Pain – Live and let die
Il 17/05/2024, di Fabio Magliano.
La figura di Peter Tägtgren ha da sempre suscitato grande ammirazione nel sottoscritto, per la sua essenza poliedrica, la sua capacità di innalzare i lavori delle altre band con il suo lavoro da produttore e la genialità che mette in ogni progetto venga coinvolto, partendo dai suoi Hypocrisy, punto fermo del metal estremo europeo, sino ad arrivare ai Pain, creatura parallela da qualche anno sulla corsia di sorpasso alla band principale. Questo grazie ad una serie di brani/bomba in grado di far breccia anche nel cuore di chi è solitamente poco avvezzo a questo tipo di sonorità, proprio come quelli contenuti nel nuovo ‘I Am’ in uscita oggi, lavoro che lascia per un attimo da parte gli echi bowie-iani di ‘Coming Home’ e va a riversare su di noi sane dosi di melodia, energia e voglia di far festa. Inutile dire che, quando ci è stata offerta la possibilità di scambiare due parole con il sempre disponibile Peter, non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione…
Oggi vede la luce ‘I Am’, il vostro nono album in studio. Che sensazioni provi ora che sei giunto alla meta? Sei soddisfatto, orgoglioso, indifferente o, da musicista estremamente perfezionista come sei, comunque insoddisfatto?
“No, no, sono davvero molto soddisfatto. Di solito ci sono due o tre canzoni di cui non si è soddisfatti al 100%, ma sono sfumature che forse ascolta solo un maniaco come me. Nel complesso credo che sì, sono davvero soddisfatto del risultato finale. Certo, è ancora tutto nuovo, forse è un po’ presto per avere un’idea razionale sul disco, ma ora mi sembra che funzioni bene. È sempre molto difficile esprimere giudizi quando sei così coinvolto. A volte, dopo un po’, si diventa davvero sordi e non ci si rende conto di cosa si stia ascoltando. E’ stata la scelta migliore? Hai fatto la cosa giusta con quella canzone? Ti vengono sempre molti dubbi, ma credo sia normale quando si fa tutto da soli”
Hai intitolato il disco ‘I Am’. Perchè ha una base introspettiva o solamente perchè c’è una canzone con quel titolo al suo interno?
“No, credo che la mia manager mi abbia detto: “Ehi, perché non chiami questo album ‘I Am’? Perché questo è ciò che sei, da quando hai iniziato a scrivere su questo album!”. E questa cosa per me aveva molto senso, perché tutto quello che c’è dentro ha un significato, in un modo o nell’altro, che riconduce a me. Poi ci sono due canzoni che ha scritto Sebastian, mio figlio, ma sono una divagazione e comunque si parla di mio figlio, che è parte di me”.
Quindi la domanda alla fine esce quasi spontanea: Chi sei? Voglio dire, la prima volta che ti ho incontrato era il 2000 al Wacken con gli Hypocrisy, poi nel 2002 sono stato in tour con Pain, In Flames e Soilwork nel tour di supporto a ‘Nothing Remains the Same’ ma credo che il Peter di oggi sia differente dai Peter di allora…
“Sì, sicuramente! Oggi spero di essere non solo più vecchio ma anche più intelligente. Molte cose cambiano con il passare degli anni, si pensa in modo diverso, ed è anche per questo che ogni album dei Pain suona diverso dall’altro. L’unica cosa che fa da filo conduttore è la mia voce. E con la mia voce, soprattutto nel nuovo album, ho cercato di trovare modi nuovi interessanti di cantare. Se vuoi metterla in questo modo, per me è sempre una sorta di viaggio alla ricerca di cose che funzionano bene. E’ un concetto difficile da spiegare, sono cose che si imparano con il passare del tempo e provando e riprovando. Prendi un pezzo come ‘Go With The Flow’… non è stato facile come può apparire, mi ci è voluto tempo per capire come avrei dovuto cantare quei versi. E’ sempre una grande avventura per me quando scrivo per i Pain, perchè non ho limiti. Significa che posso fare qualsiasi cosa, purchè mi piaccia. Sono molto critico con me stesso, seguo molto il mio cuore, sai, e cerco di fidarmi di me stesso. E se quello che faccio mi prende bene, allora vado fino in fondo. Se non mi piace, continuo a provare e provare e provare per migliorare sempre di più, finché non sono soddisfatto di me stesso. Poi ovviamente devo tenere conto anche degli altri, perchè per me è molto importante il pensiero di tutte quelle persone là fuori. Io tendenzialmente cerco di rimanere in contatto con i miei follower, faccio un sacco di Q&A, un po’ di Instagram e cose del genere…. E, sai, c’è un sacco di gente che mi dice: “La tua musica mi ha salvato la vita e mi ha fatto continuare a lottare” e cose del genere. E questo diventa una vera e propria, come dire, responsabilità anche per me. Quindi devo comporre musica che appaghi me stesso, ma che allo stesso tempo rispetti tutte quelle persone che ascoltano le mie canzoni e traggono qualcosa da esse”.
