Unwelcome – Sarà quel che sarà
Il 20/03/2024, di Fabio Magliano.
Sino a qualche anno fa, parevano essersi perse le tracce degli Unwelcome. Rimaneva il ricordo di una band che, a cavallo dei ’90 e il 2000, pareva poter competere con le realtà di Oltre Oceano grazie ad un sound decisamente avanti per l’epoca ed un approccio altamente professionale alla musica, rimanevano echi affidati ad alcuni side project, però della band che fu non rimaneva più nulla. Poi, qualche anno fa, la sorpresa. Come la neve che si scioglie svela a poco a poco la natura che rifiorisce sotto di essa, gli Unwelcome hanno in sordina ricominciato a dare segni di vita, prima ripubblicando il disco di debutto ‘Independent Worm Songs’, quindi un primo disco di inediti, ‘Rifles’ e, due anni or sono, l’eccellente ‘BeUnwelcomeOrDie’. A quanto pare i “nostri” ci hanno preso gusto, ed ecco uscire oggi ‘What Might Have Been’, primo capitolo come vedremo di un progetto ben più ampio ma, soprattutto, album spiazzante, incredibilmente moderno e, nonostante una maggiore accessibilità rispetto al passato, dannatamente coraggioso. Con ancora le note del disco a rimbalzarci nelle orecchie, abbiamo deciso di approfondirne il discorso con il cantante Andrea e il batterista Maxim in coda ad una chiacchierata radiofonica carica di attitudine e di ricordi.
Come descrivereste il vostro percorso artistico fino a questo punto e in che modo ‘What Might Have Been’ si inserisce in questo viaggio?
“(Andrea) Innanzitutto voglio ringraziare con tutto il cuore sia te che Metal Hammer per la disponibilità e l’attenzione che ci avete dedicato ancora una volta, è sempre un piacere parlare ed avere a che fare con voi. ‘What Might Have Been’ è il proseguimento di un viaggio iniziato la bellezza di 30 anni fa, e penso sia l’unica evoluzione possibile per quello che eravamo, ed è esattamente il tipo di disco che volevo arrivare a fare oggi, nel 2024. Non ci sono nostalgie o ammiccamenti al passato, gli Unwelcome oggi sono questi e sono assolutamente con i piedi piantati nel presente. Ripetersi è noioso, e la noia è la cosa che detesto di più al mondo. Inoltre abbiamo avuto la fortuna di incontrare Max Martulli, boss di Accannone Records, che non solo ci ha lasciato la più totale autonomia e libertà ma che si è dimostrato un alleato prezioso ed un lavoratore instancabile”.
“(Maxim) Mi associo ai ringraziamenti innanzitutto. Il nostro percorso artistico è nato appunto 30 anni fa con un’idea ed un inquadramento ben preciso dettato dal periodo, ma che ha preso via via una direzione personale quella che noi abbiamo definito SpaceCore e che ha dato molto al Core. Ora forse sta prevalendo un po’ di più lo “space” ma il giusto equilibrio credo sarà sempre la nostra arma vincente”.
Avete menzionato una sperimentazione con suoni ed arrangiamenti inusuali in questo album. Quali sono state alcune delle influenze o delle ispirazioni che vi hanno guidato in questa direzione?
“(Andrea) Non è stata una scelta fatta a tavolino, semplicemente l’anno scorso, a causa di un incidente stradale occorso ad Ago (bassista), siamo stati costretti ad annullare tutti gli impegni live che avevamo organizzato e ci siamo ritrovati senza nulla altro da fare se non “cazzeggiare” in sala prove. Abbiamo iniziato a sperimentare cose nuove: synth, batterie elettroniche, accordature differenti, rumori, percussioni. Come ha detto prima Maxim, abbiamo esplorato maggiormente la parte più “space” del nostro suono ed abbiamo incorporato nuove sfumature quali la new-wave e l’elettronica…Ed alla fine, poco per volta, ci siamo accorti di avere tra le mani un sacco di materiale, così è nato ‘What Might Have Been’ . Anche questo disco, così come il precedente, è stato registrato e mixato dal sottoscritto nel nostro studio, ed è stato automatico cercare un suono più “moderno” e strutturato. Suoniamo insieme dal 1994, e dopo tutto questo tempo continuiamo ad imparare ed a cercare di progredire come musicisti e come band, ed inserire nuove sonorità è semplicemente parte dell’evoluzione che, per noi, è alla base della longevità di un progetto musicale”.
