Bad Bones – Sangre Y Libertad
Il 22/06/2023, di Fabio Magliano.
“E quando penso che sia finita. È proprio allora che comincia la salita. Che fantastica storia è la vita”. Ok, potevo iniziare meglio un’intervista ai Bad Bones… cioè, tra Motorhead, ZZ Top, Ac/Dc e Jack Kerouac potevo trovare un incipit migliore di…Antonello Venditti, ma alla fine chi se ne frega. Ci stava bene, perchè il concetto di fondo è proprio questo: proprio quando tutto sembra finito ecco il colpo di coda che non ti aspetti, quello che stravolge tutto e ribalta il banco. La storia dei Bones pareva arrivata ai titoli di coda, e ci poteva stare dopo anni di concerti in giro per il mondo, dischi davvero validi e una vita on the road dalla quale si potrebbe trarre tranquillamente un film, il commiato era ormai apparecchiato con una sorta di “farewell tour” rigorosamente in trio, come agli esordi, e poi ecco quella scintilla che non ti aspetti, quella che ti porta a prolungare il tempo in sala prove, dove per caso salta fuori in riff, poi un altro, e un altro…e alla fine ti trovi per le mani un album intero. Che, manco a dirlo, è un signor Album come ‘Hasta El Final’, un disco nel quale i Bones giocano in totale libertà, si divertono come non mai, azzardano, scommettono forte, e alla fine fanno saltare il banco. Con Steve Balocco abbiamo ripercorso questa rinascita, in un continuo oscillare tra ciò che è stato, ciò che è e, c’è da scommetterci, ciò che sarà…
‘Hasta El Final’ è un album dai mille significati. Al suo interno troviamo soluzioni stilistiche che denotano la vostra volontà di andare senza barriere e senza limiti, adottando elementi anche distanti dal tipico universo BB, in completa libertà. Mi viene da pensare al primo singolo estratto, davvero inusuale per voi. A cosa dobbiamo attribuire questa “svolta”?
“(Steve Bone) L’ultima volta che siamo stati in studio in trio era il 2010, per le registrazioni di ‘A Family Affair’, il nostro secondo album. Sono passati tanti anni e chiaramente anche noi tre siamo cambiati. In quel periodo ricordo che ci limitammo a registrare quelle canzoni che non erano state inserite nel nostro primo full length ma che già suonavamo live da tempo. Ritrovarsi in studio dopo quasi 13 anni è stato come ricominciare da zero, non abbiamo pensato ai nostri album precedenti, ci siamo detti: “Ok! Pensiamo a divertirci” e così è stato. Abbiamo scelto di lavorare con Riccardo Parravicini che era stato dietro al mixer per il nostro terzo album ‘Snakes & Bones’. Questa scelta ci dava la possibilità di registrare un disco praticamente live, utilizzando la magnifica sala di ripresa del Rima Maja studio. Riccardo è un produttore davvero super ed è riuscito a cogliere le vibrazioni di quei giorni. Volevamo un album che suonasse diverso da quelli che escono adesso con quei suoni un po’ finti, lo volevamo crudo e senza trigger o campioni sulla batteria, limitando le sovraincisioni al minimo. Abbiamo cercato di dargli un respiro diverso, lavorando sul sound della band in sala. ‘Hasta El Final’ è un disco compatto, nato dalla voglia di suonare, senza fare calcoli. E’ un album onesto, scritto senza la pressione di dover accontentare una label piuttosto che un manager. Se c’è stata una svolta nel nostro sound è legata al modo in cui ci siamo posti rispetto a questo lavoro, anche se nel complesso ritengo che siamo stati piuttosto fedeli alle nostre coordinate artistiche. Certo, ‘Bandits’ è molto tirato per i nostri standard e ci sono dei brani più complessi rispetto al passato come ‘Wanderers & Saints’ o ‘To Kill Somebody’, ma direi che siamo rimasti fedeli a noi stessi”.
