Crohm – The Sound of Perseverance
Il 01/05/2024, di Fabio Magliano.
I Crohm sono l’esempio lampante di come tenacia, caparbietà e smisurato amore per l’heavy metal siano determinanti per andare oltre ogni ostacolo e portare avanti quello che era un sogno adolescenziale. Nel 2025 quello che è stato il primo gruppo heavy metal della Valle d’Aosta compirà 40 anni, anni intensi nei quali questi “ragazzini” hanno gettato il seme, ci hanno sperato, si sono fermati per poi ritrovarsi già grandicelli nel 2014, sorprendentemente più carichi, determinati e ispirati di prima tanto da dare alla luce, nel giro di 10 anni, quattro album e un live, tornando a far girare con insistenza un nome che sa di mitologico. Il nucleo centrale della band, composta da Claudio Zac Zanchetta alla chitarra, Riccardo Taraglio al basso e Sergio Fiorani alla voce, è stato impreziosito dall’innesto alla batteria di Fabio Cannatà batteria, e tutti insieme ci presentano in anteprima, in un fresco pomeriggio aostano il loro nuovo nato, quel ‘King Of Nothing’ che ci mostra nuovamente una band carica, potente e desiderosa quanto mai di riversare in musica sane dosi di rabbia ed energia.
Il disco è sicuramente uno di quei lavori che spiazzano, passando con grande naturalezza da sonorità tipicamente metal ad altre puramente thrash sino ad arrivare a soluzioni più moderne. Come nasce un sound simile?
“(Sergio) E’ un mix tra quelli che sono i nostri ascolti, nel senso che noi siamo tutti ascoltatori da sempre, praticanti di metal, poi noi tre in particolare veniamo dagli anni ’80, eravamo ragazzini in quegli anni, quindi abbiamo già il substrato del metal classico che sicuramente ci ha spronati, mentre Fabio è un po’ più giovane, ma ha anche lui il suo bagaglio di ascolti alle spalle. Sto parlando di quattro ascolti molto differenti, nel senso che io sono un grande esploratore, ma non sopporto il metal estremo, mentre invece Zac ama molto quelle zone lì. Riccardo invece è rimasto più attaccato al metal classico, heavy metal… Fabio è “inquinato” dagli anni ’90 perché è cresciuto con quella musica, in più è anche un grande amante dei Queen … e quindi la mescolanza di tutte le nostre teste porta a questa varietà di stile. Noi mescoliamo queste quattro cose insieme e viene fuori sempre qualcosa di nuovo. Non ci poniamo mai il problema del genere che vogliamo suonare, ma di cosa deve dire quella precisa canzone”
Quindi il suono dipende da chi compone la canzone?
“(Sergio) Dipende da chi la compone, ma non solo. A volte le idee che vengono portate e lavorate partono da un testo o da un argomento trattato. Magari ho un’idea in testa e chiedo a Zac di tirare giù un riff che crei un’atmosfera adatta al testo che ho scritto. O può essere Riccardo ad arrivare con un riff, io penso che possa legarsi bene ad un’altra canzone e insieme sviluppiamo l’idea e cominciamo a costruire pezzo per pezzo, ma senza pensare a dove stiamo andando. Ma siccome ci suona nella testa, il risultato è quello che esce fuori alla fine”
Parlando di ‘King Of Nothing’, c’è un concept alla base di questo disco?
“(Sergio) Non c’è un vero e proprio concept, nel senso che io normalmente scrivo testi che girano intorno all’uomo, all’animo umano, alle sensazioni e alle emozioni. Nei dischi precedenti sono stato molto più orientato a dare uno sguardo verso l’esterno, a cosa succede nel mondo, a cosa succede a grandi sistemi, mentre qui invece mi sono concentrato di più su una visione interiore che quindi è molto personale, ma allo stesso tempo applicabile a tutte le persone perché ognuno di noi vive momenti simili nella propria vita. Non è stata una cosa voluta, mi è venuta così, forse anche perché era un momento un po’ particolare per me. Quindi non c’è una storia per capitoli, ma è la storia dell’animo umano, ci sono momenti più alti, momenti più bassi, momenti di speranza e di assoluta disillusione”.
“(Riccardo) Se ripercorri la nostra discografia ci puoi trovare un filo conduttore. Il primo disco è ‘Legend And Prophecy’ con i pezzi dei Crohm degli anni Ottanta, quindi leggende e profezie; il secondo è ‘Humanity’ che rivolge uno sguardo all’umanità; quindi ‘Failure In The System’ che parla del fallimento delle società umane ed infine il nuovo album nel quale ci rivolgiamo all’interno dell’animo”.
