Docker’s Guild – The Mystic Opera
Il 08/01/2023, di Fabio Magliano.
Ci sono progetti concepiti e nati in Italia degni di rivaleggiare con le più imponenti produzioni internazionali ma, chissà per quale strana ragione, raramente arrivano a godere della visibilità meritata e ricevere i giusti onori. I Docker’s Guild sono prova lampante di tutto questo. Nati da un’idea del produttore, cantautore e polistrumentista Douglas R. Docker, franco/americano d’origine ma italiano d’adozione, i Docker’s Guild si presentano come un’enorme space opera progressive metal destinata a svilupparsi attraverso 5 “stagioni” e 4 “libri” per un totale di 9 album. Un concept ambizioso che, ad oggi, ha portato alla luce tre dischi, ma soprattutto è arrivato a coinvolgere nomi di primissimo piano nel panorama metal mondiale. L’ultimo nato, ‘The Mystic Technocracy – Season 2: The Age of Entropy’ è stato mixato da pezzi da novanta come Neil Kernon, Alberto Macerata e Alessandro Del Vecchio e vede coinvolti, tra gli altri, musicisti del calibro di Anneke van Giersbergen, Amanda Somerville, Elizabeth Andrews, Joel Hoekstra, Sascha Paeth, Nita Strauss, Mio Jäger… giusto per citarne una scarna rappresentanza. Insomma, un Progetto imponente, affascinante, avvincente, che viene presentato a Metal Hammer dal mastermind in persona Douglas R. Docker.
‘The Mystic Technocracy – Season 2: The Age of Entropy’ è il terzo album a firma Docker’s Guild, un lavoro imponente che ha richiesto un grande sforzo e enormi sacrifici. Come ti senti oggi che il disco è finalmente fuori? Che emozioni stai provando?
“(Douglas R. Docker) Esausto, povero, ma molto orgoglioso e soddisfatto! L’ultimo album era uscito nel 2016 e speravo in una gestazione più rapida rispetto ai primi due album, ma vari problemi tra cui il decesso di mio papà nel 2018 hanno messo un freno a tutto. Adesso però che è finalmente uscito, sono davvero contento, è come essersi tolti un macigno di dosso, e devo dire che per la prima volta, quando lo ascolto, non cambierei nulla, soprattutto a livello di mix e produzione. E’ davvero venuto fuori oltre le mie più rosee aspettative”.
Quale è stata la sfida più difficile ma stimolante che ti sei trovato a dover affrontare a questo giro?
“Ce ne sono state parecchie, ma a livello creativo la maggiore soddisfazione l’ho avuta quando ho finito la suite ‘Into the Dahr Cages’. La musica era già stata scritta tantissimi anni fa, nel lontano 1994, anzi l’intro (‘The King in Purple’) è addirittura del 1987. Quando ho deciso di usarla ed espanderla per l’album, ho dovuto scrivere un testo nuovo che si adattasse alle melodie e alla storia, in un punto cruciale della saga dove la faccenda si fa veramente oscura. In più, avendo speso un paio di anni a leggere e a fare ricerca su ‘Il Re in Giallo’, il famigerato libro maledetto di Robert W. Chambers, avevo anche deciso di integrare la mia saga nel mondo di Carcosa, con toni da horror cosmico puramente lovecraftiani. Quel libro inizia con una poesia, ‘Cassilda’s Song’ e la sfida è stata di inserirne il testo su una canzone già scritta. Ed è successo che la metrica del testo calcava esattamente la melodia scritta quasi 30 anni prima. Chiamiamola una coincidenza, ma per me è stata una vera epifania. Poi con Anneke van Giersbergen che la canta, nel ruolo di Cassilda, è diventata uno dei punti di forza dell’album”.
Puoi spiegarci di più riguardo al concept alla base di questo progetto?
“Tutto è nato nel 1990, quando scrissi ‘The Mystic Technocracy’, la canzone che apre il primo album ‘Season 1’. Erano i tempi dell’intifada in Palestina e poco dopo della Crisi del Golfo e della prima guerra in Iraq. E guardavo questa gente in TV, completamente invasata, disposti a morire per il loro Dio di pace ed amore. Ero ancora molto giovane, ma mi ha dato davvero molto da pensare. Ho cercato una mia risposta di fantasia a questa follia collettiva ed è nato il testo della canzone. E poco a poco, da quella canzone è nato un intero universo. E quindi venuta fuori questa storia di fantascienza dark, al cui centro c’è la follia umana dovuta all’indottrinamento religioso delle tre fedi monoteiste e dei disastri che hanno combinato in 3000 anni di storia. Ci tengo a sottolineare che non è un album contro le religioni, ma è sicuramente un dito puntato contro la follia umana quando le usa male”.
Quali pensi siano le principali differenze tra la prima ‘stagione’ e questo The Mystic Technocracy Season 2: The Age Of Entropy ?