‘Hasta El Final’, ovvero “Fino alla fine”. Fino alla fine di che cosa? Non è meglio citare Terzani che scriveva “La fine è il mio inizio”? Dopo tutto mi pare che i BB di cose da dire ne abbiano ancora parecchie…
“Il titolo dell’album è legato a un ragionamento spontaneo che è venuto mentre scrivevamo le canzoni rispetto al concetto di morte. Nell’estate del 2019 avevamo sciolto la band, eravamo “quasi”morti, nel senso che la notizia non era ancora stata divulgata ufficialmente, poi come sapete è venuta fuori l’idea della “reunion” in trio per il decimo anniversario del nostro primo album e dopo il successo inaspettato di quei concerti, ci siamo proposti di registrare ancora un album, per questo pensavamo di usare la parola “fine” nel titolo. Ma tornando al concetto di morte la nostra mente si è spostata immediatamente a Wilmington, il quartiere messicano dietro al porto di Los Angeles in cui abbiamo vissuto nell’estate del 2008 e in cui abbiamo veramente rischiato grosso. Era una zona di guerra con un tasso di criminalità esagerato e sparatorie quasi quotidiane tra gangs di messicani e neri. Da qui l’idea di utilizzare lo spagnolo, che era la lingua che ci circondava in quei giorni, di qui ‘Hasta El Final!’ Che per noi vuol dire, non molliamo, siamo ancora vivi!”
Paradossalmente ‘Hasta El Final’ è nato quando tutto pareva essere finito, con un tour d’addio nel momento in cui avevi pensato che i Bad Bones fossero arrivati al capolinea, e invece?
“Quando io e Lele abbiamo deciso di sciogliere la band avevamo ancora due date da fare e ci è venuto spontaneo invitare Mekk a suonare con noi, alla fine la band l’avevamo fondata noi tre. Abbiamo “imposto” la cosa a Sergio e Max, che non l’hanno presa benissimo, ma ci sembrava giusto finire così. Con Mekk erano sei anni che non ci sentivamo. Quando ha lasciato il gruppo i rapporti erano abbastanza tesi e ci siamo visti solo nel 2017 in occasione della festa per i 10 anni della band, in quel periodo ognuno ha fatto la sua vita. Quando l’ho chiamato e gli ho chiesto di fare le ultime date della band, ha dato subito disponibilità, e non era così scontato. Si è preparato i pezzi degli ultimi dischi che erano in scaletta e ha dimostrato una grande voglia di esserci. Amava i Bad Bones e si sentiva ancora parte di questa cosa, era umile e desideroso di fare bene.
In quelle ultime date, purtroppo ha funzionato ben poco. Sergio e Mekk proprio non andavano sul piano umano, alla prima data a momenti son venuti alle mani, del resto Sergio si viveva la presenza di Mekk come un’imposizione mia e di Lele, e noi vivevamo il suo atteggiamento come una mancanza di rispetto per la storia della band. Max ormai aveva un piede fuori e sembrava quasi sollevato dalla nostra fine, da un certo punto di vista lo capivo pienamente. Eravamo un treno che era sul punto di deragliare ed era evidente che la scelta di richiamare Mekk anche solo per le ultime date aveva scavato un solco ormai incolmabile tra noi. Questa situazione ci ha fatto implodere definitivamente. La band era spaccata in due: da un lato Sergio e Max, dall’altro noi tre. L’ultima data è stata molto triste, alla fine del concerto a malapena ci siamo salutati con Max e Sergio e questo mi spiace tantissimo. Loro sono due bravissimi ragazzi, hanno dato tanto alla band e meritavano di più.
Mi ci sono voluti un paio di mesi per elaborare il tutto e quando ero pronto a fare l’annuncio ufficiale, mi chiamano Lele e Mekk per propormi un ultimo tour in trio, per il decimo anniversario di ‘Smalltown Brawlers’, “due, tre date al massimo e poi chiudiamo” ci eravamo detti.