“(Sergio) Anche quel re nel deserto, non è una persona che ha la vacuità della conquista, come potrebbe essere un capo di stato piuttosto che un politico, un mafioso, uno qualunque che ha tanti soldi e fa business sulla pelle degli altri… ma è più una raffigurazione simbolica dell’animo umano. Se non si spende bene la propria esistenza, se si è sfortunati, ci si ritrova a essere i re del nulla, quindi è più un simbolo che un personaggio. Con intorno il deserto che rappresenta il nulla ovviamente, e la tempesta che ci sta sopra a raffigurare lo stato d’animo interiore”.
Chi è che si è occupato dell’artwork?
“(Sergio) La grafica è stata realizzata da Pier Francesco Grizi su un mio input. Avevo lavorato su una mia fotografia fatta in Bretagna, dove c’era questo terreno piatto, spiaggia piatta, mare piatto, un cielo plumbeo e avevo piazzato un trono sulla spiaggia con un programma di grafica basic level. Questo era lo spunto e da lì siamo partiti. Pier mi ha però proposto di inserire il re, ma subito ero dubbioso, perché puntavo al trono e basta. Però abbiamo provato e mi è piaciuto molto e da quello siamo partiti a lavorare sul personaggio. Gli ho chiesto di estendere questo paesaggio agli altri personaggi che popolano poi le varie canzoni e che nel libretto sono tutti inseriti in questo stesso scenario”.
In alcuni brani emerge il lato più crudo di voi, andando a sfociare in lidi puramente thrash. Da cosa nasce tutta questa rabbia?
“(Sergio) Perché i pezzi meritavano quel ritmo, nel senso che se tu leggi il testo delle canzoni, ascolti cosa viene raccontato, ti rendi conto del perché di tutta questa rabbia. In particolare, due brani sono una sorta di cazzuolamento molto violento nei confronti di alcuni personaggi che purtroppo fanno parte del genere umano”.
“(Riccardo) Per me più che rabbia spesso è sacra indignazione, perché ci sono cose che non puoi tollerare, non puoi accettare e devi alzarti con un pugno chiuso e gridare la tua indignazione. In questo senso quei nostri brani sono fustigate… in ‘No Direction’, ad esempio, i ritmi serrati sono più dovuti a una specie di palpitazione interiore, molto molto pesante da reggere, molto faticosa. Un buio molto profondo che dà questa sensazione forte, ma poi questo porta a un crollo interiore e infatti a un certo punto a metà il brano cade, perché l’individuo non ce la fa”.
Si può dire che c’è un che di terapeutico tutto in questo?
“(Sergio) Sicuramente! Io curo tutte le mie malattie mentali scrivendo canzoni (ride Nda). Se non cantassi sarei ricoverato! Una volta sembravo più normale perché andavo anche a nuotare, ora non posso più nuotare per un problema a una vertebra, però quello era un altro bel mantra mica da ridere!”
“(Riccardo) Un sacco di volte esco di casa incazzoso ripensando alle giornate e alle situazioni da “sacra indignazione”, vado a suonare e dopo mi sembra di aver fatto un corso di yoga: torno a casa tranquillo… e me ne accorgo da come guido perché insulto meno o per niente gli impediti al volante… suonare ti permette di esprimere cose che non esprimeresti mai, è questo il bello”.
E magari componendo e tirando fuori tutto, si riescono a vedere le cose in modo più nitido, si razionalizza, si mette a fuoco il problema e si riesce anche a trovare una via d’uscita da quello che non funziona…
“(Sergio) Sì e no, perché in realtà le canzoni che parlano di incazzatura sono quelle di osservazione sociale, il che non ti aiuta a mettere a fuoco il problema perché purtroppo lo hai già messo a fuoco fin troppo bene! In quelle invece che parlano di problemi introspettivi, mettere a fuoco è praticamente impossibile, nel senso che noi siamo cangianti e quindi abbiamo una costante caratteriale che però, quantomeno la mia, è appoggiata a una sinusoide e quindi ha dei momenti di luce e altri di buio. Nel mio caso sono più tendente a quelli bui, ma non posso dire di non avere quelli di luce, quindi ragionevolmente io, anche se cerco di sforzarmi a non vederla così male, a 57 anni non ci sono ancora riuscito, quindi non è terapeutico, però almeno mi permette di sfogare la rabbia”.