Come hai detto, leggere ‘La tua musica mi ha salvato la vita’ è una bella responsabilità. Non senti mai pressione al momento di comporre, pensando a questo? Roba del tipo ‘Se scrivo questo potrebbe essere interpretato così, e allora….’
“Si e no, cioè, io faccio come ho sempre fatto, seguo il mio istinto, se no se mi metto a pensare troppo il brano non uscirà buono come pensavo quando ho iniziato a ascoltarmi. Se ci metti troppa roba cerebrale alla fine perdi in spontaneità. Io tendenzialmente, poi, cerco di non scrivere troppa roba strana, che possa essere giudicata o interpretata male. Io non giudico, io principalmente scrivo di come vedo la vita davanti a me, quindi scrivo i testi in base alla mia prospettiva, a come vedo le cose. Scrivo quelli che sono i miei pensieri e come mi sento, a volte. Prendi ‘Fair Game’, nonostante sia una ballata è una canzone molto positiva, che porta in sè il messaggio di cercare di rialzarsi sempre, di andare contro alle stronzate e di cercare di essere forti. E lo stesso vale per ‘Go With The Flow’, che per me è una canzone terapeutica. Io sono una persona che si accende facilmente, mi arrabbio sempre quando le cose vanno male, quindi questo brano mi ha insegnato molto: inspira, espira…respira profondamente…conta fino a 10…rilassati e non arrabbiarti per ogni cosa. Fantastico. Serve a ricordarmi che non serve arrabbiarsi sempre ma spesso è più salutare lasciare andare le cose”.
Una sorta di “vivi e lascia vivere”…
“Esatto. Non ti arrabbiare, non serve a niente, lascia che le cose scorrano, segui il flusso… C’è un messaggio positivo alla base di queste canzoni, ma perchè fondamentalmente voglio trasmettere all’ascoltatore sensazioni positive, perchè alla fine ‘I Am’ è un party album. Se devo immaginarmi questo disco inserito in un contesto di quotidianità, voglio che sia il disco da mettere su bevendo un paio di drink prima di uscire e andare a fare serata o a un concerto… un album utile per scaldarsi e entrare nel mood della festa. Poi certo, ci sono anche pezzi più cupi perchè come ti dicevo per me scrivere e tirare fuori quello che sento che non va in me è terapeutico, ma nel suo complesso è un disco molto positivo”.
Prima hai affermato che non ci sono limiti nei Pain. Perchè? Forse perchè negli altri tuoi progetti devi comporre seguendo determinati schemi stilistici per accondiscendere i fan mentre qui puoi fare tutto quello che vuoi?