A quel punto io e Lele ci vedemmo con Sergio e Max per informarli della cosa e in quel momento ebbi la sensazione che Sergio fosse molto amareggiato, probabilmente si sentiva scaricato, vista l’incompatibilità con Mekk, e invece Max dava l’impressione di essere felice del fatto che comunque non avremmo continuato con lui, si sentiva liberato, in cuore suo aveva già deciso di mollare mesi prima. La settimana successiva io Mekk e Lele facemmo una prova a Savona e la sensazione fu incredibile. Nonostante gli anni che abbiamo passato divisi il repertorio girava alla grande e Mekk cantava e suonava meravigliosamente, c’era sintonia e l’intesa tra di noi era spettacolare.
Finite le prove, postai una foto che ci riprendeva fuori dalla saletta e la postai sulla nostra pagina Facebook: da quel momento la mia mail fu invasa di richieste di date, erano tutti impazienti di rivedere il trio dopo tanti anni. Facemmo la prima alla HT Factory di Seregno e fu davvero emozionante, la gente ballava e saltava e le vibrazioni erano stupende, eravamo potenti e compatti, cosi andammo avanti per tutto l’autunno e avremmo dovuto proseguire dritti fino all’estate del 2020 con più di venti date chiuse. Quel tour è stato un successo inaspettato e bellissimo; ricordo ancora la data all’Alchemica di Bologna, con tutto quel pubblico entusiasta. Purtroppo la pandemia ci ha fermato e abbiamo dovuto cancellare altre 12/13 date, ma a quel punto ci siamo detti: “quando sarà il momento torneremo in studio e faremo ancora un album”, eravamo carichi, avevamo voglia di metterci in gioco, ma soprattutto, avevamo ritrovato un fratello che ormai pensavamo di avere perduto, e questa è la cosa più bella e importante”.
Perchè ti chiedo, a questo punto, pensavi che non ci potesse essere un futuro per i Bad Bones?
“Nel 2016, il nostro quarto album, ‘Demolition Derby’ ci ha dato tantissime soddisfazioni e siamo stati in tour praticamente fino al 2018, suonando in America, Russia ed in giro per l’Europa. In quel periodo io e Lele siamo diventati papà ed è stato un periodo davvero bello, suonavamo alla grande e c’era un’intesa fantastica, ma più passava il tempo e più andare in tour diventava faticoso e quando nel novembre del 2018 è uscito ‘High Rollers’ eravamo esauriti. La disponibilità di Max era ai minimi termini e io e Lele intuivamo che probabilmente avrebbe mollato la band presto. Anche Sergio soffriva questa situazione ed il tour di ‘High Rollers’ fu molto breve, qualche data in Italia e un pugno di shows tra Germania e Nord Europa. Un album, secondo me fighissimo, gettato praticamente al vento. In qualche modo la sensazione generale era quella che il gioco non valesse più la candela. Per me e Lele questa situazione era molto difficile ed eravamo abbastanza incazzati, facevo fatica a chiudere date, facevamo fatica a vederci per provare, tutto era diventato complicato. Andammo a suonare al Metalitalia Festival senza neanche fare una prova e a quel punto era evidente che non ci fosse più la volontà di andare avanti e io e Lele dovevamo prenderci la responsabilità di chiudere la questione. Quindi alla fine del nostro set comunicammo a Sergio e Max che avremmo sciolto la band dopo le ultime due date programmate in estate e che avremmo chiesto a Mekk di suonare con noi perché avevamo fondato la band con lui ed era giusto finire tutti assieme. La band era finita e devo dire che per quanto dispiaciuto mi rendevo conto che non potevamo fare diversamente. Ero stanco e frustrato ma allo stesso tempo orgoglioso di quello che avevamo fatto negli anni, sicuramente non avevamo chiuso nel migliore dei modi ma guardavo il bicchiere mezzo pieno: avrei avuto modo di dedicarmi ad altri progetti musicali che sognavo di fare da anni”.
