Cavalera – La trilogia carioca
Il 20/06/2024, di Francesco Faniello.
L’uscita dei remake dei primissimi album dei Sepultura ha diviso pubblico e critica – ammesso che ci sia reale distinzione tra le due entità, oggi come oggi – nella misura in cui le tre release vengono percepite come pregne di un valore diverso a seconda dei punti di vista da cui le si valuta. Certo, l’attesa per un disco come ‘Schizophrenia’ può apparire straniante ma il fatto stesso che se ne parli non fa che sottolineare l’immenso valore storico della release originale, al di là della qualità del remake a firma Cavalera. Di questo e altro abbiamo parlato con Max Cavalera, vera e propria icona dell’allora “nuova” ondata la cui forza propulsiva non si è ancora del tutto esaurita. Soprattutto, Max si è dimostrato affabile, disponibile a rievocare l’anno di grazia 1987 e ancora innamoratissimo dell’heavy metal. E non è certo poco…
Ciao Max, è un piacere conoscerti! Come vanno le cose?
“Tutto bene! Siamo molto impegnati con le prove in vista del tour!”
C’è appunto molta attesa per questo nuovo tour, ma anche per il disco in uscita: il remake del colossale ‘Schizophrenia’!
“Siamo molto soddisfatti del fatto che stiamo per condividere con il mondo questo lavoro. Finalmente suonerà esattamente come volevamo che suonasse, qualcosa di impossibile da ottenere all’epoca, per via dell’inadeguatezza degli studi di registrazione esistenti attorno a noi ma anche della strumentazione. Adesso tutti potranno ascoltarlo nella forma che avevamo in testa sin da allora, sia come musicisti che come fruitori di metal. Questo è il suono che doveva avere ‘Schizophrenia’ sin dall’inizio… o, come hai detto tu, il colossale ‘Schizophrenia’!”
Potresti spiegare la scelta di rifare i primi album iniziata l’anno scorso? Perché definiresti ‘Bestial Devastation’, ‘Morbid Visions’ e ‘Schizophrenia’ una trilogia?
“Si tratta dei tre album che abbiamo sempre considerato privi della giusta produzione, del sound giusto; volevamo sperimentare l’idea di riregistrarli ai giorni nostri, con a disposizione una conoscenza superiore della musica e una maggiore esperienza, assicurandoci comunque di rimanere fedeli alla potenza e all’intensità originale. Questo è un fattore a cui si è spesso prestato poca attenzione, quando i gruppi hanno voluto rifare i dischi classici: troppa pulizia, troppe variazioni… qualcosa di cui non abbiamo mai avuto bisogno. Pensa se avessimo voluto modificare le canzoni: le canzoni erano e restano grandi canzoni, scritte quando eravamo teenagers ma pregne di quell’ispirazione proveniente da un momento favoloso per il metal quale era quello in cui sono uscite. Nell’87 vennero fuori album pazzeschi a opera di Voivod, Kreator, Destruction, per non parlare di ‘Darkness Descends’ dei Dark Angel… potevi davvero ubriacarti di musica, a forza di uscite fenomenali come queste!”
