Myrath – Different Worlds
Il 11/04/2024, di Dario Cattaneo.
Un intervista con i Myrath è sempre interessante… sicuramente per la provenienza della band, la Tunisia, cosa che fa di loro forse l’unico gruppo nord africano ad essere così noto fuori dai loro confini nazionali. Ma a scriverlo solo così, sarebbe riduttivo. Il punto è che la loro storia, per motivi collegati alla loro provenienza, è diversa da quelle di altre band, ed è costellata di eventi, difficoltà e impedimenti anche burocratici che fa si che una chiacchierata con loro sia sempre foriera di risposte e aneddoti interessanti. A pochi giorni dalla pubblicazione dell’interessante ‘Karma’, siamo riusciti a parlare con il tastierista, produttore, compositore e… ‘membro da sempre’ della band tunisina Kevin Codfert, scoprendo anche questa volta molte cose interessanti. Dario Cattaneo le racconta per noi…
Bene, quattro anni sono passati dalla pubblicazione di ‘Shehili’, e sicuramente molte cose sono cambiate. Il mondo stesso è cambiato a ben pensarci, ma vorrei cominciare dalla band e della tua posizione… ora sei un membro fisso dei Myrath, corretto? Su ‘Shehili’ figuravi come produttore, invece… Ci spieghi la situazione attuale?
“In realtà, a ben vedere, sono con i Myrath praticamente dall’inizio, sono quindici anni che orbito intorno a questa band. Li ho conosciuti a un concerto a Cartagine a supporto di Robert Plant, io ero li con la mia band Adagio. Mi ricordo di loro come di una band di ‘bambini’ chiamata X-Tazy… davvero, ‘bambini’! Credo che Malek (Ben Arbia, chitarrista) ai tempi avesse sedici anni. Niente, ci trovammo bene e decidemmo di lavorare assieme. Si cambiò il nome alla band e poi cominciammo a cercare un nuovo cantante, che quello dei tempi non andava bene. A quel punto si lavorò al secondo album, dove già diedi loro consigli su come migliorare la musica e renderla quella che sentite ora nei Myrath attuali. Si può ben sostenere che è dal secondo album che faccio parte della band! Voglio dire, suono il piano, mi occupo di tutti gli arrangiamenti e le orchestrazioni… la cosa che diciamo era diversa fino ad adesso era che non suonavo dal vivo con loro. Questa scelta è venuta naturale adesso con ‘Karma’ perché loro stessi mi hanno detto: “hey Kev, ma perché non suoni tu la tastiera sul palco? Dopotutto chi può suonare meglio di te le parti che tu stesso hai curato?” Gli ho risposto “ok” ed ecco che ora ‘faccio parte della band’. Ma in realtà sono sempre stato con i Myrath”.
Capisco. Riguardo la pandemia invece… come avete vissuto quel periodo a cavallo tra 2020 e 2021; prima che le cose si stabilizzassero almeno un po’?
“La pandemia e il periodo subito dopo hanno sicuramente impattato sulla band e sul modo di lavorare. Quando il periodo di chiusura iniziò, noi stavamo girando l’Europa in tour. Mi ricordo che avevamo appena terminato un concerto a Lipsia, in Germania, e di colpo i confini hanno chiuso. 24 ore dopo io ero in Francia, ma i tre ragazzi tunisini hanno detto che il governo tunisino non gli avrebbe trovato alcun volo per tornare indietro. Erano bloccati e ho detto loro di venire a casa mia, poi avremmo trovato una soluzione. Però, come si sa, per sei mesi, niente voli. Cioè, sono stati a casa mia, una casa piccola, per sei mesi. Alla fine abbiamo preso questa opportunità per comporre. Di solito le band si trovano tutte insieme per comporre… ma con i Myrath non è mai stato cosi, abbiamo sempre lavorato in remoto. Io mandavo le idee a loro via mail, e lavoravamo sulle tracce digitali avanti e indietro, in questa maniera. La pandemia ci ha dato il modo di comporre faccia a faccia per la prima volta. Ero seduto al piano e davanti avevo delle facce… potevo chiedere ‘Riesci a cantare questo’? E magari loro mi dicevano ‘La potresti fare così?’. Beh, è stato tutto più rapido e devo dire anche più facile”.
Quindi vi siete trovati con qualcosa di differente tra le mani, come risultato di un diverso modo di lavorare?
“Quando componi da solo è difficile ottenere qualcosa di ‘grande’. Per farlo, metti dentro tante tracce, tante orchestrazioni, tante sovraincisioni… lavorando in questa maniera le canzoni avevano un po’ di ciascuno ed erano più piene senza bisogno di cosi tanti elementi. E’ qui che direi che il sound generale è cambiato un po’. Più organico ma con meno elementi”.
L’artwork in generale e il titolo ci hanno colpito. Puoi parlarcene?