“‘Season 1’ è un grande affresco che presenta la saga e il mondo in cui essa si evolve. L’album copre 3 miliardi di anni di evoluzione sulla terra e se si leggono con attenzione i testi, si può notare che ci sono pochissimi personaggi, alcuni dei quali non vengono nemmeno chiamati per nome. Il Tecnocrate è probabilmente il personaggio principale, poi ci sono Tith, l’ultimo dinosauro, e si parla anche di Jack Heisenberg in ‘The Secret of DNA’, ma non ne viene menzionato il nome. E’ quindi un album molto descrittivo ed espositivo. Jack Heisenberg viene poi introdotto formalmente in ‘Book A’. ‘Season 2’ invece è un album molto più dramamtico, dove la sofferenza la fa da padrona. Ci sono molti personaggi in più, e accanto all’evolversi generale della saga, ci sono molte tragedie personali che si riflettono nelle varie canzoni. E’ quindi un album molto più oscuro, a tratti malinconico e disperato. E credo che sia anche molto più vario, si va da brani molto heavy e prog come ‘Die Today’, ‘Machine Messiah’ e ‘Into the Dahr Cages’, a momenti molto più acustici e struggenti come ‘Heisenberg’s Uncertainty Principle’. Per la prima volta ho anche usato il growl e lo scream, ma solo in pochi momenti salienti e particolarmente drammatici. Aggiungo anche che è un album piuttosto autobiografico con diversi eventi ispirati direttamente a situazioni che ho vissuto personalmente, come la morte di Laura in ‘Rings’, o la tragedia di Lucy”.
Hai coinvolto un numero enorme di guest in questo progetto? Vuoi parlarcene?
“Ogni album ha avuto un suo tema per quanto riguarda gli ospiti. Per ‘Season 1’ ho scelto molti artisti che furono i miei eroi di gioventù nel mondo del rock melodico e dell’AOR. Era ovviamente una soddisfazione che mi volevo togliere a livello personale, ma soprattutto volevo vedere come avrebbero lavorato su un materiale prog molto più articolato. Per ‘Book A’ invece ho deciso di avere una lineup tutta al femminile, con incredibili artiste estratte prevalentemente dal mondo del metal e dell’hard rock. Per ‘Season 2’, l’idea è stata di avere metà della line up formata da grandi artisti internazionali, e per la prima volta l’altra metà costituita di amici ed artisti locali di alto livello. Quindi alla fine mi sono ritrovato con 17 ospiti e devo dire che si sono integrati perfettamente tra di loro, hanno tutti fatto un lavoro eccezionale sotto tutti i punti di vista e in più mi ha dato la gioia, per una volta, di lavorare in studio con persone presenti fisicamente invece che produrre tutto tramite Internet”.
Ci puoi parlare di ‘Heisenberg’s Uncertainty Principle’, quello che reputo uno degli highlight di questo disco?
“Mi fa molto piacere che apprezzi questa suite, che è sicuramente uno dei cardini dell’album, e per me anche il pezzo più personale e sofferto. La suite è costituita da tre movimenti scritti in periodi molto diversi, ma tutti accomunati dal tema della sofferenza, della tragedia e della perdita. ‘Nocturne’, un brano per pianoforte solo, era il mio assolo acustico durante i live dei Biloxi a Los Angeles nel lontano 1993, e la sua atmosfera malinconica si adattava perfettamente al resto della suite. ‘Rings’ invece è ancora più vecchia e risale al 1986. E’ una delle primissime canzoni che io abbia mai scritto, avevo 18 e l’avevo scritta per un mio caro amico a cui era stato diagnosticato un cancro. Non riuscii mai a scrivere il testo, la mia vicinanza alla sua malattia me lo ha impedito e rimase quindi nel cassetto. Visto che per lo sviluppo della saga era ‘necessario’ uccidere Laura, la moglie di Jack Heisenberg, l’ho rispolverata, e finalmente sono riuscito a scrivere un testo che parla di un personaggio fittizio ma ricalca perfettamente quello che vivemmo tutti nell’86. ‘Lucy’ invece è molto più recente ed è stata scritta apposta per ‘Season 2’. E’ una tragica storia di sofferenza e perdita delle persone alle quali uno vuole più bene, ed è basata su un evento realmente accadutomi circa 10 anni fa. Credo che sia il brano più emotivamente carico e drammatico che abbia mai scritto”.
E cosa ci dici di ‘Into the Dahr Cages’?