Per non parlare del fatto che molti di quei gruppi sono in giro ancora oggi, e che voi stessi come Cavalera state portando avanti quell’eredità. Un altro elemento che ci può riportare al concetto di trilogia è il logo che accomuna i primi tre album dei Sepultura, disegnato direttamente da te sul diario quando andavi a scuola. Più old style di così…
“Sì, a quei tempi la passione era tutto. Non è che si avesse accesso a studi professionali di design, quindi i loghi toccava farseli da soli! La prima versione che creai a quei tempi aveva una “S” che sembrava un’arma, mentre la “T” richiamava una croce. Nel tempo poi è cambiato, ma adesso rivive sul logo “Cavalera” rimodellato su quell’idea… ha proprio un bell’aspetto! Lo stesso vale per la musica: senza nasconderci dietro un dito, si tratta di grande musica che non ha bisogno di miglioramenti; pensa a ‘From the Past Comes the…’ [si ferma davvero, eh… senza che stavolta ci sia bisogno di aggiungere il sic di ordinanza, NdR]: è un grande pezzo e non c’è nulla che io possa fare per renderlo ancora migliore, perché è perfetto così com’è. Quindi, l’unica cosa che dovevamo fare era risuonarlo bene e in maniera affilata, con la stessa passione e alla stessa velocità in cui ha bisogno di essere suonato. Penso poi che quegli elementi giovanili del metal di allora siano validissimi tuttora, dopo trenta o quarant’anni; ecco perché la mia motivazione nel suonare metal oggi sia la stessa di quando avevo quindici anni, puntando al potere della musica che è un qualcosa di infinitamente superiore alle droghe o all’alcool. La sensazione che si ha nel suonare metal è diversa, tutto qui: è unica, fantastica. È qualcosa di puro, in altre parole. E poi, so già che i prossimi concerti saranno pazzeschi: la gente ama questo disco da sempre, e vuole ascoltarlo suonato ora da noi. Quindi penso proprio che in tutti i concerti ci sarà nell’aria quest’atmosfera magica, elettrica, e quando suoneremo quei pezzi la gente uscirà matta! Dal punto di vista musicale è una sensazione incredibile il fatto di essere in grado di fare questo dopo tutti questi anni, dopo tutto ciò che ho fatto con i Soulfly, con i Killer Be Killed, con i Nailbomb… di essere in grado di tornare a ciò che ha dato inizio a tutto e rivisitarlo.”
Torniamo a quegli anni, in particolare al 1987? So che avete suonato per la prima volta fuori dal Brasile di spalla ai Sodom nel tour di ‘Agent Orange’ [nel 1989, NdR], quindi immagino che due anni prima eravate impegnati a costruire la scena brasiliana tra Belo Horizonte e San Paolo con le altre band che orbitavano attorno alla Cogumelo Records. Cosa ricordi dei concerti dell’epoca?
“Come dicevi poco fa, non avevamo ancora mai suonato fuori dal Paese: avevamo suonato nel nord del Brasile, a Natal e Recife, oppure a sud, a Porto Alegre. Anzi, mi sa che arrivammo a suonare in Argentina durante il tour di ‘Schizophrenia’. Era tutto bellissimo: come ho già detto, era un grande momento per la musica e il metal aveva questa forza propulsiva rivoluzionaria, in vista di una sorta di cambio della guardia che avveniva in quegli anni, con gli Iron Maiden che erano ancora sulla cresta dell’onda ma che già venivano affiancati da cose nuove tipo i Metallica, gli Slayer e i Kreator, gruppi che suonavano più veloci, con tanta energia e influenzati dal punk. Ecco un altro aspetto fondamentale: tutti noi eravamo interessati al punk, e in generale si viveva tutto in maniera underground. Tutto era riconducibile all’underground: i concerti più grossi vedevano la presenza di cinquecento persone, però partecipare a uno di quei concerti all’epoca in Brasile ti faceva sentire come se stessi suonando in una grande arena, con magari cinquantamila persone! Era incredibile…”
Non riesco nemmeno a immaginare cosa abbia significato suonare al Rock In Rio all’epoca, perché se mi parli così dell’impatto di cinquecento persone allora mi chiedo come sia stato suonare con cinquecentomila persone, in quell’occasione…
“Beh, quello è venuto dopo [nel 1991, NdR], e quando è successo è stato incredibile. Non avevamo idea del fatto che questo genere di musica potesse funzionare in un festival, poiché non l’avevamo mai fatto prima. E invece… ha funzionato ed è stato grande, poiché abbiamo avuto la prova che questo genere può avere il suo spazio anche in una grande arena. Ci sono stati gruppi pionieristici in questo senso, come i Metallica, i Megadeth e gli Slayer, ma noi stessi abbiamo nel tempo stabilito una profonda connessione con questi spazi aperti, come a dire che sì, si tratta di musica dal carattere underground ma può anche essere rivolta al grande pubblico. La cosa migliore, poi, è che simili eventi non ti cambiano: sei sempre la stessa persona che suona la stessa musica; semmai sei tu a cambiare il mondo attorno a te, una volta che ti accettano per quello che sei. Non abbiamo dovuto di certo ammorbidirci per arrivare a quei livelli: suonavamo ancora pesanti e la gente lo accettava, ecco tutto.”