“(Maxim) Si, abbiamo sperimentato un po’ ed approcciato alcune cose nuove proprio perché non vogliamo mai essere ripetitivi e se ci piace una cosa la proviamo e se ci sta bene la teniamo. Non abbiamo preconcetti o limiti di sorta. Come influenze, a parte il disagio di aver dovuto annullare le date, nulla di particolare… Diciamo che quando siamo in sala prove siamo sempre parecchio ispirati”.
Potreste condividere qualche dettaglio sul processo creativo dietro la realizzazione di “What Might Have Been”?
“(Andrea) Come dicevo, abbiamo iniziato sperimentando cose nuove in sala prove senza alcun fine, tantomeno quello di fare un disco nuovo. Semplicemente, poco per volta, ci siamo accorti di avere in mano un sacco di canzoni che ci piacevano, ed è a quel punto che abbiamo deciso di registrarli. Ma non è tutto: abbiamo intenzione di pubblicare un disco “gemello” entro la fine dell’anno il cui titolo sarà ‘And What Has Been’. Purtroppo – oggigiorno – non c’è più la volontà né l’abitudine ad ascoltare un disco nella sua interezza. La soglia di attenzione si è abbassata drasticamente e nessuno ascolterebbe 15 o più canzoni. Così abbiamo scelto di realizzare due album-gemelli con una durata inferiore, perché vogliamo che tutte le canzoni siano ascoltate”.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la creazione dell’immagine di copertina e dell’artwork è una scelta molto interessante. Come avete integrato questo elemento nel vostro processo creativo e qual è stata la vostra esperienza con esso?
“(Andrea) Ti ringrazio, anche questa è stata una cosa successa quasi per caso. Ho iniziato ad interessarmi alla AI applicata all’arte grafica per curiosità, volevo vedere cosa sarebbe venuto fuori. Ho iniziato quasi per gioco, e poco per volta mi sono accorto che le immagini che stavo creando si sposavano incredibilmente bene con le atmosfere che mi suggeriva la nostra musica. A quel punto ho deciso di spingermi oltre e di creare un universo visuale che si accompagnasse e completasse quelle che erano le suggestioni suggerite dalle canzoni che stavamo registrando. Ho creato davvero tantissime immagini, alcune le abbiamo utilizzate per l’artwork del disco, altre le ho iniziate a pubblicare sui nostri social…e devo dire che la risposta è stata sorprendente. Il passo successivo è stato quello di creare delle animazioni, dei veri e propri video che si fondessero a livello visuale con le canzoni dell’album…il primo esempio è stato quello del singolo ‘Hey You’, ma ne ho realizzati altri e poco per volta li pubblicheremo tutti”.
Come vi siete sentiti nel lavorare con Giovanni Versari per il mastering dell’album, considerando il suo prestigioso background lavorativo con artisti come Muse e Verdena?
“(Andrea) Ho registrato e mixato il disco cercando di realizzare qualcosa che fosse “grandioso”. Mai come questa volta abbiamo curato i dettagli, dalla scelta e posizionamento dei microfoni all’utilizzo di attrezzature analogiche quali pre-amplificatori e compressori, e la scelta di affidare il mastering a Giovanni Versari è stata dettata dalla volontà di portare il suono dell’album ad un livello superiore. Lui è un vero “top-player”, conosciuto e stimato a livello internazionale ed è stata la nostra prima ed unica scelta: sapevamo che avrebbe aggiunto la sua “magia” e – lasciamelo dire – penso che il nostro disco suoni da paura! Tra l’altro, ça va sans dire, è una persona gentile e disponibilissima”.
“(Maxim) Nonostante il già super lavoro fatto in fase registrazione e di mixaggio, volevamo che suonasse super e quindi abbiamo scelto appunto un super player”.
C’è un brano in particolare su ‘What Might Have Been’ che sentite rappresenti al meglio l’evoluzione sonora degli Unwelcome? Se sì, quale e perché?