“Questa è la suite che chiude l’album, il brano più articolato e complesso e anche quello più oscuro e malato dal punto di vista del testo. E’ l’esatto opposto della suite precedente. Qui si parla di odio, di follia, di morte e sofferenza, ma visti come qualcosa da infliggere di proposito a tutti nel delirio di onnipotenza che caratterizza il personaggio principale del brano, il folle Cardinale Berengar Yersinia. L’introduzione risale al 1987, ed era stata ispirata, all’epoca, dall’intro di ‘Shout at the Devil’ dei Motley Crue. L’ho poi ampliata, trasformata in un paesaggio sonoro, che chiude con un oscuro canto gregoriano armonizzato. Il resto della suite fu scritta nel 1994, e fu ispirata ai primi album dei Dream Theater, anche se è poi diventata un’altra cosa. Contiene una grande varietà di atmosfere e stili, che vanno dal prog, al metal, alla ballad con drum machine in stile Genesis, e anche a livello di voci si passa dal growl al canto gregoriano, dalle voci melodiche al parlato. Ce n’è veramente per tutti i gusti, anche se a livello strutturale la suite è molto tematicamente sviluppata, con melodie, riff e temi che ritornano nei vari movimenti, contrariamente alla suite precedente che è molto più slegata”.
C’è un artista che ti ha inorgoglito particolarmente avere a bordo? E uno con il quale ti sarebbe piaciuto lavorare ma non ci sei riuscito?
“Beh, tutti hanno dato qualcosa di magico e hanno un posto speciale sull’album, ma voglio ricordare in particolare Joel Hoekstra se non altro per il fatto che siamo andati a scuola insieme nel 1992 al Musicians Institute di Hollywood. Ironicamente, non abbiamo mai suonato insieme in quell’anno di scuola, e quindi è stato fantastico averlo a bordo del progetto”.
Quanto ci hai messo a concepire un’opera simile e quanto tempo ci è voluto dal momento che è stata concepita al momento che ha visto la luce?
“Il ‘seme’, come ho scritto sopra, nacque molto rapidamente nel 1990 con la prima canzone, ma non mi ero ancora reso conto di come si sarebbe evoluta la faccenda. Quel periodo fu estremamente creativo per me, e scrissi tantissime canzoni più o meno prog, e i vari testi avevano sempre risvolti fantascientifici, storici e religiosi. Anche i temi melodici sembravano rincorrersi di canzone in canzone, senza che all’epoca me ne fossi reso conto. E’ solo nel 1993/94 che ho capito che tutto era legato da un tema comune, e che c’era un’intera storia già scritta tra le righe. Nel 1994 misi insieme a Mio Jäger (oggi chitarrista delle Frantic Amber) quello che chiamammo Project DNA, il precursore del progetto Docker’s Guild, che conteneva diversi brani da ‘Season 1’, ‘Season 2’ e anche uno dalle future ‘Season 4’ e ‘Season 5’. Molti brani delle prime due stagioni sono stati scritti a quattro mani con Mio. Per vari motivi, non se ne fece nulla e misi il progetto nel cassetto. All’epoca non c’era la tecnologia per fare quello che volevo, cioè una superproduzione sia musicale che multimediale, a meno di spendere cifre esorbitanti. Il momento giusto arrivò nel 2008 quando ripresi in mano il progetto, scrissi nuovi brani, che poi sfociarono in ‘Season 1’, uscito poi nel 2012. Il progetto continua a crescere e ad evolversi, quindi essenzialmente sono 33 anni che ci sto lavorano!”.
Musicalmente quali sono i riferimenti per questo lavoro?
“Piuttosto vari! Si parte dalla musica classica per i primi due brani, che sono un rifacimento di una fantasia di Mozart, a ‘Nocturne’, ispirata ai momenti più classici di Keith Emerson. Poi c’è il prog classico (Yes, ELP), l’AOR (Asia, Journey), gruppi di metal più moderno tipo Amaranthe e Threshold. Ci sono però anche influenze estranee al metal, che credo siano quelle che danno al progetto Docker’s Guild il suo sound che è piuttosto diverso rispetto ad altri progetti di questo tipo, in particolare David Bowie, Duran Duran, Rockets e Jean-Michel Jarre”.
Sei un artista poliedrico che spazia dall’AOR al Progressive Metal. Quale pensi sia la tua vera natura e quale è la dimensione nella quale ti trovi maggiormente a tuo agio?
“Difficile rispondere, sono del segno dei Gemelli, e quindi per natura piuttosto instabile e facile alla noia. Sicuramente, dove mi trovo più a casa sono i generi che hai menzionato, quando mi capita di fare un gruppo di cover, è facile che vada a pescare lì”.
Se guardi alla tua carriera, quale è il momento che reputi il suo highlight e che ti inorgoglisce particolarmente?
