The Black Cheetahs – Rails Of Rust
Il 30/08/2022, di Fabio Magliano.
Direttamente da Berlino arrivano i The Black Cheetahs, progetto nato dalla produttrice e artista Sofia TK che, in tandem con il Jack Wendy e con il bassista Christian Gjelstrup ha saputo dare vita ad un sound oscuro e claustrofobico, che spazia dal garage rock al doom spesso e volentieri deragliando verso un dark ambient elettronico di grande impatto. Tutto questo è sfociato in ‘Slow Doomed Fever’, album eclettico che vede la partecipazione di Andrew N.U. Unruh degli Einstürzende Neubauten. A parlarcene è un’entusiasta Sofia TK.
Se dovessi descrivere a chi ancora non vi conosce la vostra proposta musicale, che termini useresti?
“(Sofia TK) La nostra musica è un’intersezione di garage punk, rock industriale ed elettronica ambient, prendendo in prestito elementi dal doom e dal rock’n’roll. Oscura e sporca”.
Quali sono le band alle quali vi ispirate?
“Siamo amanti della musica con una vasta gamma di influenze. Dagli Stooges ai Pan Sonic passando per NIN, Brian Eno, Nick Cave, Earth e Bohren & Der Club of Gore. Anche il modo in cui queste influenze si manifestano è diverso per ogni strumento. Le mie chitarre provengono dai Sun O))) e da Chuck Berry, e molto da Lee Ranaldo. Per quanto riguarda la voce, il mio cuore appartiene a Little Richard e Nick Curran, e a un sacco di punk e hardcore come L7 e Suicidal Tendencies. Mentre i pianoforti di Jack sono pieni di Arvo Pärt, il basso di Christian è pieno di Ministry”.
‘Slow Doomed Fever’ è il vostro primo album. Vuoi parlarcene?
“È il nostro primo album completo, ed è stata una dura ricerca all’altezza del suo titolo! Si tratta di otto canzoni oscure, con ritmi molto lenti e pesanti, trascinati e coesistenti con spessi muri di chitarre e bassi synth, molto blues nelle voci ma anche rabbia e urla. C’è molta energia di Kali, il lato incazzato e anche quello blu dell’archetipo femminile oscuro”.
Quanto tempo ci è voluto per scrivere e registrare l’album?
“L’intero processo è durato circa quattro anni. Abbiamo iniziato con tre brani, pubblicato un EP, scritto il resto, un anno di produzione, registrazione e missaggio dell’album”.
Quattro anni? E’ stato un processo estremamente lungo e laborioso! Come mai una gestazione così lunga?
“A dire il vero ci abbiamo messo un po’ad ingranare, poi è stato tutto in discesa, tanto è vero che abbiamo fatto le registrazioni principali in quattro giorni, in due studi diversi. Essere il produttore e il musicista mentre si lavora in studio in tempi così ristretti è una grande sfida. Ci vuole audacia, molta preparazione e pre-pianificazione, ma anche fiducia, intuizione e rapidità di decisione. Siamo stati fortunati a lavorare così bene in squadra con Rey e Julia, che hanno fatto un ottimo lavoro come tecnici di registrazione. A parte questo, ci sono state molte sovraincisioni e il conseguente lavoro extra per far sì che tutto il materiale si adattasse bene al mix, che ho fatto io stesso. Anche trovare un suono coerente per tutte le nostre diverse direzioni e influenze musicali non è stato facile. Ma, per me personalmente, la parte più difficile è stata produrre e mixare di nuovo le tre canzoni che avevo già prodotto e mixato per l’EP. Volevamo un suono solido e coerente per tutto l’album, e questo è stato il prezzo da pagare”.
C’è una “chiave” lirica nei brani che compongono ‘Slow Doomed Fever’?
“L’album mette in risalto la figura dell’antieroina e della donna fuorilegge, un po’ come la musica country spesso celebra i “cattivi”. È uno sguardo sugli alti e bassi e sulle riflessioni di chi vive in modo intenso ed estremo, rompendo le norme e sentendosi libero. Quindi, amore, morte, domande esistenziali e crisi sono temi di fondo. Giocare con il fuoco e sfidare lo status quo”.
C’è una canzone a cui sei particolarmente legata?
“Quella che sento più vicina è ‘Here’s the Light’. È una canzone molto onesta e, contrariamente al resto dei brani, che hanno richiesto più lavoro per essere composti, questa è semplicemente accaduta, in un vero momento di ispirazione e flusso, senza sforzo, accordi e parole sono venuti fuori insieme. A livello di band, probabilmente il pezzo al quale siamo più legati è invece ‘Hiss and Curls’. Ci piace suonare la parte strumentale costruendo in modo call-response, con curve sia nelle chitarre che nei synth. È quasi una trance quando la suoniamo, e il modo in cui la canzone si risolve urlando “like girls” funziona come una terapia per me”.
E i testi?
“Mentre la maggior parte della musica di questo album è stata scritta insieme a Jack, i testi sono la parte che faccio da sola. La musica ha dato forma a poesie e testi già esistenti, e le parole hanno dato forma alla musica. Credo fortemente nel potere delle parole e le scelgo con cura. Alla fine la canzone in sé è tutta un’unità e un’entità: la musica, le parole, chi suona, chi canta. Cominciamo a scolpirla come fosse legno, ma alla fine è la canzone che si rivela”.
Qual è la cosa più preziosa che hai imparato durante la scrittura, la registrazione e la pubblicazione di ‘Slow Doomed Fever’?
“Che è il processo che ci costruisce, il vero obiettivo nascosto. Ma finire con un album è già una bella cosa!”
In questo disco collaborate con Andrew N.U. Unruh degli Einstürzende Neubauten. Come è stato lavorare con lui?
“Molto fico, cazzo! Un’intensa esperienza creativa e collaborativa, un lavoro molto concentrato e dedicato. È una persona molto stimolante. Il modo in cui estrae i suoni da strumenti folli autocostruiti da lavandini e rottami metallici è semplicemente sbalorditivo. Ci piace il suo contributo all’album, in cui ha suonato in due brani, e queste registrazioni sono state sicuramente un punto culminante del processo. Gli Einstürzende Neubauten fanno parte della nostra lista di influenze ed è stato un onore lavorare con lui”.
In conclusione, quali saranno i prossimi passi dei Black Cheetahs? Cosa dobbiamo aspettarci da loro?
“Stiamo lavorando al nostro prossimo album. Abbiamo bisogno di sangue fresco, di nuovo materiale da suonare. Aspettatevi brani intensi, più improvvisazione e batteria dal vivo”.