tutto il black metal e passava le nottate ad ascoltare una radio russa e le novità che proponeva. Quando ci siamo conosciuti, lui disse: ‘Ma cosa ascolti?’ Io la presi alla larga, dissi un po’ i generi ma lui mi fermò subito. ‘Non me ne frega un cazzo dei generi, mi devi dire i nomi!’. Allora lì ti rendi conto che, insomma, devi tirare fuori i nomi. Io iniziai a fargliene qualcuno, poi quando dissi Type O Negative lui rimase folgorato. Poi il fatto che conoscessi molte delle band per le quali era andato fuori di testa in quel periodo ha fatto il resto…”
Band tipo?
“Guido ascoltava i Cradle Of Filth, poi gli piaceva molto l’epic sinfonico e i Symphony X… io ero più per sonorità cupe, lente, dark, amo lo sludge metal… arrivo dai primi dischi dei Cathedral e da tutte quelle band figlie dei Black Sabbath. Questo per dire che, da lì in avanti, il termine di comunicazione in studio mentre si componeva è stato ‘mi fai un riff alla Fields of Nephilim?’, oppure ‘facciamo roba alla Sister of Mercy’…ricordo una volta che se ne uscì chiedendomi una ‘…chitarra un po’ nervosa tipo Television’. Allora capisci che certi producer hanno bisogno di questa cosa qui, perché ci si capisce al volo. L’ho sempre visto come una sorta di coltellino svizzero, no? Questa cosa qui di conoscere dei nomi, poi non è che ne faccio un vanto, è la mia indole”.
Hai citato Beppe D’Onghia con il quale hai arrangiato la Tosca di Lucio Dalla, un bel banco di prova…
“Quello è stato il mio esordio bolognese, perché contemporaneamente alla Tosca stavamo preparando un po’ in sordina un paio di date soliste di Beppe in promozione al suo disco. E le prove erano assurde, veramente una prova anche caratteriale perché mi ricordo che arrivava con spartiti per arpa. Per arpa, sono 500 corde. Io gli dicevo ‘Beppe, ma…’ e lui ‘Vabbè, riarrangia’. A un ragazzo di 22 anni. Prova a dirlo oggi… Come mi insegnò la dinamica, perché io da buon rockettaro ero abituato a suonare sempre con la stessa dinamica. Lui arrivò un giorno, mise il mio ampli a 60 watt, una potenza pazzesca, al massimo e mi disse ‘Adesso prova a suonare piano. Se sbagli, mi fori un timpano e ti fori un timpano’. Sono tutti modi molto tosti per metterti alla prova caratterialmente e per farti capire subito dove voleva arrivare. E la Tosca fu una sorta di premio, spero meritato, dopo mesi di lavoro assieme, dove ho imparato davvero tantissime cose”.
Nel 2014 Vasco Rossi dichiara il suo approdo al metal e furono in molti a ironizzarci su. E dire che, negli anni, alla sua corte sono transitati fior di musicisti affini al genere, da Glenn Sobel (Alice Cooper, Hollywood Vampire) a Will Hunt (Evanescence), da Matt Laug (Ac/Dc) a Dean Castronovo (Ozzy, Journey, Steve Vai…) sino allo stesso Stef Burns. La prova del nove fu però ‘toccare con mano’, quindi decisi di vedervi dal vivo a Torino e quello che ascoltai, se non era metal, ci andava dannatamente vicino. Tu, che in quell’occasione sfoggiavi una maglietta dei Misfits, lo zampino ce lo avevi già messo…
“Io ho conosciuto Guido Elmi nel 2011 ma fino al 2013 non mi sono mai permesso di fare alcun riferimento a Vasco. Per me era una partita chiusa lì, ero già onorato di poter suonare nello stesso studio di Guido e sperimentare le sue idee che a volte erano più folli delle mie. La sua voglia di ‘metal’ nasce nel 2013. Si stava programmando il tour di ritorno di Vasco e Guido mi chiese se mi andasse di aiutarlo a fare qualche arrangiamento. Per me era un onore. Facemmo l’intro e già lì c’erano delle power che strizzavano l’occhio al metal. Poi suonammo un interludio che fu uno dei primi esperimenti con le chitarre in drop D, cioè scordate su una corda scordata un tono in giù perché solitamente la usano molti gruppi che noi amiamo. A Guido piacquero molto e volle fare un sacco di pezzi così, sino al 2014 quando mi proposero di entrare nella band e da lì i pezzi in drop D aumentarono in maniera esponenziale. Ad esempio ‘C’è Chi Dice No’ è rimasta ancora tale perché in quell’accordatura lì è una perfetta fotografia del genere che ascoltiamo. Si prestava già in tonalità normale, così è diventata devastante, quasi marziale. Suonammo ‘Muoviti’ in drop D… insomma i pezzi iniziarono a prendere pian piano una forma quando ancora non c’era nell’aria Will Hunt proprio come nome. C’era solo l’idea di Guido di voler fare roba dura, io ero solo un assistente che concretizzava le idee musicalmente. Così iniziò a spronarmi, a spingermi sempre più in là infatti la scaletta del 2014 presentava un’intro quasi prog, con voci un po’ symphonic e poi la doppia cassa di Will che mise la ciliegina sulla torta, a trainare ‘Gli Spari Sopra’. Però sono tutte idee che nascono dalla voglia di Guido di spingersi oltre, addirittura a volte mi pareva un po’ eccessivo perché, da ascoltatore, pensavo a Vasco in una maniera un po’ più equilibrata come era sempre stato, invece nel 2014 mise una sorta di marcia in più e alcuni pezzi sono rimasti ancora come allora. ‘Deviazioni’ con la sette corde. Io non avevo mai suonato una sette corde, Guido mi disse ‘Comprati una sette corde, prenditi tutto il tempo e impara’. Il risultato fu incredibile, sembravano i Korn, però ci stava bene. Ancora una volta Guido aveva ragione”.
