The 69 Eyes – Gotico finlandese
Il 18/04/2023, di Alessandro Fabro.
I The 69 Eyes sono una storica band finlandese della scena gothic rock. Attivi da oltre trent’anni hanno pubblicato dodici dischi e continuano a girare il mondo guidati dall’affascinante e oscuro cantante Jyrki Linnankivi, vocalmente e concettualmente figlio di Jim Morrison e di Andrew Eldritch. In occasione dell’imminente uscita del loro nuovo disco ‘Death of Darkness’ lo abbiamo intervistato e ci siamo fatti raccontare come è stato lavorare a questa nuova fatica.
Ciao Jyrki, come stai?
“Sto molto bene. Sto rilasciando interviste per l’uscita del disco dopo trent’anni di attività ed è una figata. Faccio musica per il piacere di creare qualcosa di nuovo ma, una volta che hai fatto una scelta del genere, ti metti nella posizione che la tua nuova creazione venga recensita. È molto facile che questo accada o che, almeno, qualcuno ne parlerà sui social, soprattutto se il disco non gli è piaciuto. Al giorno d’oggi si ricevono opinioni contrastanti in tempo reale, si viene anche accusati di un sacco di cose ma si ricevono anche molti feedback positivi. Ogni volta mi dimentico come ci si sente, ma è sempre un’emozione, a prescindere che il responso sia positivo o negativo. Mi dimentico sempre come ci si sente, fino a quel momento. E poi ricomincia (Ride, Nda).”
Le recensioni sono importanti per te?
“Non così tanto, in realtà, me ne dimentico finché non cominciano a essere rilasciate. E poi sono tanti anni che ho imparato a farci i conti e, letteralmente, non cambiano molto il mio approccio alla musica. Ovviamente sono contento se sono positive, perchè significa che qualcuno ha capito qualcosa di ciò che volevo comunicare. Ma anche in caso di responso negativo non è la fine del mondo. Non significa niente, alla fine.”
Certo. Ma, in qualche modo, credo che i social abbiano dato modo a chiunque di parlare e se tutti parlano insieme è come se non parlasse nessuno. Come se non ci fosse più una distinzione tra un parere più o meno autorevole.
“Beh, certamente è una cosa…sorprendente, diciamolo così (Ride, Nda). Il mondo di oggi parla attraverso i numeri e i numeri non mentono. Ormai le statistiche e gli algoritmi sono parte della vita di un musicista. Con i The 69 Eyes abbiamo toccato il mezzo milione di ascoltatori su Spotify e questo ci rende più importanti di molte band del nostro genere, specie nei Paesi nordici. Abbiamo avuto una crescita del 200% negli ultimi mesi. E chi sono i nostri nuovi ascoltatori? Persone con meno di venticinque anni! Ed è una figata, cazzo! Sono persone reali!”
Lo sono! E sono certo che aumenteranno una volta rilasciato il vostro nuovo disco, ‘Death of Darkness’. L’ho ascoltato e l’ho trovato interessante. Le canzoni mi sono piaciute e ho particolarmente apprezzato la cura del suono. È come se fosse composto da molti livelli uno sopra l’altro: la base restano gli anni ’80 e la New Wave (Joy Division, Sister of Mercy, Bauhaus…), quella c’è sempre, ma ho percepito anche qualcosa di moderno e fresco, ben inserito nelle produzioni discografiche moderne. Puoi raccontarmi la storia del disco?
“L’ho riascoltato anche io di recente, sai? Ho ricevuto il CD finito la settimana scorsa e me lo sono sparato lo scorso weekend per la prima volta nella sua interezza. Abbiamo iniziato a produrlo registrando e rilasciando i singoli uno alla volta, finchè non siamo arrivati ad averne cinque. Per la prima volta abbiamo lavorato in questo modo: scrivevamo una canzone, la pubblicavamo, ascoltavamo i feedback e poi ricominciavamo. Nel frattempo, ci chiedevamo cosa fare di quelle canzoni. Un EP? Un disco? In fin dei conti, dal mio punto di vista, questo non è nemmeno un album, almeno nel senso tradizionale. È una raccolta di canzoni composta da questi primi cinque singoli e da altri brani nuovi. Dopo averlo ascoltato, però, penso che spacchi davvero perché ogni canzone è molto forte e intensa proprio grazie alla metodologia che abbiamo adottato. Tutti i brani sono singoli o potenziali singoli.”
Mi ricorda un po’ i primordi del rock ‘n’roll, quando i Beatles o Elvis rilasciavano 33 giri composti da tutti i singoli usciti nei mesi precedenti.
“Hai ragione, paradossalmente abbiamo lavorato proprio così, in questo caso. E devo dire che questo modo di pensare la musica mi piace. Quando scrivo una canzone voglio farla uscire e vedere come viene recepita. Non mi va più di aspettare due anni prima di potermi confrontare con il pubblico. Questo sistema ha dato anche un po’ più di brio alle nostre vite: per certi aspetti mi sentivo troppo legato a una routine che stava iniziando a diventare noiosa. Mi sentivo come in una ruota per criceti: scrivi un disco, registralo, aspetta due anni, rilascialo e vai in tour. Non ne potevo più. Questo nuovo sistema è più avventuroso e consono ai tempi che viviamo, in cui tutti vogliono tutto subito.