Che cosa ti ha fatto capire che invece ci poteva essere ancora della strada davanti a voi?
“Quando ho chiamato Mekk per quelle ultime date, non ero sicuro che avrebbe accettato, alla fine ci eravamo lasciati male ed erano anni che non ci parlavamo, invece ha dato una disponibilità incredibile, in un momento in cui non riuscivamo a provare con Sergio e Max, Mekk avrebbe voluto provare 7 giorni a settimana e soprattutto, era sempre sorridente, aveva messo da parte le vecchie beghe, alla fine ci eravamo già perdonati da tempo e continuava a dirmi ridendo “ti ho lasciato in mano la band sei anni e guarda come l’hai ridotta testa di cazzo! Non era così che doveva finire!”. In quei giorni si stava ricreando un rapporto meraviglioso, ci trovavamo con le nostre famiglie, i nostri bambini giocavano assieme e ricordavamo i bei tempi. L’ idea di Mekk e Lele di fare ancora un paio di date in trio è venuta fuori per il piacere di suonare e stare assieme, di condividere ancora una volta un’avventura. Ci eravamo detti, due o tre date per divertirci, ma più il tour cresceva e più gente ci chiedeva di andare avanti e noi ci divertivamo davvero tanto a stare assieme e a fare quello che sapevamo fare ovvero i Bad Bones. Quando è scoppiata la pandemia non ci siamo persi d’animo, abbiamo ristampato il nostro primo album in vinile e ci siamo promessi che al momento giusto saremmo entrati in studio l’idea di sciogliere la band era ormai tramontata definitivamente, lasciando il posto a un “vediamo come va a finire””.
Nel corso del vostro percorso avete toccato momenti davvero alti, penso al Whisky A Go Go, l’Italian GoM, i tour in America e in Russia… non ti è mai capitato di sentirti appagato e di pensare che ormai cosa dovevi fare lo avevi fatto? Dove hai trovato le motivazioni per andare ancora avanti?
“Ho iniziato a suonare che avevo 15 anni, imparando da autodidatta, non esisteva internet, né scuole di musica vicine, cercavo di tirare giù le canzoni ad orecchio dalle cassette che ascoltavo nella radio-sveglia dei miei perché non avevamo neanche uno stereo in casa. Se nasci e cresci in un piccolo paesino della provincia di Cuneo, non ti passa neanche per la testa di diventare famoso, anche solo Torino sembrava lontanissima, quindi già allora le mie fantasie erano molto limitate, speravo di avere la possibilità di fare almeno un disco nella mia vita e un tour in nord Italia, quello sarebbe stato il massimo per me. Amavo Iron Maiden, Motorhead e Guns ‘n Roses, ma erano troppo distanti da me, inarrivabili, e quindi guardavo alla scena italiana, amavo i Negazione, gli Extrema, i Vanadium, i Sadist, la Strana Officina, i nascenti Marlene Kuntz e da quelle band ho imparato che l’underground ha grande dignità, che non c’era bisogno di “vendersi” ma dovevi essere te stesso, che la vera musica non andava in classifica (poi i Nirvana mi hanno smentito) ma si poteva essere apprezzati anche rimanendo una band di “culto”. Ho fatto tutto in quest’ottica, e continuo a farlo per il semplice amore della musica, perché adoro scrivere canzoni e suonarle dal vivo. Ho avuto la fortuna di far parte di band di grande livello, come gli Anthenora e i White Skull, di condividere il palco con Nicko McBrain e fondare i Bad Bones, suonare in America e in tante nazioni che mai mi sarei immaginato neanche di visitare e onestamente non mi sono mai sentito “appagato”, perché per me suonare è come respirare e uno non può sentirsi appagato di respirare. Son rimasto quel ragazzino che sognava di suonare a Torino o Milano e mi meraviglio ancora quando in sala prove esce qualcosa di figo e sento la giusta vibe oppure andando a suonare in una città in cui non siamo mai stati trovo tanti ragazzi che si divertono ad ascoltarmi e conoscono le nostre canzoni. Non importa il palco su cui suoni, né quanta gente ti ascolta, quanti likes hai o quanti streaming fai (dire dischi venduti ormai non si usa più), sei solo tu con il tuo amore per quello che fai, perché quella musica ti rappresenta e non penseresti mai di smettere di farlo, perché è vitale, è parte di te”.
