No Man Eyes – Thowards the Sun
Il 24/01/2024, di Fabio Magliano.
I liguri No Man Eyes tagliano il traguardo del terzo lavoro in studio e lo fanno con l’ambizioso ‘Harness the Sun’, un concept album fantascientifico costruito attorno ad una storia sicuramente affascinante ma, soprattutto, su un coinvolgente mix sonoro che arriva a fare convivere con maestria thrash, progressive metal e modern metal (chi ha detto Nevermore?). Un disco ambizioso, che vede la luce a ben sette anni di distanza dal precedente ‘Cosmogony’ ma, dopo ripetuti ascolti, verrebbe da dire che l’attesa è stata ampiamente ripagata. Per saperne di più siamo andati a scomodare il chitarrista Andrew Spane che con grande disponibilità ha chiarito ogni nostra curiosità.
Con ‘Harness the Sun’ tagliate il traguardo dei tre album in studio, e per molti gruppi il terzo disco è quello della verità. E’ stato lo stesso per voi e, in qualche modo, avete sentito una sorta di pressione al momento di lavorarci?
“(Andrew Spane) Ciao a tutti! Concordo assolutamente, anche per me il terzo disco dovrebbe essere il disco della maturità, costruito sui pregi e difetti dei precedenti… ritengo che per sviluppare un lavoro valido si debba avere intanto la giusta dose di umiltà: è fondamentale fare tesoro delle critiche ricevute e degli eventuali aspetti non convincenti dei lavori passati… riascoltarsi in maniera critica è un passo obbligato. Inoltre, ci vuole una buona dose di coraggio, perché al terzo disco sei anche più consapevole dei tuoi punti di forza e di quali aspetti funzionino nelle tue composizioni, e puoi puntare a enfatizzarli, a renderli il tratto distintivo della tua musica. Ad ogni modo, nessuna pressione: componiamo brani per il puro gusto di produrre un’opera, sull’onda di una spinta creativa che è sempre dentro di noi. Pertanto siamo noi stessi i nostri giudici più severi e l’unica pressione è quella autoimposta per lavorare bene, ma la vedo più come la conseguenza di una passione estrema, dalle connotazioni totalmente positive”.
‘Harness the Sun’ è un disco sicuramente ambizioso. Come mai la decisione di affidarvi ad un concept album come questo, scelta sicuramente non semplice e abbastanza rischiosa?
“Ci sono tante motivazioni. Già in ‘Cosmogony’ avevamo sperimentato cosa significasse raccontare storie attraverso la musica, c’erano infatti tre brani che erano delle mini-storie di fantascienza. Ovviamente però dover sviluppare una storia e chiuderla in un solo brano è molto limitativo e non ti consente di analizzare in profondità uno o più dei temi trattati; grazie al concept questi limiti non ci sono più e puoi approfondire, a patto però che tu abbia qualcosa da dire e che tu non abbia problemi a esporre i tuoi pensieri più profondi. A mio parere solo in questi casi il concept assume un valore superiore al disco convenzionale, e se da un lato è vero che è ben più difficile arrivare in fondo, dall’altro il livello di sfida è talmente alto da obbligarti a dare il massimo”.
Personalmente ho apprezzato molto questo disco, vedendoci dentro una volontà da parte vostra di non fossilizzarvi su quanto fatto in passato ma cercare di evolvere il vostro sound in un modo netto. Come vedete voi questo lavoro “dal di dentro”?
“Personalmente ero molto soddisfatto del sound di ‘Cosmogony’, ma non era possibile raccontare una storia come quella narrata in ‘Harness the Sun’ con un’impostazione simile. C’era meno atmosfera e i brani erano più nervosi e veloci, per cui pur mantenendo uno stile assolutamente simile per melodie e riff abbiamo optato per rallentare un minimo i BPM in modo da avere aperture melodiche più efficaci, inoltre in ‘Harness the Sun’ abbiamo inserito più tastiere, fondamentali per intessere atmosfere e strumentali per raccontare una storia di stampo fantascientifico. In tutto questo si è rivelato particolarmente azzeccato l’inserimento di Tony Anzaldi dietro alle pelli (con noi dal 2019), un batterista fusion appassionato di progressive metal che ha dato un’impronta diversa rispetto al precedente lavoro”.
Quali pensate siano le principali differenze tra questo disco e i due lavori che lo hanno preceduto?