Hai menzionato le origini punk e ho sempre pensato che il vostro contributo alla crescita, alla maturazione e all’erudizione della scena sia passato – come per i Metallica – da determinate scelte iconiche per quanto riguarda le cover da voi suonate. Non è solo un fattore musicale, ma anche relativo al fatto di far conoscere fenomeni relativamente oscuri a masse più ampie, come è il caso dei Ratos de Porão o anche dei Dead Kennedys, grandi di per sé ma ancora sconosciuti a una grossa fetta del pubblico. E poi, se solo penso alla mia generazione, molti di noi hanno ascoltato ‘Orgasmatron’ dei Motörhead per la prima volta nella vostra versione, quella uscita nel 1991. Suonavate cover anche nei primi tour?
“Sì, mi è sempre piaciuto suonare cover, laddove uno può omaggiare l’originale ma metterci anche del proprio. ‘Orgasmatron’ è un caso davvero particolare: ho sempre pensato si trattasse di una grande canzone metal e ne ho sempre amato il testo, che è bellissimo. Lemmy era un grande paroliere, che tuttora non riceve ancora il riconoscimento che merita. La potenza di quel pezzo sta nell’essere sostanzialmente minimalista, con pochi accordi – il nostro stesso materiale era molto più intricato, se pensi a ‘Primitive Future’ o a ‘Inner Self’, con un sacco di riff e di cambi di tempo! Ecco dunque che ho sentito ‘Orgasmatron’ e mi sono detto, questa è davvero grezza! Minimale, potente, con questo Mi minore [e intanto canticchia il riff principale, NdR]… registrarla è stata una vera e propria rivelazione per noi, come se avessimo realizzato che ci sono modi diversi per suonare pesante: puoi sì essere pesante se suoni veloce ma anche se hai il giusto groove che guida il pezzo. Ecco, un esempio perfetto è ‘Roots Bloody Roots’, molto vicina a ‘Orgasmatron’ come struttura, minimale com’è e ripetuta quasi su un’unica nota, come un mantra continuo… Ma abbiamo anche suonato pezzi dei New Model Army [The Hunt, NdR], dei Dead Kennedys…”
Per non parlare dei Cro-Mags con ‘We Gotta Know’…
“Eh sì, Cro-Mags, Sick Of It All, Biohazard… poi facevamo i Sex Pistols, suonavamo ‘Bodies’, all’epoca. Abbiamo anche suonato un pezzo dei Soundgarden…”
Davvero? Non lo sapevo!
“È un pezzo che si chiama ‘Hunted Down’, tratto dai primissimi dischi. Uno di quei riff pesantissimi…”
… nonché molto sabbathiano. Non a caso, avete spesso omaggiato i Black Sabbath, con la versione di ‘Under The Sun’ fatta dai Soulfly, nonché con ‘Symptom of the Universe’ suonata dai Sepultura! Adattissime al vostro sound, specie la seconda parte di ‘Symptom…’ con quel mood molto sudamericano.