“Si lega alla situazione in generale nel mondo. Per 20 anni come band abbiamo sofferto talvolta di discriminazione e razzismo, insieme a tutti i ‘normali’ problemi che abbiamo affrontato nel nostro cammino. Quindi avevamo un’idea precisa, che era di parlare di tutti questi argomenti reali, importanti, per tutti ma soprattutto per noi. E cosi abbiamo scritto prima tutti i testi e le canzoni, senza pensare a copertina e titolo… solo alla fine abbiamo cercato qualcosa che rappresentasse tutto ciò in un’unica parola, o immagine. Abbiamo scelto ‘Karma’ per rappresentare i contenuti perché è una parola molto spirituale, che in fondo rappresenta quello che pensiamo. La copertina è molto bella, ma ti prego di notare come il punto più importante non sia la bellissima ragazza berbera al centro dell’immagine, ma piuttosto la mela che tiene in mano. Bellissima, succosa, ma completamente marcia dentro. E’ qui che volevamo puntare, ad andare oltre alle apparenze che ci vengono messe davanti ogni giorno”.
Ritornando alle composizioni, hai già cominciato a dire che la ricetta è un po’ cambiata… quindi consideri queste composizioni come un’evoluzione rispetto a ‘Shehili’? Quali differenze evidenzieresti tu che sei il compositore principale?
“Non c’è nessuna ricetta, per nulla. Sono un musicista, non un cuoco. Se un giorno cominciassi a usare una ricetta ripetibile per comporre musica dovrei smetterla con questo lavoro, perché non è così che si deve fare. Noi notiamo solo che abbiamo cominciato ad avere un po’ di successo grazie alla musica che componiamo e che abbiamo composto, e quindi per cercare di migliorare ancora di più questo risultato dobbiamo cambiare qualcosa e variare qualche equilibrio. E questo ovviamente cambia anche la musica che esce e viene registrata. Però facciamo tutto lavorando sul feedback del momento. Posso già dirti che anche il prossimo album sarà un po’ diverso da questo… come? Forse avrà più parti arabe, forse sarà più melodico… non lo so. Però lo faremo con il cuore e la testa sul momento attuale, e spereremo come sempre che la gente ci segua”.
Un punto interessante… quindi voi non sentite mai il bisogno di bilanciare la vostra musica in maniera precalcolata, ad esempio dicendo: ‘questo brano deve essere più prog’ o ‘questo ritornello deve essere più catchy’…
“Esatto. Niente del genere. Non precalcoliamo niente. L’unica cosa su cui facciamo sempre una sorta di pensiero iniziale è sulla durata dei singoli brani. Non vogliamo canzoni lunghe, non siamo progressive in quel senso. Per la musica come la nostra è impossibile costruire con gli elementi attuali una suite di otto minuti che funzioni, soprattutto se proposta ai festival o ai club. Funziona se sei i Dream Theater, o gli Haken. Hanno la loro musica, la loro formula che ha consolidato dei fan, ma non c’è un vero business in divenire dietro quello che propongono. Non voglio parlare male degli Haken, sia chiaro, ma non è la direzione che vogliamo per i Myrath. Ad essere completamente onesti, comunque, sono convinto che sia più difficile fare un brano che funzioni e attragga pubblico sui tre minuti e con meno elementi rispetto a fare una buona suite progressive. In un brano lungo puoi metterci dentro un sacco di assoli, puoi metterci il cambio di tempo e appiccicare più idee insieme dandogli un unico titolo… con un brano dalla struttura classica non puoi, e tutto deve essere funzionale al risultato”.
Un’altra risposta interessante, grazie! Visto il tuo attuale ‘distacco’ dalla musica progressive di Adagio e dei primi Myrath, mi viene da chiederti tu, nel tuo personale, cosa ascolti..,
“Non ascolto metal. Sarebbe distruttivo… voglio dire, comporrei quello che ascolto, e questo non lo trovo interessante. Non è sfidate. Quando sento musica a scopo ricreativo ascolto molta musica classica, ho cominciato con il pianoforte quando avevo quattro anni e questa musica mi appartiene. Ascolto roba orchestrale e molta musica francese degli Anni ’80. Non la merda di adesso, quella non la sopporto, proprio la musica francese degli Anni ’80, che trovo interessante. Anche gli altri membri della band non ascoltano troppo metal a quanto ho visto… spesso ascoltano musica folkloristica delle loro parti, o musica tunisina. Ma il motivo è lo stesso mio, non vogliono ascoltare il tipo di musica che poi suonano”.
Visto che non proviene dai gusti personali, il continuo spunto per scrivere nuova musica (nel campo del metal) da dove ti nasce?