“Ci sono stati tanti momenti salienti di cui ho bei ricordi, ma i due che mi hanno emozionato di più sono stati il live dei Biloxi al Mississippi Coast Coliseum nel 1994, la prima volta che salii sul palco di un’arena americana DOC. Fu il culmine di tutta una serie di sogni che avevo fin da ragazzino. E poi l’uscita del primo album Docker’s Guild nel 2012, dove dopo 22 anni di sforzi, false partenze, delusioni, finalmente il mio sogno diventava realtà. E quando sono arrivate le recensioni entusiastiche della stampa e dei fans mi sono detto ‘per 22 anni ci ho creduto solo io, finalmente adesso ci crede anche quacun altro’. E’ stato bellissimo”.
E a livello di rimpianti, quale è il tuo più grande rammarico?
“Anche qui, il primo è dal periodo Biloxi, dove eravamo in programma per suonare in tutti i mega festival europei del 1994. Purtroppo il gruppo si sciolse prima, ma è un’esperienza che mi sarebbe sempre piaciuto fare, soprattutto in quegli anni. E per i Docker’s Guild, ovviamente fossimo usciti prima, i riscontri sarebbero stati ben altri rispetto ai nostri giorni dove il mercato musicale è in ginocchio. Ma meglio tardi che mai”.
Da protagonista sotto svariate vesti della scena musicale italiana (e non solo), come giudichi la scena musicale attuale e quanto pensi il Covid l’abbia cambiata?
“Beh, sicuramente ha cambiato me. Ho passato 10 anni della mia vita prima del COVID essenzialmente a lavorare per e con altri in ogni possibile settore musicale: scuola di musica, produzioni, service, organizzazione di eventi, concerti, concorsi, masterclass, e chi più ne ha più ne metta. E’ stato bello, mi sono divertito e ho anche guadagnato. Ma la crisi è arrivata ben prima del COVID, i live erano già in ginocchio nel 2018, e la scuola di musica anche. Per me, e lo dico con un leggero senso di colpa, l’arrivo del COVID a livello professionale è stata una benedizione. Ho staccato la spina a tutto. Ho annullato, anche perché eravamo obbligati, tutto: concerti, festival, concorsi, ho schiuso la scuola di musica, mi sono licenziato dalle altre per le quali lavoravo. E quando ha riaperto tutto, io sono rimasto chiuso, perché avevo nel frattempo deciso che a 55 anni, era arrivato il momento di lavorare un po’ più per me stesso e di dedicarmi alle mie produzioni, ai miei progetti, alle mie canzoni. E da allora devo dire che sto benissimo, lavoro molto più sereno e rilassato e mi diverto anche molto di più. Mi manca un po’ l’aspetto sociale, ma sicuramente non tornare a casa alle 4 del mattino 5 volte alla settimana”.
Pensi sia possibile in qualche modo promuovere dal vivo questo lavoro?
“I Docker’s Guild hanno suonato dal vivo pochissime volte, ma ogni volta è stato per un grande evento speciale come headliner, ed è sempre stato divertentissimo e con un successo inaspettato. Mi piacerebbe farlo più spesso, ma è complicatissimo. Sia a livello tecnico, a causa della natura dei brani (non usiamo basi o sequenze per principio, quindi tutto è suonato e va riarrangiato e imparato), sia per la lineup sempre mutevole, ma soprattutto perché onestamente uscire fuori in questo momento vuol dire perdere una montagna di soldi per poi vendere 3 CD. Se un grande come Devin Townsend decide di smettere di fare tour e live per la situazione post COVID, nel mio piccolo può andare solo peggio quindi… vedremo ma preferisco usare tempo ed energie per essere creativo in studio in questo momento”.
Quale sono i prossimi passi per i Docker’s Guild? E per Douglas Docker?
“Abbiamo tantissima carne al fuoco per il 2023. Intanto ci saranno, per la prima volta, le ristampe dei primi due album in doppio vinile, qualcosa a cui tengo da sempre. Poi uscirà un CD e DVD live, una vera chicca per i fans. Dopodiché partirò con la scrittura di ‘Book B’, che sarà l’album più complicato da scrivere per me, perché è l’unico dove non è ancora stata scritta una singola nota. Non voglio ancora anticipare troppo, ma posso già rivelare che sarà una Messa da Requiem in…. Latino! E la musica sarà qualcosa che non ho mai fatto prima, un vero esperimento. Oltre ai Docker’s Guild, uscirà il mio primo album al pianoforte solo, nello specifico un tributo alla musica di Keith Emerson. E in più, un album di canzoni che ho scritto nel 1983/84 quando avevo 16 anni, per il mio progetto contenitore Event Horizon. E se mi rimane del tempo, ma ne dubito, riattiverò il progetto synth pop Area 51 che avevo messo su con Mio Jäger nel 1996, ma con una nuova cantante, e infatti il nome cambierà in Area 52 per marcare la seconda fase. Insomma, credo che sarò piuttosto indaffarato. Grazie mille a Metal Hammer per avermi ospitato e un saluto a tutti i fans che sostengono i miei vari progetti musicali!”