“A mio avviso le differenze sono diretta conseguenza della nostra maturazione e dell’esperienza che inevitabilmente metti da parte lavoro dopo lavoro. Anche la voglia di fare un disco più riflessivo e meno violento la considero una conseguenza del nostro percorso. Ai tempi di ‘Cosmogony’ (2016) l’idea era di estremizzare determinati aspetti della musica e quella di dare un messaggio era un obiettivo secondario, mentre mi sono reso conto che ciò che ci contraddistingue maggiormente sono sempre stati proprio i testi e i temi trattati (in primis dualismo spiritualità/materialismo, senso dell’esistenza, rapporto tra essere umano e tecnologia), per cui il cambio di prospettiva è la conseguenza di una maturazione personale e di una presa di coscienza che richiede abbastanza coraggio in quanto continuare su questa strada significa ‘mettersi a nudo’”.
Come detto, ‘Harness the Sun’ è un ambizioso concept album. Volete presentarci la storia che è alla base?
“La storia è ambientata in un futuro non vicinissimo, con l’umanità prossima al collasso per scarsità di risorse naturali e inquinamento del pianeta. Viene deciso di imbrigliare la potenza del Sole mediante una struttura in orbita permanente attorno alla stella (una cosiddetta proto-sfera di Dyson), ma il sistema non ne vuole sapere di funzionare e gli androidi inviati a gestire l’attivazione vengono misteriosamente disattivati e distrutti. Viene inviato William Cooper, scienziato e astronauta che con il suo androide ISAAC ha il difficile compito di risolvere la situazione. Un incidente proietta William nello spazio dove disperato aspetta di morire… ma inaspettatamente viene trascinato dentro al sole da un’entità cosmica (Viracocha) che risiede nella stella, a tutti gli effetti una super intelligenza aliena, praticamente onniscente ma non onnipotente né immortale. Viracocha gli rivela infatti che ben prima del tempo la stella morirà trasformandosi in una gigante rossa e inghiottendo la Terra all’improvviso, e lo ha attirato fino a lì per dargli un messaggio di amore e speranza, chiedendogli di farsi suo portavoce verso gli umani che dovranno organizzare la fuga dal pianeta in meno di mille anni. Nessun umano ha ancora ascoltato questo messaggio tranne ISAAC, che spera di sfruttare l’informazione a suo vantaggio avendo sviluppato una coscienza di sé e volendosi affrancare dagli uomini. La conclusione porterà in qualche modo i tre personaggi a ottenere i loro scopi e William tornerà a casa consapevole di aver imbrigliato il Sole, e di aver fatto molto di più come finalmente conoscere quello che a tutti gli effetti è un dio comprensibile e aver dato la sua benedizione a ISAAC, che è a sua volta creazione dell’uomo.
Per “portare in scena” questa storia vi siete avvalsi della collaborazione di diversi ospiti. C’è un musicista che vi sarebbe piaciuto coinvolgere senza però riuscirci?
“Non ho mai idolatrato particolarmente altri musicisti a parte tre personaggi che considero fondamentali in assoluto (Malmsteen, Kai Hansen e Brian May), sebbene ovviamente irraggiungibili per quanto riguarda una collaborazione con i No Man Eyes. Per cui ti direi che gli ospiti su Harness the Sun sono il meglio che potessimo avere, in quanto eravamo già legati come amicizia e abbiamo avuto modo di interagire senza filtri, dedicando anche più tempo a determinate questioni di quanto un professionista navigato ci avrebbe concesso”.
Come avete scelto i musicisti con i quali avete collaborato?
“Conosciamo Claudio Canovi da molti anni per la sua militanza negli Aurea, prog metal band genovese, inoltre io, Silvia Criscenzo (Guzuta) e Dave Garbarino (Mindlight) suoniamo già insieme nelle Marmotte d’Acciaio (cartoon cover band) e sono dei cari amici; infine Gabriels è un altro ‘amico di musica’ che mi ha presentato Wild Steel e a cui ho prestato le mie chitarre per vari brani dei suoi dischi degli ultimi anni. Una squadra di persone intelligenti, volenterose e capaci che ha dato un reale valore aggiunto al nostro terzo lavoro! Claudio in particolare nel periodo delle registrazioni ha anche scritto delle parti che poi sono confluite in un paio di brani arricchendoli ulteriormente”.
Ascoltando questo disco la mente è corsa a alcuni elementi tipici di una band che adoro follemente come i Nevermore. Pensate che questo gruppo vi abbia in qualche modo influenzati al momento di iniziare a lavorare a questo disco?
“Totalmente, le atmosfere dei Nevermore e in particolare le parti di chitarra mi hanno sempre affascinato molto ed è naturale incamerare determinate scelte stilistiche, penso specialmente alle scale diminuite e agli accostamenti tra le tonalità – tra l’altro leggo tante recensioni che ci accostano al power metal ma per me ne siamo ben distanti, avendo preso come riferimenti musicali sia i già citati Nevermore che band come Soilwork e The Agonist ai quali ci siamo un po’ ispirati per sound e strutture. Ad ogni modo, restando sul mio strumento quando penso a delle belle chitarre continuo a oscillare tra Loomis e Yngwie e penso che (con le dovute proporzioni) queste due coordinate si sentano tutte in tutti i lavori targati No Man Eyes”.