Dal tempo dell’intervista al BrancaMenta di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, ora siete tutti padri di famiglia, e questo cozza un po’ con l’immagine del rocker marcio e selvaggio (Lemmy non me lo vedo a dare il biberon al figlio…). Come vi ha cambiato la paternità e come ha cambiato la vostra musica (se l’ha cambiata) …
“Quella prima intervista è stata davvero forte, e mi viene da ridere ancora adesso se ci penso, in quel momento della nostra vita girava in quel modo, eravamo veramente fuori di testa ed andava bene così, poi si cresce, si trovano nuovi equilibri e si scopre la bellezza di uscire da certi stereotipi, si può essere veri rockers e tirare su famiglia, anzi, al giorno d’oggi fare un figlio è una scelta molto coraggiosa, una scelta rock, che, come la nostra musica, comporta tanti sacrifici ma allo stesso tempo riempie il cuore. Siamo diventati genitori più o meno tutti e tre assieme, un figlio l’anno, precisi precisi prima Mekk poi Lele e alla fine io !
I nostri piccoli stanno crescendo veloci ed è fantastico vederli giocare assieme e godersi le nostre famiglie mentre si allargano. Alla fine ci siamo dati una regolata, per certi versi, ma credimi che sul palco siamo sempre i soliti bastardi incazzati col mondo, perché quella rabbia li non te la toglie nessuno ed è il modo più sano che abbiamo per esprimerla”.
Nei Bad Bones “pre-reunion” i dischi (fantastici) ci riportavano ad un’America festaiola, alle luci di L.A e alla voglia di fare casino sia come atmosfere che come sonorità. Con ‘Hasta El Final’ torna la prima America, quella polverosa, quella selvaggia, quella fame e sudore. È un caso o….
“Volente o nolente lo sfondo in cui ci muoviamo è sempre quello dal punto di vista delle sonorità, ma in realtà a parte “Sand on my Teeth” che riprende le tematiche di Bad Bone Boogie, questo disco per noi ha dentro tutti i “criste e i diufaus” della provincia di Cuneo, è un ritorno alle origini, a quella purezza concettuale fatta di brani più scarni e riff taglienti, ha mantenuto quella spigolosità dei primi due album ma con qualche malizia in più, se penso a pezzi come “Wanderers & Saints” o “Libertad”, di fame e sudore ne abbiamo a tonnellate e siamo felici che questo venga fuori, ma questa volta per trovarle non abbiamo dovuto andare in America, ci è bastato guardarci dentro, con tutti i nostri difetti e i nostri sbagli, ormai abbiamo capito che i posti più pericolosi non si trovano nei quartieri malfamati americani o nelle periferie delle città russe ma son dentro di noi”.
‘Bandits’ è un palese tributo ai Motorhead, sembra quasi che con questa canzone raccontiate la storia dei Bad Bones con la colonna sonora di Lemmy & C….
“‘Bandits’ è venuta fuori irruente e aggressiva, riflette in pieno la nostra voglia di spaccare, la abbiamo scritta d’istinto, senza pensarci molto, i Motorhead sono sempre stati un nostro punto di riferimento e quindi è venuta fuori così in maniera naturale e direi “fisica”, ma dentro ci senti anche i primi Maiden e persino gli Helloween soprattutto negli assoli. Diciamo che è un concentrato di roba che piace a noi sparata a tutto volume!”
‘Libertad’ rimanda a quel concetto di libertà spiegato in precedenza, che ritorna anche nel video di ‘Wonderers…’. Ma che cos’è per voi la libertà?