“(Andrea) Uhm…in realtà io penso che ogni singolo brano rappresenti una parte della nostra evoluzione sonora, un punto di vista differente, e che soltanto il disco nella sua interezza sia la fotografia del “suono” degli Unwelcome. A volte mi chiedo “quale genere suoniamo”, e sinceramente non riesco a darmi una risposta…ed è esattamente quello che voglio! Personalmente trovo incredibilmente noiosi i dischi e le band “di genere”, quelli facilmente etichettabili, quelli che mi basta leggere il nome e vedere un’immagine per sapere esattamente cosa aspettarmi. Ecco…io voglio che nessuno sappia come etichettarci”.
“(Maxim) Potrei dirti i brani che preferisco, ma se devo sceglierne uno che “ci rappresenti” è difficile. Oggi come oggi siamo proprio questo un meltin’pot sonoro difficilmente inquadrabile”.
Avete menzionato una serie di filmati e videoclip che accompagnano l’aspetto visuale dell’album. Potreste condividere qualche dettaglio su come avete sviluppato questa componente multimediale e come si integra con la vostra musica?
“(Andrea) Come dicevo prima, tutto è nato dalla mia curiosità a riguardo della AI applicata alla grafica. Ho iniziato a sperimentare con le immagini e le fotografie, per poi passare alla creazione di filmati (realizzati montando singoli frame). Il risultato è stato sorprendente, così ho pensato di sviluppare dei videoclip – uno per ogni brano – che unissero la parte visuale e quella musicale, al fine di creare una vera e propria esperienza multimediale”.
“(Maxim) Io ho partecipato attivamente dicendo “figata” quando Andre ce li ha fatti vedere per la prima volta! Battute a parte, è tutto molto space e con la musica si integra perfettamente”.
Siete stati 19 anni senza pubblicare nulla come Unwelcome, sino a ‘Rifles’. Da quel momento tra ristampe e album inediti sono usciti 5 lavori con la vostra firma. Come mai tanto fermento? Cosa è scattato in voi al punto da riaccendere la fiamma in modo così importante?
“(Andrea) Dopo l’uscita di ‘Independent Worm Songs’, ad inizio anni 2000, ci sentivamo svuotati. La disavventura con Attack Records ci aveva delusi profondamente, nonostante gli ottimi risultati e l’accoglienza riservata a quel disco non avevamo più voglia di tornare alla ricerca di un’etichetta discografica. Loudblast/Freak Out aveva fatto un lavoro encomiabile, e poi Lorenzo Merloni è molto più di un amico. Le canzoni di ‘Rifles’ erano state registrate nel periodo passato in attesa che Attack Rec. pubblicasse il nostro disco in Usa (cosa mai avvenuta) ed erano già un deciso passo in avanti, o di lato, rispetto alle sonorità precedenti. Ma qualcosa si era perso, non avevamo più voglia di altre delusioni, e così abbiamo messo gli Unwelcome in stand-by. Alcuni di noi hanno continuato a suonare insieme nel progetto Kessler, poi io ho pubblicato un paio di dischi a nome Gr3ta (dove ho esplorato la mia fascinazione per la musica elettronica) ed infine io e Maxim abbiamo pubblicato due dischi a nome TheBuckle (un power duo decisamente rock’n’roll). Quindi in realtà non ci siamo mai allontanati, finchè non è arrivata la Ammonia Rec. che ci ha chiesto di ri-pubblicare ‘I.W.S.’ ed eventuali inediti. Eravamo in pieno lock-down e tutto si è rimesso in moto, senza forzature…tutto è ripartito esattamente dove lo avevamo lasciato. Tra di noi c’era ancora quella alchimia, e ci siamo detti “Perché no?”. Dopotutto gli Unwelcome per ognuno di noi rappresentano qualcosa che và decisamente oltre all’aspetto musicale. Così è nato ‘Be Unwelcome or die’, uscito nel 2022 ed ora questo nuovo album che come dicevo esce per Accannone Records in tutti gli store digitali e servizi di stream online”.
Da un punto sonoro l’impressione è che i vostri brani oggi suonino più accessibili rispetto al passato. Naturale evoluzione stilistica o è una forma di adeguamento ad una scena poco pronta a sonorità complesse come potevano essere quelle dei primi Unwelcome?