Siete in circolazione dal 1985 e l’anno prossimo, al netto di una lunga pausa di riflessione, sarete sulle scene da 40 anni. Dal vostro ritorno l’impressione è che la vostra vena creativa sia estremamente florida. C’è un segreto per questa vostra seconda giovinezza?
“(Sergio) Ce ne sono molti. Sicuramente la base è l’amore per la musica che ci ha fatto andare in questa direzione stilistica, però c’è anche il piacere di ritrovarsi di nuovo, amicizie che avevi tanti anni fa e che non si erano spezzate, solo “sospese” e che col tempo si sono alleggerite di tante cazzate che spesso le rovinano. Riuscire di nuovo a rimpolparle, secondo me è stato molto bello. E quindi perché non continuare? Poi abbiamo avuto la fortuna di incontrare sul nostro cammino Fabio, che sembra sia stato con noi sin dall’85. Fabio è un elemento non amalgamato, ma davvero compenetrato nella band, lui è uno dei Crohm, assolutamente, l’abbiamo sempre considerato come tale. Ci ha preso subito bene e noi per fortuna gli siamo andati bene, perché non è scontato trovarsi bene a suonare con tre anzianotti. Siamo tutti tre del ’67, lui dell’84… forse non è lui che è invecchiato, ma noi che siamo diciottenni rincoglioniti ancora oggi e quindi ci siamo trovati sullo stesso piano. E questo porta l’entusiasmo di creare qualcosa che non c’è, e che ti fa piacere e ti esalta. E poi suonare per me è un momento di libertà spirituale, cioè suonare con loro… il mondo è fuori… figata”.
“(Fabio) Forse perché ci sono ancora delle cartucce da sparare, quelle cartucce che non ho mai sparato da “giovane” e nemmeno loro, e adesso che le spari sono cariche come bombe da bazooka”.
“(Zac) Io se non facessimo roba nostra non suonerei. Anni fa mi proponevano di fare cover e io mi sono sempre rifiutato. Il massimo che ho fatto è prendere pezzi pop e farli suonare come minimo hard rock. Ne è l’esempio la nostra versione di ‘Eleanor Rigby’ che abbiamo riletto a modo nostro rendendola decisamente più metal”.
Possiamo dire che la presenza di Fabio magari non vada a “svecchiare” il vostro sound, ma a portare un tocco di modernità a un contesto legato al metal classico?
“(Zac) Non saprei, perché a volte andiamo a braccetto, le cose che ascoltiamo noi due magari non le ascoltano Sergio e Riccardo… sicuramente lui porta una ventata di energia, nel senso che è una pila inesauribile e sia in garage che sul palco ci dà una spinta notevole”.
“(Sergio) Anche perché tu lo vedi tutto ringalluzzito mentre suona e… cazzo! non vuoi essergli da meno!”
“(Riccardo) Poi la cosa bella è che quando sei più giovane magari hai il sogno di arrivare, di costruirti una carriera… Adesso non ci pensi, però lavori ‘come se’. Se un giorno ci invitassero a suonare a New York ci andremmo di corsa, però non lavoriamo per farlo, per arrivarci. Lasciamo aperta la porta, cerchiamo di fare le cose sempre al meglio, suoniamo due volte a settimana anche se non abbiamo concerti… perché è bello, è bello suonare. Dove abbiamo la sala prove vediamo le band che vengono a provare in concomitanza con il concerto, noi invece ci siamo sempre”.
“(Zac) Ed è per questo che noi produciamo. Se guardiamo al contesto, la percentuale di chi veramente compone per arrivare a portare la propria musica in giro è davvero bassa”.
“(Sergio) Quello che dice lui si lega poi al risultato, cioè se ottieni i risultati continui ad andare avanti, noi invece abbiamo un punto di vista più hobbystico, mettiamola così, perché possiamo permettercelo visto che siamo quasi alla pensione. Per me è un hobby e non ho il peso dell’insuccesso né la smania del successo, perché per me avere quei cinque CD lì è già un successo che non mi sarei mai aspettato. Andarmi a leggere quelle recensioni che hanno detto che erano dei bei dischi mi rende felice e questo mi permette di essere soddisfatto e di dire ok andiamo avanti… Mentre invece posso capire che magari dei ragazzi più giovani, che lavorano sodo, ma non hanno un riscontro, dopo un po’ mollano. Un po’ come avevamo fatto anche noi all’inizio”
Quando avete iniziato a registrare il nuovo disco, avete cercato uno studio in grado di dare un sound più “ruspante” e meno artefatto al lavoro. Come mai questa volontà di affidarvi ad un suono più grezzo?