“Si, in un certo senso sì. Voglio dire, la ragione per la quale ho fondato i Pain è perchè non volevo contaminare gli Hypocrisy e non volevo mischiare gli stili. Negli anni ’90 dopo i primi tre album con gli Hypocrisy ho iniziato a sentire la necessità di scrivere qualcosa di differente. Non perchè non mi piacesse quella musica, sia chiaro, ma perchè volevo sperimentare, provare un modo nuovo di scrivere canzoni ma allo stesso tempo non volevo snaturare gli Hypocrisy, quindi ho deciso di dare vita ai Pain come progetto per me stesso, come musicista, produttore e autore, che m consentisse di crescere ed evolvermi”.
In questa ottica di sperimentazione, oggi il 90% degli ascoltatori sente musica attraverso lo smartphone con una resa sonora abbastanza mediocre. Quando ti trovi a registrare tieni conto di questo fattore o registri al meglio, come se ognuno di noi dovesse ascoltare il disco attraverso il miglior stereo al mondo?
“Mi fa ridere questa cosa, perchè mi ricorda quando ho iniziato a suonare, che andavo in studio da giovane a registrare i demo, poi tornavo a casa, li mettevo nello stereo e il suono non era lontanamente paragonabile a quello che avevo sentito poco prima in studio, perchè li avevano dei diffusori fantastici e robe del genere… Quindi oggi quando mixo, faccio un mix e lo metto sul mio smartphone, poi metto il telefono sul tavolo e ascolto. Uso anche i boombox, e pure i miei enormi diffusori dello studio, e perfino nell’autoradio…. cerco di ascoltare la mia musica attraverso tutti i supporti possibili, da quello più economico a quello più sofisticato, perchè per me il disco deve suonare bene ovunque. E’ un lavoro delicato, credimi, perchè quando produci una band e ci lavori per tanto tempo, e poi alla fine quando mixi mandi tutto a puttane è sconfortante… Questa volta spero di aver fatto un buon lavoro, ora tocca ai fan dirmi se è proprio così o no”.
Ma per un produttore è una fine, per un musicista è frustrante o è una sfida registrare in questo modo?
“È una sfida essere il produttore di se stessi, mixer, autore e interprete. Ci sono un sacco di cose a cuoi badare, non ho nessuno intorno a me che possa aiutarmi in questo senso, quindi devo fidarmi solo di me stesso. Naturalmente ora ho Sebastian, mio figlio, che scrive molto bene e ha prodotto anche due canzoni dell’album, quindi è fantastico vederlo crescere come musicista e come produttore”.
Come è lavorare con il proprio figlio? Hai un approccio differente rispetto al lavoro con altri musicisti o ti relazioni a lui come con qualsiasi altro collaboratore?
“No, non proprio. Voglio dire, quando lavoriamo non è come se fossimo padre e figlio, ma più come amici, fratelli… chiamali come vuoi! Poi certo, sono suo padre e quella vena protettiva c’è sempre, è normale. Quando andiamo in tour non tollero stronzate da lui, ma questa è una cosa che credo rimarrà fino al giorno della mia morte, ma credo che tutti i genitori siano così. Sono stato molto cauto nel portarlo in tour fino ai 18 anni. Avrei potuto portarlo con me già quando aveva 14 anni ma non volevo farlo entrare troppo presto in questo mondo magico, quindi ho preferito aspettare che fosse un po’ più grande. Ora è in tour con me dal 2016, ed è stato il batterista live dei Lindermann, quindi ha dovuto pazientare prima ma ora ha già girato il mondo un po’ di volte”.
Tornando all’album, ho letto che ‘Party In My Head’ è nata durante la pandemia e dal successo riscosso è partita la scintilla che ha poi portato alla nascita di ‘I Am’. In questo caso possiamo dire che il Corona sia stato in qualche modo di ispirazione per i Pain…
“Non è stata la pandemia a ispirarmi, ma la musica stesa. Anzi, è il ritmo a ispirarmi, perchè io nasco come batterista e per me il ritmo è tutto, quindi quando me ne viene uno in testa scocca la scintilla. Il ritmo è sempre stato molto importante per me, è fondamentale che si percepisca il ritmo nella canzone, non importa se questa è lenta o veloce… Per quanto riguarda i testi io prendo tutto quello che la vita mi offre durante il giorno, da cosa sento al telegiornale a cosa trovo in rete… tutto può essere utile quando cerco idee per scrivere un brano. Ma anche quello che ho passato nella mia vita può essere di ispirazione, anche per questo ogni canzone suona in modo così differente da un’altra”.