“E’ difficile rispondere. Nasce e basta. L’ispirazione non è qualcosa che mi alzo la mattina e la cerco da qualche parte. Ci sono mattine che mi metto al piano, improvviso qualcosa e tutto quello che viene fuori mi fa schifo e devo buttare tutto. Poi ci sono volte che sono in doccia o al cesso e mi viene l’intuizione buona in testa che poi fa nascere una canzone da album. Diciamo che è comodo se ho il piano vicino quando arrivano queste ispirazioni. Mi metto alla tastiera, ci lavoro un po’, lo provo tante volte per miglioralo e mi si fissa in testa. Comunque l’importante è essere propositivi: se un passaggio, un riff o addirittura un pezzo di canzone mi sembra buono non esito mai a parlarne agli altri della band, anche se non mi convince al 100%. Per ‘Karma’ pensa che avevamo materiale per una cinquantina di brani… trenta di questi abbozzi di canzone sono stati accantonati senza nemmeno pensarci troppo. Delle venti rimaste, ne abbiamo fatte fuori cinque dopo averci almeno lavorato un po’. Poi qualcosa di buono è rimasto fuori, e infatti abbiamo già un tre o quattro canzoni pronte per il prossimo lavoro. ”
Ah ok. Passiamo ora a discorsi meno legati alla composizione e alla scrittura… i Myrath sono la prima band tunisina a firmare per una grossa label internazionale. Pensate – come band – di essere dei pionieri? Di fungere da faro e da ispirazione per giovani band tunisine che cercano un successo come il vostro?
“I Myrath non sono una band tunisina. Sono una band francese e tunisina. Fosse stata solo una band nordafricana, non avrebbe mai sfondato. E’ troppo difficile se non hai un piede fuori dai confini nazionali, non c’è mercato lì in Tunisia, e nessuno ti conoscerebbe. La situazione sociopolitica non aiuta: per i ragazzi tunisini andare in Germania o in Francia con i loro documenti è impossibile senza incartamenti infiniti e un sacco di carte da compilare. Non sai come funziona il music business all’estero, e il governo certo non ti aiuta a capirlo o ti passa informazioni. Io combatto molto per fare si che altre band tunisine vengano in contatto con il music business e la scena europea, in modo da ampliare i loro orizzonti e capire come muoversi, ma per le band tunisine come ti dicevo la cosa è quasi impossibile. Quindi non siamo pionieri di quella scena, non possiamo definirci così”.
Visto che hai parlato di uscire dai confini nazionali; i vostri tour che vi portano così lontano dalle vostre case si scontrano con le necessità di una vita più tranquilla in famiglia o con altre attività lavorative?
“Beh, sì, è difficile conciliare la vita da tour con quella extra musicale. Anche perché – seppure i Myrath stanno diventando un po’ famosi – ancora non ci permettono di vivere di quello. Noi abbiamo bisogno di un’altra attività, di un’altra fonte di guadagno. Io personalmente sono informatico e scrivo codici. Il mio lavoro quando non sono in tour è 9-18 come quello di tanti altri, e quando stacco dalla tastiera del PC posso mettermi alla tastiera del piano e comporre o registrare per i Myrath. E’ così anche per gli altri, e ce lo dobbiamo far piacere. E con le ferie e i permessi, andiamo in tour. Io poi ho una moglie e una figlia, e in un anno cerco di avere almeno tre o quattro mesi dopo un tour per stare con loro. Ovviamente quando sono via in tour ci si sente su Skype, o WhatsApp, ma è difficile, appunto”.
Girando il mondo, hai notato differenze nel modo di comportarsi e di essere dei fan nelle varie nazioni? Questa cosa ti ha mai colpito?
“Sì, certo. L’ho notata eccome. Quando suoni in Svizzera, per dire, il pubblico è totalmente differente da quello italiano, o spagnolo. Ma pure dalle folle del Brasile, o dal pubblico africano. L’ultima esperienza che abbiamo avuto, ed è stata incredibile, è stata quella in America. Suonavamo un’ora e venti di show, qualcosa del genere, e per tutta l’ora e venti, il pubblico cantava ‘nonstop’. Davvero! Cantavano le canzoni, e cantavano TRA le canzoni, il che vuol dire veramente ‘nonstop!’ Era la prima volta nella mia vita che assistevo a una cosa simile, non la credevo sinceramente possibile. E quindi sì, ogni paese è diverso, perché questo sarebbe comunque impensabile per un posto come il Giappone, dove la folla è davvero molto seria e attenta. Forse da quel punto di vista alcune cose adesso stanno cambiando, ma penso che per molti paesi il fatto di scatenarsi o meno ai concerti rimanga una questione proprio di mentalità. E con questo non voglio dire che il fan di lì non apprezzi quello che stiamo suonando, è che lo fanno senza muoversi, tutto qui. E comprano tantissimo merchandise! In Africa invece si muovono tutti come dei tarantolati, ma alla fine non vendi una maglietta. Ecco, come dici tu nella domanda, ogni paese ha il suo modo di essere, e noi dal palco assistiamo a tutti questi modi. E’ bello così”.