“(Riccardo) Perché volevamo differenziarci dalle produzioni attuali. Loro tre hanno sempre ascoltato metal, io ho avuto un periodo in cui mi sono un po’ staccato dal metal e le mie orecchie sono rimaste a suoni che, quando ascoltavi un pezzo, individuavi subito la band: Metallica, Megadeth, Iron Maiden, Saxon… Quando ho ricominciato a ascoltare metal, non distinguevo più un gruppo dall’altro, perché con tutti questi suoni digitali, le chitarre suonano tutte nello stesso modo e quindi o ti metti ad ascoltare il gruppo e allora poi conosci le canzoni, altrimenti a livello di suono le produzioni sono tutte uguali e a me questo non piace. Io ho lavorato per trovare il mio suono di basso e volevo che fosse ben distinguibile”.
“(Zac) A me da fastidio non sentire neanche più l’imperfezione nei dischi. Io mi ricordo che mettevo su ‘The Number Of The Beast’ e sentivo qualcosa che strideva, si sentiva la gente vera che suona davvero. Adesso con la post produzione gli spigoli vengono tutti smussati, tolgono i respiri, ma il risultato è qualcosa di innaturale, perché non esiste che il cantante non tiri su il fiato. Quando canti è normale che il cantante prenda fiato, ed io voglio che si senta. Anche perché poi quando vai sul palco, senza trucchi e senza inganni, vuoi che il sound esca proprio come su disco. Quindi se ascoltando il disco si sentono degli inciampi, sono lasciati lì apposta, perché noi siamo quello”.
“(Sergio) Nella stessa direzione abbiamo fatto le prese, nel senso che, quando abbiamo fatto la batteria, abbiamo suonato sempre tutti prendendo la batteria, poi abbiamo suonato tutti prendendo la chitarra, in modo da avere sempre un sound live, perché noi siamo fortemente convinti che sia l’unico modo per mantenere un po’ di groove, e noi il groove serve anche per nascondere la nostra inefficienza (risate Nda)”.
Ma vale davvero la pena sbattersi così, a cercare queste sfumature, dal momento che chi è là fuori probabilmente ascolterà il disco utilizzando supporti non certo eccelsi tipo gli speaker del PC o dello smartphone e questi dettagli non verranno percepiti?
“(Riccardo) Ne vale assolutamente la pena perché noi siamo i creatori! Se fai il cuoco non cucini un piatto schifoso perché la gente tanto non sente i gusti. Io quello che faccio lo faccio bene perché deve uscire fuori un lavoro buono, poi si spera anche di trovare gente che lo apprezzi”.
“(Sergio) Io aggiungerei un aspetto che è tutto mio: io amo comprare i CD, i vinili, i libri… amo avere anche l’oggetto. Se là fuori c’è qualcuno come me che compra ancora i CD, io voglio che sia soddisfatto come lo sarei io ed è per questo che lavoriamo tantissimo sul suono e sul lato grafico perché vogliamo che il risultato sia sempre al meglio delle nostre possibilità”.
“(Riccardo) Infatti se guardi tutta la nostra discografia, dal 2015 ad oggi abbiamo sempre realizzato il digipack per le nostre produzioni, abbiamo sempre voluto un disco fatto così. Perché non l’abbiamo fatto in crystal? Perché quando compriamo un disco con la custodia in crystal, il crystal si rompe e devi andarti a cercare come sostituirla e questo ti dà fastidio e ti incazzi. Noi vogliamo che il CD sia un oggetto bello, con il libretto da sfogliare, con le foto e tutto il resto”.
“(Sergio) Infatti questo giro ci abbiamo anche pensato su: lo facciamo solo in digitale, facciamo delle chiavette da vendere ai concerti, lo carichiamo solo sulle piattaforme… poi alla fine abbiamo concluso che se qualcuno vuole il CD è giusto che lo abbia e che possa comprarlo come lo comprerei io”.