Una cosa che ho sempre amato del tuo modo di comporre e di ciò che aleggia attorno ai Pain è la vostra spiccata vena ironica…
“Quella è fondamentale! L’umorismo, così come il linguaggio e la sfrontatezza. Non ci sarebbero Pain senza ironia. Prendi ‘Push The Pusher’… una volta un tizio mi ha fatto incazzare di brutto, è nata una discussione abbastanza accesa e, alla fine, ho tirato fuori il testo di ‘Push The Pusher’. Alla fine la verità è che nessuno di noi vuole crescere. Perchè dovremmo crescere? Quale è il problema? Fino a che ti assumi le tue responsabilità, suoni e non violi la legge, perchè dovrei cambiare? C’è un sacco di gente che mi dice ‘Dai, devi crescere, esci da questa situazione. Bla bla bla…’ Ma non me ne frega un cazzo, me ne frego, non voglio crescere e voglio continuare a fare quello che faccio. Questo è il mio modo di essere e non devo scusarmi con nessuno per essere ciò che sono”.
Un’altra cosa che mi fa impazzire della vostra musica è la vena melodica dei brani. Una volta si pensava che la melodia fosse tipica dei Paesi latini, negli ultimi anni le melodie migliori sono state tirate fuori da band scandinave. C’è un segreto per tutto questo, secondo te?
“Non lo so, ad essere onesti. Non ho idea da dove venga, ma sono convinto che qualsiasi cosa io abbia ascoltato dal giorno in cui sono nato a oggi, rimanga nella mia testa e diventi una specie di jukebox. Cosa hai sentito da bambino in un modo o nell’altro ti ha influenzato, così come ti influenzano le cose che continui ad ascoltare. Poi sai, qui in Scandinavia ci sono otto mesi all’anno in cui è sempre fottutamente buio. Quindi, voglio dire, non c’è molto altro da fare. Forse questo fa emergere maggiormente i tuoi pensieri per le melodie o le cose artistiche. Ma la mia è solo un’ipotesi, onestamente non so da dove nasca la melodia”.
Ora non ci rimane che aspettare il propagarsi di ‘I Am’ e attendervi dal vivo…
“Si, anche se non abbiamo ancora pianificato nulla. Voglio dire, quest’estate ci saranno molti festival poi a settembre potremmo andare in America. A ottobre abbiamo un tour scandinavo e dopo vogliamo tornare in Europa e suonare il più possibile. Ci abbiamo già suonato a fine 2023 ma era un modo di dire al mondo che i Pain erano tornati, adesso però non ci vogliamo fermare. Al momento stiamo organizzando, magari allestendo un tour insieme a qualche altro gruppo, non so ancora, stiamo cercando…ma non ci arrendiamo. La nostra priorità è uscire di nuovo e portare il nuovo album anche dal vivo ai nostri fan”.
Non hai proprio tempo per riposarti…
“Non è il momento di riposare. Non ha senso, se non vuoi bruciarti o altro. Sono stato in depressione per 10 anni dal 2013 e ne sto uscendo ora. Lentamente, lentamente, lentamente, lentamente… ci sono voluti 10 anni. È incredibile, ma a volte è così. Quindi non ho tempo per riposarmi”
Ma c’è un giorno in cui non pensi alla musica, non suoni, non registri…
“No, purtroppo no. Anche se non sono in studio o non ho uno strumento in mano, penso costantemente alla musica, a come migliorare i pezzi, il sound… Ma alla fine questa è l’unica cosa che conosco e che so fare davvero bene, quindi vivo facendo cosa mi piace, e questo mi rende una persona fortunata”.