“Questa è una domanda bellissima e molto difficile, per noi la libertà è essere sé stessi in un mondo che schiaccia le persone e le vuole tutte uguali, è accettarsi per quello che si è, con i propri difetti, i propri limiti. Libertà è fare, anche artisticamente, quello che ci sentiamo di fare senza dover per forza essere come gli altri, amiamo la nostra inadeguatezza rispetto ai giorni in cui viviamo, non la sentiamo più come un peso, ma piuttosto come un motore che ci spinge ad andare avanti, sappiamo che per molti “addetti ai lavori” quello che facciamo non è trendy o innovativo, che la nostra è una musica ancorata a un periodo storico lontano, ma è il nostro linguaggio, il nostro modo di essere, lo abbiamo tatuato in faccia, siamo quello che siamo e va bene così, non ci importa se abbiamo più o meno streaming, più o meno visualizzazioni, se ci chiamano nei grandi festival o no, noi facciamo il nostro e non dobbiamo niente a nessuno, questa è la libertà per noi”.
‘Home’… che cos’è la ‘Casa’ per voi che avete da sempre quell’immagine dei vagabondi senza una base fissa? Negli anni la casa è stata quella macchina dalla quale tutto è partito anni fa, è stata la sala prove di LA, è stata la strada, è stata la casa di Roy che vi ha dato speranza… avete sempre espresso chiaramente il concetto di famiglia, ma casa mai…
“È una bella domanda, diciamo che quando scrivo un testo sono sempre molto concreto, nel senso che esprimo quello che c’è e quindi e arrivato anche il momento di Home.
Ero tornato a casa dopo una giornata di lavoro, mi son buttato sul letto con il basso acustico e ho iniziato a suonare robe a caso, mentre mia figlia di sette anni cantava e ballava guardandosi allo specchio e mia moglie era di là che preparava il caffè, a un certo punto ho messo due accordi che mi son piaciuti e ho scritto la melodia di getto, ho dovuto farmi riprendere col telefonino perché avevo paura di dimenticarla tanto era sbocciata velocemente, figlia di quell’atmosfera rilassata e morbida che sentivo attorno a me. Quando poi ho tirato giù il testo ho pensato che alla fine, dopo tanto girovagare avevamo trovato una casa tutti e tre, non eravamo più stranieri in qualche città sperduta ma eravamo a casa nostra e questo si rifletteva anche nella band, Mekk era tornato con noi, era tornato a casa.
Istintivamente avevo pensato di farne la ballad dell’album, proprio per il modo in cui l’avevo scritta, ma quando l’ho portata in saletta Mekk ha iniziato a cantarla come fosse Johnny Rotten e Lele incalzava con una batteria dritta e spietata trasformandola in un pezzo punk, un arrangiamento assolutamente geniale. Il modo in cui Mekk l’ha registrata in studio mi ha commosso, perché rappresenta perfettamente il senso del pezzo, non era una ballad, era qualcosa di più, era un pezzo quasi epico per certi versi. Home è casa nostra, un posto in cui si può essere amati per quello che siamo, con la nostra ruvidezza, i nostri caratteracci e la nostra musica sparata a tutto volume, un posto dove alla fine torniamo sempre e ci torniamo per restarci”.
In questo disco c’è molta NWOBHM, c’è una ragione particolare?
“È verissimo, da sempre amiamo band come Saxon, Maiden, Def Leppard ma anche Raven, Diamond Head e Angelwitch. In fase compositiva questo sound è venuto fuori in maniera assolutamente spontanea e forse è legato anche al modo in cui abbiamo lavorato al disco. Con Mekk siamo tornati a passare tantissimo tempo in sala prove e gran parte della pre-produzione dell’album è nata così, un approccio più diretto e selvaggio nella fase di songwriting ci ha permesso di andare a pescare quelle influenze che sono alla base del nostro sound. Lavorare in una sala prove con volumi molto sostenuti e con un continuo scambio di idee è infinitamente più divertente che farlo in solitaria davanti a un computer, come accadeva nel periodo di ‘Demolition Derby’ e ‘High Rollers’ e ti dà la possibilità di arrangiare i brani partendo da diverse prospettive.