“Sì, me le ricordo bene. ‘Symptom…’ è stata la prima, ed ero molto nervoso all’idea. Poi però abbiamo pensato che avremmo potuto farla nostra, velocizzando la sezione centrale nello stile dei Sepultura! Per non parlare di ‘Under The Sun’, un grande pezzo con un testo spettacolare: i testi di Ozzy sono fantastici [forse perché la maggior parte delle volte li scriveva Geezer, NdR]. A questo pezzo è legato un bel ricordo perché ho ricevuto una lettera da Ozzy in cui mi faceva i complimenti per la cover: mi sono sentito tipo, ok, posso anche morire domani… non ho bisogno di un Grammy, ho già il mio riconoscimento!”
Una vera e propria laurea!
“Sì, questa è la mia laurea, non mi serve altro.”
Se ripenso al vostro impatto in un Paese come l’Italia trenta, tentacinque anni fa, con l’uscita di ‘Chaos AD’ e la ricerca dei dischi precedenti tra cui ‘Schizophrenia’, la cosa importante e rivoluzionaria per noi era il fatto di essere al cospetto di una band che per una volta spezzava la supremazia angloamericana nel genere, laddove i modelli fino ad allora erano stati quelli delle due sponde dell’Atlantico, eccezion fatta per i Kreator. E poi, eravate un gruppo dalle origini neolatine come le nostre. Eravate coscienti del fatto che stavate aprendo un nuovo mercato quando avete ottenuto il deal con la Roadrunner?
“Beh, non solo sentivamo l’aria di cambiamento, ma ci sentivamo pienamente parte di essa, nonché nella posizione di poterne guidare la direzione. Da questo punto di vista, uno dei dischi più importanti dei Sepultura è ‘Chaos AD’ proprio perché si distingueva da quanto fatto fino ad allora. In un certo senso, tutti si aspettavano che avremmo tirato fuori una sorta di ‘Arise part 2’, laddove ‘Arise’ è ovviamente un grande album, ma volevamo mostrare alla gente che potevamo fare di più, che potevamo scavare nel profondo, rallentando e dando spazio al groove. Di qui la genesi di pezzi come ‘Territory’, ‘Refuse/Resist’, ‘Slave New World’, ‘Nomad’, ‘Propaganda’ – che è un pezzo fondamentale. Direi che questo disco sia stato un punto di svolta non solo per noi ma per il metal in generale, proprio perché ci si è resi conto dell’esistenza di modi diversi per suonare pesante oltre a quello che impone la costante velocità death/thrash. Insomma, c’era un modo diverso di fare le cose ed è arrivato anche al momento giusto, perché ‘Chaos AD’ è uscito nel pieno dell’ondata grunge, quando i Nirvana erano la realtà più grande del pianeta e tutti si dimenticavano del metal. Noi non ce ne eravamo dimenticati: abbiamo pensato che il metal era un elemento costitutivo imprescindibile e che lo avremmo omaggiato con quel disco. Per noi si è trattato di un lavoro eccellente, e tuttora quando suoniamo i pezzi di ‘Chaos AD’ in tour il massacro è assicurato!”
Immagino… per quanto i Cavalera Conspiracy ci abbiano abituato ai tour celebrativi – prima relativamente ad ‘Arise’/’Beneath the Remains’, poi a tema ‘Roots’, poi questo relativo ai primi tre dischi – l’importanza di ‘Chaos AD’ e dei pezzi ivi contenuti resta insuperata. Ricordo benissimo la vostra performance a Donington nel 1994, quando per ‘Kaiowas’ portaste sul palco un intero set di percussioni, una postazione per ciascuno di voi, qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto immaginare prima nella stretta ortodossia del metal…
“Sì, è stato forte. L’idea era di creare qualcosa di pesante in un modo diverso dal solito, esplorando qualcosa di nuovo. Che poi è quello che abbiamo sempre fatto e che emerge in dischi come quello che è in uscita. Pensa appunto a ‘Schizophrenia’: era il 1987, un disco totalmente underground pubblicato dalla Cogumelo Records per il solo mercato brasiliano, ma è anche il disco che ci ha procurato il deal con la Roadrunner che ha aperto la strada a ‘Beneath the Remains’, ‘Arise’, ‘Chaos AD’ e ‘Roots’, quindi resta un lavoro fondamentale per noi. Lo ribadisco: è per questo che sono contento di averlo riregistrato a modo nostro, nel modo in cui avremmo voluto che i fan lo ascoltassero sin dall’inizio, nel modo che rispecchia la nostra “visione” per quest’album.”