Con che spirito ti approcci a riarrangiare pezzi che fanno comunque parte del patrimonio musicale italiano, andando a rileggerli, stravolgerli, trasformarli anche in modo molto marcato. Con incoscienza? Timore? Consapevolezza?
“Non parlerei di timore, perché per fortuna Vasco mi da tutto il tempo per poter sperimentare, quindi prima ancora di arrivare ad un’idea mi prendo il tempo per poter registrare, cancellare, registrare un’altra idea… insomma, faccio due o tre demo prima di proporgli qualcosa di più concreto. Io sono un amante dei testi, arrivando dal lavoro con un cantautore come Luca Carboni per il quale i testi sono tutto, cerco di valorizzare prima di tutto le parole, provando arrangiamenti che non vadano a disturbare il testo, a suonarci sopra, perchè questo deve essere sempre limpido per chi ascolta. Poi insomma, ne abbiamo combinate tante assieme, ci siamo divertiti… A volte ho proposto cose estreme di cui oggi sorrido, come ‘Fegato Spappolato’ del 2018 trasformato quasi in un pezzo dei Nine Inch Nails, perché avendo già fatto negli anni decine di versioni di ‘Fegato’, volevo fare qualcosa di differente slegandomi dal testo e mettendoci qualcosa di mio. In generale, però, non ci penso troppo, mi piace farmi trasportare dal testo… Nell’ultimo tour il pezzo da cui sono partito è stato ‘Jenny é Pazza’, un brano degli anni Settanta molto roots, molto scarno, che poi si sviluppa in maniera prog tipico di quel momento storico. Io sono partito dal testo a cui sono molto legato perché parla di una malattia che in quegli anni lì non era ancora concepita come tale che è la depressione. Ho lavorato sei mesi a quel pezzo, sulla sua malinconia… ed alla fine è venuto fuori tutto quel dark wave post rock simil Cure, Joy Division che amo da sempre. Sono un grande fan dei Cure, li adoro e poi Robert Smith è un genio, il più romantico dei romantici. In ‘Basta Poco’ invece emergono i miei ascolti brit, Springsteen… insomma, ci infilo la mia cultura musicale e poi vado a proporre l’idea. A volte mando dei vocali a Vasco facendogli delle proposte e lui mi dice se andare avanti e sviluppare o rivedere qualcosa. Io però innesco solo la miccia, propongo le idee in maniera istintiva ma non le finalizzo mai da solo, quello che si ascolta è frutto di una collaborazione. Noi lavoriamo insieme per dei mesi tutti i giorni… io torno a casa la sera e di notte lavoro su quello che Vasco mi ha chiesto il giorno prima, in modo da potergliela portare il giorno seguente in studio. C’è un lavoro di squadra enorme dietro, che non sempre viene visto dalla gente”.
Quale pensi sia, ad oggi, l’azzardo più grande che ti sei preso in questo lavoro di arrangiamento?
“Ricordo che Guido, per Modena Park, mi chiese un arrangiamento in versione metal di ‘Ieri Ho Sgozzato Mio Figlio’ e io inventai questa roba stile Rammstein, molto dura, che a loro piacque molto. Quello sì, è stato un azzardo, decisamente estremo”.

Tu sei un ricercatore sonoro con un gran gusto, uno sperimentatore e hai un’importante attività anche in studio. I nuovi mezzi di ascolto, la musica che passa al 90% attraverso gli speaker degli smartphone andando di fatto ad appiattire un po’ tutto, hanno in qualche modo influenzato questa tua attività di registrazione e ricerca?