“(Andrea) Come ti dicevo prima, già i brani di ‘Rifles’ erano decisamente differenti da quelli precedenti, la melodia è sempre stata una componente importante per noi, ma forse non eravamo ancora pronti o abbastanza sicuri per proporre un certo tipo di sonorità. Abbiamo smesso quasi subito di preoccuparci di quello che succedeva nella cosiddetta “scena”, dove tutti correvano dietro alle mode del momento. E poi noi eravamo troppo lontani anche geograficamente, siamo pur sempre in provincia di Cuneo! Ma la cosa che amo ripetere è che gli Unwelcome non vogliono e non possono essere etichettati: possiamo suonare pesanti e cattivi, fare pezzi hardcore, oppure fare pezzi dove la melodia è in primo piano e non ci sono quasi chitarre. Adoro la possibilità di fare tutto quello che ci pare e credo che in futuro ci spingeremo ancora oltre”.
“(Maxim) Tutto corretto quello che dice Andre, poi c’è anche da dire che sono passati 30 anni e l’evoluzione, per come intendiamo noi gli Unwelcome, era ovvia. Stilisticamente è venuta così, ci piace e amen andiamo avanti e chissà cosa verrà ancora fuori”.
Quanto ragionamento e quanto istinto c’è dietro ad un brano degli Unwelcome?
“(Andrea) Ci sono entrambe le componenti. In prima battuta c’è l’istinto, l’ispirazione, la scintilla che ad un certo punto scatta tra di noi e si crea quell’alchimia che ti fa dire “Wow, questo pezzo è una bomba”. Poi però inizia la parte ragionata, quando si tratta di sviluppare un’idea e quindi strutturare, arrangiare e definire il brano. In definitiva penso che ci sia più ragionamento che istinto, soprattutto quando si decide di registrare e poi mixare quel brano…deve essere coerente a livello sonoro con gli altri brani di un disco ma allo stesso tempo brillare di luce propria. Fare musica è magia, non saprei come descriverlo altrimenti”.
“(Maxim) Agli inizi probabilmente era 80 istinto e 20 ragionato, ora direi 50 e 50”.
Come avete affrontato la sfida di reinterpretare un brano di Tom Waits come ‘Clap Hands’? Lo avete totalmente stravolto e avete ricavato un pezzo nuovo, quasi voleste appropriarvi del messaggio del testo ma cucirlo su un suono totalmente personale…
“(Andrea) Ci è sempre piaciuto proporre qualche cover. Già agli inizi avevamo fatto una nostra versione di ‘La isla bonita’ di Madonna! Durante le registrazioni di ‘Independent Worm Songs’ avevamo registrato una cover di ‘Close to me’ dei Cure, salvo poi decidere di non inserirla nella tracklist definitiva del disco (perché ci sembrava in quel momento una cosa troppo “commerciale”…però è presente nella versione ri-pubblicata da Ammonia nel 2020). Su ‘Be Unwelcome or die’ abbiamo invece fatto una cover di ‘Drive’ dei R.E.M., ovviamente si tratta di versioni completamente differenti dall’originale, questo perché secondo noi altrimenti non avrebbe alcun senso farle uguali all’originale, in primis perché non siamo né una cover-band né tantomeno una tribute-band, e poi perché secondo noi la sfida insita nel proporre una cover è quella di portare una canzone scritta da qualcun altro all’interno del nostro universo musicale. La stessa cosa è successa per ‘Clap Hands’…per poter funzionare abbiamo dovuto farla diventare nostra. Personalmente adoro Tom Waits, così come adoro i Cure ed i R.E.M., ma anche i Duran Duran o la new-wave anni 80. La musica degli Unwelcome non ha mai avuto un’ ispirazione comune, ognuno di noi ascolta cose differenti e quello che facciamo è portare il gusto personale di ognuno di noi all’interno del suono della band”.
“(Maxim) Personalmente conoscevo poco Tom Waits, il pezzo però mi è piaciuto subito per l’atmosfera che crea. Avevamo iniziato con una versione più slow, più verosimile al ritmo originale poi però dovevamo personalizzarla alla nostra maniera e una sera l’ho iniziata con quel tempo… ed è partita la versione Unwelcome”.