Steve, negli anni vi ho visti suonare in un Alcatraz pieno come un uovo e in locali con 20 persone eppure per te era sempre ‘Figata fratello, un concerto stupendo, tutti presi bene’… pensi che questo incrollabile ottimismo, questa capacità di vedere sempre e solo il bello delle situazioni sia uno dei segreti della longevità dei BB?
“Assolutamente sì, del resto sono cresciuto alla fine degli anni ’80 se avessi voluto inseguire il successo mi sarei comprato una bella lacca per capelli mi sarei messo una giacca con le spalline e avrei cercato di imitare gli Spandau Ballet, invece son andato in ferramenta a comprare un po’ di catene e con la bomboletta di vernice ho fatto una grande A di anarchia su una t-shirt bianca a cui avevo tagliato le maniche, ero questo e rimango questo. Non ho mai sgomitato per raggiungere la fama, ho solo e sempre cercato quel rispetto che deriva dalla coerenza delle scelte artistiche e dei contenuti. Abbiamo avuto degli alti e dei bassi come tutte le band, ma non era questo il problema, sono sempre stato a mio agio a suonare nei posti piccoli davanti a un pugno di ragazzi, così come ovviamente ero felice di suonare all’Alcatraz, al Gods of Metal o all’Hollywood Rock Convention. Mi riconosco in pieno nell’underground, concetto che sicuramente non va più di moda e anzi, diventa quasi offensivo per certe realtà, ma per come sono cresciuto io è un complimento! Siamo una band underground, non rientriamo nelle logiche di mercato, facciamo quello che vogliamo, con i tempi che vogliamo e il prezzo della nostra musica lo decidiamo noi , questa si chiama libertà artistica, zero stress, zero menate, solo divertimento e fidatevi questa è la vera ricchezza. Tutti noi abbiamo un lavoro che ci fa arrivare a fine mese e non siamo schiavi di manager o etichette che ci impongono cose, per questo ogni volta che salgo sul palco sono felice, perché quello che vedono i ragazzi sono io, siamo noi, non dei pupazzi creati ad arte per raggiungere un obiettivo commerciale. Non ho lo stress di dover suonare a tutti i costi per pagarmi il mutuo o dover fare la spesa, suono con il cuore leggero per la gioia di farlo, per chi mi vuole ascoltare. Questa è la nostra dimensione e siamo davvero felici di averla raggiunta, tutto il resto non conta”.
Chiudi come credi, per rimanere a tema…in libertà!
“Intanto volevo ringraziarti Fabio, ci hai seguito da quando eravamo agli inizi e sei stato testimone di tutte le peripezie di questa band, hai sempre creduto in noi e davvero potresti scriverci un libro su quello che hai visto. Colgo anche l’occasione per dire che ‘Hasta El Final!’ è dedicato alla memoria di Andrea ” Benny” Bernini, un pilastro della scena rock metal italiana, un ragazzo che stando dietro le quinte riusciva a creare situazioni e spazi che hanno fatto crescere tantissimo la scena italiana. Purtroppo ci ha lasciato troppo presto creando un grande vuoto, per noi era come un fratello, potrei raccontarti mille aneddoti su di lui ma ci vorrebbero almeno altre due pagine di intervista, so che sarebbe stato fiero di quest’album e sono sicuro che da qualche parte se lo sta ascoltando bevendosi una bella birra.
La vita va avanti con le sue perdite e le sue gioie, i suoi alti e bassi, ho imparato che il successo è effimero, ma le avventure che abbiamo vissuto, i ricordi e le emozioni legate ad essi, durano per sempre. La nostra storia è una bella storia da raccontare, ma non è ancora finita: Hasta El Final!”