Avete parlato del bello, io personalmente trovo frustrante che il senso di “bello” negli ultimi anni sia andato perdendosi insieme al senso critico della gente, e che la linea di demarcazione che separa il bello dal brutto sia quasi inesistente. Mi viene da pensare alle difficoltà che incontrano i gruppi che fanno canzoni proprie a suonare, “sorpassati” da chi si affida a cover e tributi…
“(Sergio) Io credo che la risposta sia nella domanda stessa. Nei locali suonano sempre le solite cover band perché il livello di chi ascolta è sceso e quindi non si vuole impegnare il cervello a seguire una cosa nuova, ma si vuole sentire qualcosa che è già conosciuto, anche se è suonata dai musicisti che l’hanno composta”.
“(Riccardo) Questa cosa dello scoprire novità musicali lo abbiamo sperimentato quando siamo andati a suonare in Svizzera. In Italia abbiamo visto che vengono a sentirti se ti conoscono, in Svizzera vengono a sentirti se non ti conoscono. E vengono pure in tanti, ma è una roba smodata. Quando abbiamo suonato in Svizzera, pure a pagamento, non entrava uno spillo in quel posto, tant’è che noi avevamo stabilito un rimborso spese con il gestore del locale e lui di sua spontanea volontà ci ha dato il doppio perché ha finito la birra”.
Allora è vero che nessuno è profeta in patria…
“(Riccardo) Vogliamo provare a portare la nostra musica fuori dall’Italia e infatti con Davide – The Metallist, il nostro ufficio stampa, abbiamo deciso di puntare sull’estero, non a caso la première del nostro video è stata presentata da una radio portoghese e quella dell’album sarà ospitata da un sito tedesco; molte richieste per interviste sono arrivate dall’estero e c’è molta curiosità per la nostra realtà metal alpina… ne abbiamo fatta una in spagnolo per una radio messicana e abbiamo ricevuto offerte da canadesi e australiani. E’ divertente… e inaspettato. Quando abbiamo suonato in Piazza Chanoux ad Aosta si è fermato un trio di americani che ha assistito a tutto il concerto e alla fine ha comprato CD e magliette quindi… boh, magari ci chiameranno ad aprire agli Iron Maiden in Brasile (ride, Nda)”.
“(Sergio) L’Italia ha una sua cultura musicale che è difficile da sradicare e che non è rock, ma melodica, formata dall’insieme di tutte le culture musicali regionali che si fondono in Laura Pausini piuttosto che in altre cose, ed è quello che va. Sanremo ne è la più alta testimonianza”.
“(Riccardo) L’esempio lampante di quanto appena detto lo abbiamo incontrato l’altra sera al concerto dei Priest, ed è Pino Scotto. Nonostante la sua carriera, la sua storia, i suoi dischi… è tuttora underground perché è un artista metal in Italia. Se Pino Scotto fosse stato americano, inglese o tedesco, secondo me sarebbe decollato molto di più di quanto non abbia potuto fare qui”.
E’ difficile essere italiani per una metal band, lo è ancor di più essere valdostani…
“(Riccardo) La Valle d’Aosta come scena metal è un problema in più! È un’Italia al cubo. Va bene che qui ci considerano una specie di monumento nazionale. Quelle cose di cui non frega niente a nessuno, però ti vogliono bene. Come l’Arco d’Augusto: è lì, i valdostani sono contenti di averlo, ma nessuno va a visitarlo. Come i Crohm e forse è perché siamo la prima band metal valdostana e continuiamo a esistere, a esserci. Allora uno guarda all’esterno dei confini regionali, però poi quando dobbiamo andare a suonare, è lunga tornare a casa… perché alla fine smonti tutto e torni dopo 2/3 ore di strada e arrivi a casa alle 4 del mattino. Ci hanno invitati a suonare a Bologna, nelle Marche… però non abbiamo più vent’anni e abbiamo dovuto declinare”.
Però nonostante tutto avete comunque una discreta attività live…
“(Riccardo) Sì, ma rispetto al passato cerchiamo di muoversi solamente quando ne vale la pena. Il 5 maggio presenteremo il nuovo disco nella Sala Polivalente della Biblioteca di Viale Europa a Aosta insieme ai Black Phantom, poi suoneremo solamente nelle situazioni dove riusciamo investire tempo e fatica in modo equilibrato. Ci è capitato in passato di andare a suonare davanti a 15 persone in locali che non avevano neppure pubblicizzato la data, quindi abbiamo deciso di tirare i remi in barca e valutare di più costi e i benefici. Ci piace suonare, ma a volte ci conviene di più farlo in garage… “