Tornando al disco, prima hai detto che suona fresco e ti ringrazio. La spiegazione è molto semplice: fino ad ora nella nostra carriera eravamo soliti lavorare con ingegneri del suono un po’ più vecchi di noi e, chiaramente, ormai la cosa sta iniziando a essere difficile! No, scherzo. Noi veniamo dagli anni ’80 e abbiamo sempre un piede lì, specie per quanto riguarda il suono delle tastiere. Questa volta, però, a lavorare alla produzione del disco c’era un ragazzo molto più giovane che non aveva vissuto quel momento storico direttamente, ma di riflesso. Lui non c’era, in quegli anni, e tutto ciò che senti viene dalla sua immaginazione e dalle sue conoscenze della musica di quegli anni.”
Insomma, un sound anni ’80 di seconda generazione, che viene da qualcuno che era lì in quel momento ma che ha provato a ricostruirlo alla luce della modernità!
“Proprio così!”
Affascinante. Potresti dirmi qualcosa di più in merito alla collaborazione con Kat Von D. nella canzone ‘Murder Takes Two’? In quella canzone, peraltro, canti veramente bene, hai un timbro alla Johnny Cash! Fa parte delle tue influenze vocali?
“Quando siamo partiti facevamo glam e io non sapevo bene come cantare, in realtà. Volevo solo essere parte dell’avventura. Mi sgolavo, sembravo un pazzo. Una volta, per gioco, ho iniziato a cantare utilizzando il mio registro vocale più profondo, senza pensare che potesse funzionare. In realtà ci siamo subiti accorti che suonava bene e allora ho capito che quella era la cifra stilistica che avrei dovuto adottare, almeno per i The 69 Eyes. A quel punto ci siamo messi a scrivere canzoni più goth e quello è diventato il nostro sound. So cantare anche acuto, ma è uno stile che ormai mi affascina meno. Inoltre il tempo passa: man mano che si invecchia si perdono le note del registro più acuto, mentre quelle più gravi acquistano di spessore e corpo.
Per quanto riguarda la canzone, è una ballata country oscura. Inizialmente l’avevo registrata da solo, ma dopo averla ascoltata il nostro bassista ha iniziato a dire che mancava qualcosa. Forse un duetto con una cantante avrebbe potuto migliorarla. Allora ho subito scritto a Kat Von D., pensavo fosse figo fare qualcosa insieme. Lei ha accettato subito e penso che il risultato finale sia perfetto. La sua voce ha qualcosa di mistico e ipnotico, porta nella canzone quella disperazione e quel mistero che caratterizza le canzoni del West. È l’unica collaborazione presente in questo disco. In passato abbiamo avuto molti ospiti, tra cui Dani Filth. Ma questa volta non avevamo messo in preventivo di avere ospiti. Ma lei è un personaggio unico e iconico, è la regina di tutti i goth da un punto di vista estetico e sono molto emozionato per aver lavorato con lei.”
Dove avete registrato il disco?
“Abbiamo registrato il disco ad Helsinki. Kat Von D. ha ovviamente inciso le sue parti a Los Angeles, mentre il mixaggio è stato fatto da un tecnico del suono americano che ha lavorato, in passato, con U2, Coldplay e molti altri. L’ultima cosa che è venuta sono stati i testi che, come sempre, parlano della mia vita. Non sono mai opera di pura fantasia, anche quelli più assurdi. Si tratta di metafore per raccontare una mia qualche esperienza.”
Come stanno andando le cose dopo la pandemia e in questi tempi di guerra? So che per molti musicisti, specie in Europa, è diventato molto difficile suonare dal vivo e che molti locali stanno chiudendo a causa delle difficoltà economiche.
“Dunque, noi abbiamo avuto la possibilità di suonare qualche show qui in Finlandia durante il periodo di lockdown. Abbiamo dovuto osservare tutte le regole necessarie, ma almeno abbiamo avuto la possibilità di suonare ogni tanto. Quando la situazione si è un po’ tranquillizzata abbiamo fatto un tour in Europa e agli spettacoli c’era ancora più gente di prima. È stato un grande successo e ora puntiamo agli Stati Uniti. I primi dati sono confortanti e sembra che molte date siano già sold out, esattamente come sta accadendo qui in Finlandia, dove suoniamo regolarmente tutti i weekend. Durante il tour europeo mi sono trovato diverse volte a saltare in mezzo alla folla, perchè sentivo che era la cosa giusta da fare per scongiurare la paura dell’altro che aveva caratterizzato le nostre vite durante il periodo pandemico. I concerti rock sono un luogo per stare insieme, per radunarci…”
E’ quasi rituale, per me. Percepire quell’energia è sempre incredibile!
“Sì, è molto ritualistico. Mi è piaciuto immergermi in mezzo al pubblico, senza la paura di ammalarmi. Facevo festa con loro e penso che sia stata l’emozione più forte degli ultimi anni. E sono molto felice di farlo domani, di nuovo. Non vedo l’ora di ballare con il pubblico. Mi ricordo la prima volta che è successo, dopo il COVID. È stato quasi per caso, ero lì e mi sono buttato in mezzo alla folla. Solo il giorno dopo ho realizzato che era davvero la cosa di cui avevo bisogno. È stato davvero figo essere di nuovo parte di qualcosa e i concerti per me hanno assunto un significato nuovo, più profondo e intenso. Questa è la mia cura in attesa di tempi migliori.”
Grazie per il tempo che mi hai dedicato Jyrki, sei stato molto gentile.
“Grazie a voi, speriamo di vederci quanto prima in tour! Speriamo davvero di poter tornare in Italia molto presto”.