Ti senti ancora legato ai testi di ‘Schizophrenia’? Di per sé sono di grande impatto, ma mi stavo chiedendo com’è stato doverli ricantare tutti, questa volta…
“A quei tempi scrivevo ancora i testi in portoghese per poi tradurli in inglese. Gli originali erano proprio in portoghese, e ho il ricordo di ore e ore seduto con un amico, in cui io magari scrivevo una strofa e lui la traduceva in inglese, per poi vedere se ci stava bene nel pezzo e così via. Se penso a ‘From the Past Comes the Storms’ [stavolta il sic ci sta tutto, NdR], di cui tra l’altro abbiamo realizzato il secondo singolo per questa nuova versione dell’album, ci sono passaggi formidabili del tipo “The apes in their cages surrounded by thorns”… cose pazzesche [ride, NdR].”
Sì, la follia sembra essere uno dei temi ricorrenti…
“Il bello è che più ascolto ‘Schizophrenia’ e più penso al film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Non credo ne avessi già sentito parlare all’epoca in cui realizzammo l’album, ma quando l’ho guardato per la prima volta il mio pensiero è andato dritto a ‘Schizophrenia’.”
Per non parlare di ‘R.I.P. (Rest in Pain)’, con il suo ritornello ossessivo…
“Sì, ci sono un sacco di pezzi in questo disco che mi conferiscono quel sentimento nostalgico del tornare indietro nel tempo e rivisitare questo periodo. Uno dei miei preferiti è ‘Septic Schizo’, una delle canzoni più selvagge e brutali che abbiamo mai fatto! Non vedo l’ora di suonarla dal vivo…”
Cosa puoi dirci del nuovo artwork di copertina? È opera dello stesso artista che ha realizzato le nuove copertine di ‘Bestial Devastation’ e ‘Morbid Visions’?
“Sì, Eliran Kantor è un grande, ha lavorato con i Soulfly per gli artwork di ‘Archangel’ e ‘Ritual’. Lui realizza questi quadri che definirei da museo, olio su tela: sembra di stare al Louvre! Sono opere davvero uniche, ma credo che questa sia davvero speciale, perché riesci davvero a percepire l’agonia del ragazzo in camicia di forza in copertina! Per non parlare dell’occhio malvagio nel cielo… un’immagine oscura, cattiva e potente!”
La cosa interessante è che l’originale invece mostrava una ragazza nella stessa situazione…
“La copertina originale era stata realizzata con la vernice spray da un tizio che faceva decorazioni con vernice spray per automobili, non aveva mai fatto la copertina di un album!”
Prima abbiamo menzionato l’apparizione dei Sepultura a Donington 1994, un anno che vide protagonisti voi e i Pantera. A questo proposito, che ne pensi di reunion controverse come quella realizzata da Phil Anselmo e Rex Brown per i Pantera?
“Credo sia una buona cosa, qualcosa che ha sicuramente un feeling nostalgico ma che è forte, perché ti permette di entrare in contatto con i fan vecchi e nuovi, quelli più giovani che magari ti stanno scoprendo ora.”
A questo proposito, hai mai sentito i Cultura Tres? Sono una band venezuelana con cui suona Paulo Xisto Jr., che ha realizzato di recente ‘Camino de Brujos’, un disco fortemente orientato al sound dei Sepultura dei primi anni ’90…
“No, mi spiace… mai sentiti.”
Allora non ci resta che sperare di sentire dal vivo anche ‘Red War’, il pezzo con cui hai contribuito al progetto Probot!
“Eh sì… quello è davvero un gran pezzo, devo proprio dirlo!”