Mi parlate di ‘Mr. White’ e soprattutto del suo sound spiazzante, per alcuni versi inaspettato da una band come voi…
“(Andrea) ‘Mr White’ è uno dei pezzi più particolari del disco…ma in origine era molto diverso. Addirittura ne avevamo suonata una versione primitiva più di dieci anni fa, rimasta in un cassetto e mai considerata “pronta”. Finchè, mettendo ordine ad alcuni hard-disk,mi è capitata tra le mani ed ho pensato che poteva essere il momento giusto. Ne ho registrato una versione demo, suonando tutto da solo ed utilizzando un synth-bass al posto del basso e l’ho proposta agli altri. Dopo un po’ Livio l’ha rivoluzionata suonando delle parti di chitarra molto “spaziali”, psichedeliche, e questo ha cambiato la prospettiva del pezzo. Non era più una canzone “rock”, era diventata qualcosa di diverso, ibrido, interessante. Quando è stato il momento di registrarla ci è piaciuta l’idea di tenere il synth-bass, e ha suonato questi pattern di batteria quasi funky…così nella mia testa è scattata l’idea di farla diventare un pezzo che suonasse come gli Unwelcome che giocano a fare i Daft Punk. Per le parti vocali Livio mi ha detto soltanto “tira fuori il Simon Le Bon che è in te”, ed io ci ho provato. Infine abbiamo aggiunto rumori ed effetti creati da Ago usando una catena di pedali e di effetti analogici per aggiungere una ulteriore dimensione rumoristica. E’ stata una bella sfida a livello di mixaggio riuscire a bilanciare le tante componenti, ma penso che il risultato sia decisamente interessante. Credo che sia una canzone spiazzante, ok, ma il sound non è inaspettato, o meglio, non deve esserlo perché nessuno si deve aspettare nulla da noi. Non siamo e non vogliamo essere catalogabili. Nessuno deve poter pensare che una band come noi non possa fare certe cose”.
‘Hey You’ è il primo singolo. Ne parliamo?
“(Andrea) E’ un pezzo – credo – molto “new-wave anni ’80”, o almeno lo è nelle nostre intenzioni. Volevamo fare qualcosa che suonasse un po’ come se i Joy Division si trovassero catapultati nel 2024. Però volevamo anche che fosse “ballabile”, passami il termine. Uno di quei pezzi che si possono (o meglio si potevano) ascoltare in certe discoteche, tipo quando eravamo giovani ed andavamo al Le Macabre e sentivamo questi brani fighissimi, e la gente ballava e si divertiva con queste sonorità. Riuscire a far ballare la gente è difficilissimo, speriamo di esserci riusciti.
“(Maxim) Non si esce vivi dagli anni ’80… ma neanche dai ’90 per quanto mi riguarda. Si, poter far ballare la gente al Macabre, al Capolinea, al Faster sarebbe stato fighissimo. Ci proviamo ora”.
Per concludere. A tempo del vostro primo demo avevate affidato a un estratto di ‘American Psycho’ il compito di presentare quel che di malsano che si celava dietro al concept degli Unwelcome. Oggi da che libro attingereste per inquadrare gli Unwelcome attuali?
“(Andrea) Domanda interessante…forse oggi sceglierei ‘Infinite Jest’ di David Foster Wallace, oppure ‘Soffocare’ di Chuck Palaniuk, o ancora ‘Meno di Zero’ o ‘Acqua dal sole’ dello stesso Bret Easton Ellis. Gli Unwelcome di oggi sono difficilmente inquadrabili, non vogliamo essere etichettabili, ci sono tante sfaccettature e la componente malsana non è sparita, semplicemente non è più la caratteristica in primo piano”.
“(Maxim) Io non sono un gran lettore di svago, nel senso che leggo spesso libri inerenti la vendita e il marketing per il mio lavoro, però potrei citarti dei film dal quale si potrebbe attingere per inquadrare gli Unwelcome e ti direi ‘Il Grande Lebowsky’ per l’attitudine a fregarsene delle opinioni altrui facendo sempre quello che ci pare e piace. Poi ti direi ‘Matrix’ perché stiamo ancora cercando di capire quanto è profonda la tana del Bianconiglio, noi che per caratteristiche anagrafiche siamo migranti digitali ovvero nati analogici e poi passati al digitale e quindi siamo alle prese con questo mondo parallelo che forse non capiamo fino in fondo e un po’ ci spaventa”.