“Siamo costretti ad adeguarci a questa cosa, è un processo obbligatorio. Quando lavoriamo in studio alla masterizzazione, fra tecnici ci si guarda e si ha sempre un atteggiamento un po’ ingobbito di rassegnazione. Ma io non sono neanche un gran fan dei vinili, o meglio, dei vinili stampati oggi per la musica fatta oggi, e lo dico con un sano spirito di contraddizione visto che, ora che il vinile è tornato di moda, mi sono fatto infinocchiare stampando degli LP che ho ancora a casa di Malacarna e Noisebreakers. Io penso che negli anni ’70 si ascoltavano i vinili, i gruppi andavano in studio, registravano il disco, poi all’ascolto era normale, fisiologico sentire il fruscio tipico della puntina sul disco. Io oggi compro i vinili ma degli anni ’70, perché ascoltandoli mi faccio il viaggio di come ascoltavano allora la musica, voglio mettere su un disco dei Beatles e rendermi conto di come ascoltava la musica a quel tempo un ventenne. Oggi fai un lavoro in studio pazzesco per mantenere i suoni puliti, per togliere i fruscii e tutto il resto, poi stampi il vinile e saltano fuori le magagne. Quando ho sentito il fruscio sul vinile dei Noisebreaker ho pensato che io avevo lavorato per togliere questi fruscii, mentre il vinile sciupa il lavoro di pulizia fatto a monte. Io sono più un fan del CD. Nella musica attuale il CD è il compromesso massimo. Odio l’MP3, odio Spotify, ce l’ho per praticità ma a casa se posso ascolto ancora il CD e il vinile lo ascolto solo se devo farmi il viaggio negli anni Settanta, allora prendo ‘The Wall’ originale di mio padre e lo metto su”.
Come musicista hai fatto una gavetta enorme, piena di sacrifici. Hai studiato, ti sei trasferito dalla Puglia a Bologna, hai fatto il commesso al Cash&Carry, hai fatto volantinaggio e intanto studiavi e suonavi. Tutto quello che hai ottenuto te lo sei stra guadagnato. Che effetto ti fa vedere che, oggi, sulla scena il talento non viene sempre premiato, che lo studio non è più fondamentale per un musicista e che con la via più breve, tipo l’autotune, si riesce a raggiungere il successo ugualmente senza sbattersi manco troppo?
“E’ una domanda un po’ complessa perché suscita in me delle polemiche che eviterò. In maniera un po’ egoistica ti rispondo che saranno problemi di chi verrà. Io onestamente penso che questo processo attuale si stia per esaurire, e per processo intendo tutto, incluso Spotify. Intendo proprio un processo di poca sostanza, il ‘faccio tutto in casa’. Penso che le nuove generazioni troveranno una soluzione… ora c’è una generazione di mezzo più piccola della mia che è in balia di questo momento storico stranissimo, ma è questione di tempo. Io penso che la generazione futura svolterà, perché questa cosa qui non può durare molto, questa cosa qui fa soffrire. L’essere umano è dotato di empatia, mentre questa cosa qui non dà nulla, è solo estetica. Poi per carità, il rock’n’roll è sempre stato anche estetica, però c’è anche della sostanza. Confido che le nuove generazioni svoltino, anche se io probabilmente non ci sarò già più. Mi spiace essere molto cinico, però sono molto rassegnato, la vivo come una frustrazione, un dispiacere enorme. A Bologna ho diversi amici chitarristi incredibili che hanno 20-24 anni… grazie anche alle nuove tecnologie, questa nuova generazione è pazzesca, sono delle spugne, suonano con una precisione incredibile… poi però con chi suonano? C’è una nuova generazione di cantanti che suonano con le basi, i musicisti se li tengono dietro solo per fare scena. Onestamente non so quanto si potrà andare avanti, perché è una roba sterile. Forse continuerà ad esserci ma non sarà solo più quella roba lì. Stiamo vivendo un periodo sterile che dura già da un bel po’ di anni, io gavetta o non gavetta penso di essere fra gli ultimi fortunati, e credo proprio che quando finisce Vasco chiudo anche io. Se mi guardo attorno non vedo nulla su cui punterei qualcosa… poi magari neppure loro punterebbero su di me, la cosa è reciproca. I nuovi cantanti non hanno un repertorio e le case discografiche non danno loro l’opportunità di crearselo, non hanno un concerto che riesca ad andare oltre i venti minuti perché poi esauriscono i singoli. E musicalmente vedo tante idee mediocri, spesso elettroniche ma elettroniche discutibili. Per me l’elettronica è un’altra roba, è Ben Frost, sono i Depeche Mode se vogliamo parlare di qualcosa di più mainstream. L’elettronica non è statica, è qualcosa che bisogna sviluppare di anno in anno perché invecchia in un attimo. Poi parliamo delle canzoni? Dove sono le canzoni? Io vedo solo delle donnine nude e dei gran denti dorati, tanti tatuaggi e testi del cazzo di periferia, magari a volte pure finti perché sono tutti figli di papà. Mi dispiace essere così cinico ma a quasi 50 anni credo che se a me hanno dato la possibilità di crescere uomini di 60/70 anni, in qualche modo mi piacerebbe tramandare un po’ di cultura, un po’ di cultura del lavoro ai più giovani. Mi piacerebbe insegnare qualcosa a questi ragazzi così come è stato insegnato a me, altrimenti dove cazzo vanno, poverini?”