‘Harness the Sun’ è un lavoro sicuramente ambizioso. Come è stata la sua gestazione? Quando avete iniziato a lavorarci? Siete partiti dal concept o questo è venuto dopo, in conseguenza alla musica?
“Tra songwriting, registrazioni e mix/master ci abbiamo lavorato dal 2016 al 2022, sei lunghi anni in cui siamo andati avanti abbastanza lentamente a causa di tanti problemi (in primis l’assenza di un batterista stabile e coinvolto e il periodo del COVID); ad ogni modo forse è anche grazie alla lentezza che siamo arrivati in fondo senza affrettare alcun passo. Il concept e la musica sono venuti su abbastanza in parallelo, cosa un po’ pericolosa in quanto sarebbe stato più semplice completare prima la storia e solo dopo metterla in musica”.
Siete in circolazione dal 2011 come No Man Eyes ma calcate la scena musicale da molti anni prima. Come l’avete vista mutare in tutto questo tempo?
“La scena è in continua evoluzione, e purtroppo l’interesse verso la musica live è sempre minore anche perché non c’è un sufficiente ricambio generazionale. L’età media del pubblico che segue i live tende ad aumentare sempre più e a parte l’affluenza (che è relativa – se proponi qualcosa di valido la gente in un modo o nell’altro la smuovi dal divano) ciò che mi preoccupa maggiormente è che ci sono pochissime band giovani… prima o poi saliremo tutti sul palco col deambulatore! Ritengo si debba investire di più nella preparazione musicale e nella mentalità artistica dei giovani se vogliamo ripartire con la musica dal vivo a livello underground. Se avete figli, educateli all’ascolto di generi meno immediati e avviateli allo studio di uno strumento, se siete anche musicisti portateveli sempre dietro ai vostri concerti e fategli vedere cosa vuol dire salire sul palco e dare il massimo. Sarà un’importante lezione di vita e da grandi se lo ricorderanno”.
Pensate che internet e le varie piattaforme musicali per gruppi come il vostro siano stati di aiuto o abbiano contribuito ad affossare una scena già di per sè in difficoltà?
“Ritengo che le piattaforme abbiano aiutato tantissimo le band underground per la diffusione della musica, e vorrei essere capace di sfruttarne tutte le potenzialità. Nel 2007 (anno in cui è uscito il mio primo full length ossia ‘Omega’ dei Graveyard Ghost) non c’era niente di tutto questo e si andava avanti per passaparola, finendo per essere praticamente invisibili; ora per ascoltare un disco basta un click, anche se c’è il rischio di perdersi nel mare infinito delle proposte musicali, per cui bisogna essere sempre attenti a individuare strade nuove per distinguersi. Questo comporta diventare esperti in questioni a metà strada fra l’artistico e il tecnico come saper usare una DAW e conoscere i principi del videomaking. Sono tempi più complessi ma proprio per questo estremamente stimolanti”.
Pensate sia possibile portare dal vivo questo lavoro? Ci state lavorando?
“In realtà suonavamo tutto il disco già un paio di anni fa avvalendoci di sequenze in sede live. Qualche esperienza non particolarmente positiva dal punto di vista tecnico ci ha fatto però prendere una decisione importante ossia introdurre un tastierista in pianta stabile in modo da non dover dipendere da un computer per le esibizioni. I risultati sono molto promettenti in quanto le tastiere aggiungono una nuova dimensione a tutti i brani. Annunceremo il nostro nuovo elemento a brevissimo! Inoltre vorremmo avere sul palco le tre voci che hanno registrato ‘Harness the Sun’, vedremo poi se solo per qualche data di presentazione o se attrezzarci in qualche modo più stabile. Ad ogni modo il disco sarà assolutamente suonato nella sua interezza.
A voi la conclusione… intanto grazie per l’intervista e in bocca al lupo per tutto!
“Ringraziamo tutto lo staff di Metal Hammer, la nostra etichetta Buil2Kill Records, Trevor, Federico e Nadir Promotion, la squadra degli ospiti che hanno impreziosito ‘Harness the Sun’, tutti coloro che hanno ascoltato i nostri lavori! Ne approfitto per ricordare a tutti che se volete una copia fisica di ‘Harness the Sun’ non dovete far altro che scriverci all’indirizzo nomaneyes@gmail.com. Enjoy!”
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