Non pensi che anche la mancanza di senso critico aiuti a frenare la crescita di queste persone? Voglio dire, una volta la discriminante era il bello e il brutto: eri bravo, facevi musica bella andavi avanti, non eri capace venivi fermato. Oggi invece chiunque può fare tutto, e questo vale in ogni ambito, non solo musicale…
“La tecnologia ha indubbiamente aiutato chiunque a fare musica, ma il fatto che chiunque possa fare uscire un lavoro ‘pulito’, non vuol dire che faccia uscire qualcosa di bello. Negli anni ’80 quanti dischi bellissimi sono usciti pieni di imprecisioni? Nick Cave, Tom Waits…quella è la derivazione blues, chi se ne frega se non è perfetto, l’importante è che sia spontaneo. Quello è il messaggio. L’hai cantato con il nervo? Perfetto, quello è il messaggio che conta, poi c’è la nota sbavata? Fa niente! Continuiamo pure a mettere filtri su Instagram, continuiamo a piallare la musica, l’arte. Io voglio dire a questi ragazzi cosa vedranno: vedranno una roba finta. Vedranno delle foto di strafighi dove invece donne e uomini erano piene di rughe. Ascolterai della musica di plastica fatta da cantanti stonati che incidono perché ‘tanto c’è il filtro’. Viviamo in un mondo di filtri. Spero che prima o poi questa situazione si ribalti, però non so, io non ho soluzioni. Ci sono delle imperfezioni che sono bellissime, bisogna arrivare a comprenderlo. Io sono per la selezione. Sai suonare? Non sai suonare? Non è un problema, nel senso che prima impari a suonare, poi facciamo il disco. Non sai suonare? Non farai nulla perché vuol dire che ti occorre tempo per capire certi processi, e se andassi subito in studio mi costeresti troppo. Io non ho un budget per te. Una volta si ragionava così”.
Prima si parlava della tua sete di musica, della tua voglia di conoscere, di esplorare… dopo essere stato alla corte di Vasco, l’apice per un musicista, come pensi di poter coltivare ulteriormente questa tua caratteristica?
“Io ho paura di disinnamorarmi della musica prestando il mio amore sincero, fanciullesco, innocente verso l’arte, sciupandolo per dei processi che non sono legati alla musica. Sono magari legati semplicemente ad un’estetica e ai soldi. In termini di soldi dobbiamo tutti pagarci le bollette, però nel momento in cui manca l’aspetto artistico si sciupa una roba che deve rimanere invece pura. Io sono nato così, già da piccolo, a quattro anni, mio padre mi faceva sentire come suonava la chitarra Gilmour e io già allora volevo suonare la chitarra. Per me era già fatta a quattro anni, io ho sempre avuto le idee chiare e mi porto ancora dietro questa voglia. Ad oggi ho detto di no a tanti nomi extra-Vasco che durante l’anno provavano a chiamarmi per capire se ci fosse la mia disponibilità. Io anche se avevo il tempo ho sempre detto di no, A: perché mi sento appagato così. B: non c’è nessun artista in Italia che dia l’opportunità anche alla band di esprimersi non in maniera turnistica ma quasi artistica. C: da nessuna parte c’è l’atmosfera che si respira qui. Io credo nelle energie positive e nell’essere sereni, qui il cantante è un ariete ed è sereno, sprigiona energia positiva, ti trascina, e anche se quella notte hai un’insicurezza, con lui sei un gladiatore. Da un lato c’è la sua energia che ti trascina, davanti hai quella del pubblico che ti sovrasta. E’ una cosa incredibile. Non accetterei nulla di diverso… forse un tempo avrei detto sì a Battiato ma è normale, chi non avrebbe voluto suonare con lui? Non è una questione di soldi, ma di crescita personale. Io oggi mi sento arrivato per questo dico che, dopo Vasco, non ha più senso fare altre cose”.

Foto live Roberto Villani

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