Lester Greenowski – It’s Nothing Serious Just Life
Il 18/06/2022, di Fabio Magliano.
Leggi la biografia di Lester Greenowski e ti viene da chiederti ‘Perchè?’. Poi sospiri, abbozzi, gli dai metaforicamente una pacca sulla spalla, pensi che comunque vivi nel Paese dove “Vasco è metal”, bisbigli un vaffanculo mentre alzi di tre tacche il volume su ‘Let’s Get F***ed Up’. Perchè Lester è un musicista vero, come ce ne sono pochi. Uno che nella sua carriera (sono 20 sopra un palco, quest’anno) ha sfornato una vagonata di dischi, e chi se ne frega se tra tutti non hanno superato le 10.000 copie vendute…quei 10.000 godono e hanno goduto, e questa è l’unica cosa che conta. E’ un musicista che ci ha creduto e che ci crede, non a parole, ma con i fatti…suonando in tutta Europa, dividendo spesso e volentieri il palco con band che trovano regolarmente spazio su qualsiasi enciclopedia del rock, partendo dai Faster Pussycat passando per gli L.A Guns, arrivando sino a Michael Monroe, e non ce ne vogliano i vari Offspring, Backyard Babies, Enuff’Z’Nuff, Richie Ramone, Bruce Kulick, John Corabi, Tigertailz, Tuff, Steven Adler, Dogs D’Amour…se li abbiamo tenuti fuori dall’elenco per non far diventare questa intro una succursale delle Pagine Gialle. Lester Greenowski è un musicista che di cose da dire ne ha davvero tante, ecco perchè lo bracchiamo al termine di una serie di date in compagnia di Marky Ramone e, prendendo come spunto la pubblicazione di ‘Kover All Over’ un originalisismo tributo ai Kiss, ci addentriamo in un’avvincente tempesta di ricordi tra aneddoti e riflessioni mai banali, sempre pungenti, dannatamente intelligenti, fottutamente rock’n’roll, ideali per ripercorrere 20 anni di passione pura.
‘Kover All Over’ rientra nella celebrazione dei tuoi primi 20 anni come autore. Perché proprio un tributo ai Kiss?
“Ciao Fabio, innanzitutto grazie mille del tuo tempo, non c’é una vera ragione dietro ‘Kover All Over’, avevo semplicemente voglia di farlo. Ho sempre voluto bene ai Kiss, sono stati uno dei primissimi gruppi a cui mi sono appassionato. Attraverso i Kiss ho scoperto la scena musicale newyorchese degli anni Settanta, a tutt’oggi punto di riferimento artistico per tutto quello che faccio. Ora non seguo più la band con lo stesso entusiasmo che potevo avere da adolescente, rimangono comunque un segno indelebile nella mia formazione”.
Come sono state scelte le canzoni da coverizzare in questo lavoro?
“Da quando ho cominciato a suonare ho sempre “pasticciato” con i pezzi di questa band, alle volte proponendone alcuni dal vivo, incidendone altri, ma soprattutto divertendomi in sala prove. Di tutti i pezzi coverizzati in questi anni, abbiamo cercato di mettere assieme solo le rivisitazioni più personali, in modo da mostrare come avessimo assimilato la lezione della band di New York. Personalmente amo molto il periodo 1974-’78, per intenderci dal debut ai solo album, credo che per questo, anche se involontariamente, la scelta dei brani si sia orientata principalmente verso questa fase della produzione del ‘bacio'”.
C’è stata una traccia che ti ha dato maggiori difficoltà nel ri-arrangiamento?
“Ho cercato di privilegiare immediatamente quello che veniva di “pancia” e senza particolari intoppi. Quando si tratta di questo tipo di operazioni il primo a essere molto esigente sono io, infatti da ascoltatore penso che originalità e spontaneità siano sempre una componente fondamentale perché la canzone sia piacevolmente fruibile”.
Quale è la traccia che ti ha maggiormente stupito come risultato finale?
“Sono veramente contento del lavoro nella sua interezza e ringrazio chiunque abbia avuto voglia di farne parte. Il fatto di aver lavorato quasi a tutte le tracce assieme a Vinn Borawski è stato ciò che ho amato di più di questo lavoro, non facevamo qualcosa assieme da quasi dieci anni. Vinn è la mia storica metà in Lester And The Landslide Ladies, nonché amico fraterno con il quale abbiamo sempre condiviso questa passione, abbiamo scoperto e costruito il nostro rispettivo sound assieme, spero traspaia l’entusiasmo nel ritrovarsi. Penso che attraverso il contrasto tra gli originali e le nostre versioni traspaia quanto i Kiss ci abbiano influenzato e aiutato nello sviluppare una nostra identità artistica definita”.
Quale era l’obiettivo principale che ti sei prefissato al momento di concepire un disco simile?
“Nessun obiettivo particolare, il disco è nato in pandemia, amici che a distanza si ritrovano a fare quello che hanno sempre fatto di persona: suonare. Direi che con tutti i coinvolti l’amicizia é nata sempre nel contesto “concerto” e per una volta, impossibilitati a ritrovarsi nel nostro solito elemento, é stato divertente farlo virtualmente”.
A questo lavoro prendono parte alcuni nomi noti nel panorama hard rock/punk italiano. C’è un musicista che avresti avuto piacere di avere a bordo senza però riuscirci?
“Le collaborazioni sono tutte nate in modo così spontaneo che sinceramente non ci ho mai pensato. Contando il pochissimo preavviso, il fatto che nessuno mi abbia mai detto di no mi fa sentire molto fortunato. Ho tantissime persone con cui amerei collaborare e sicuramente non mancherà occasione per completare a dovere il mio carnet”.
Il progetto di questo tributo è nato per ricordare un nostro grande amico comune, Alex Ruffini. Hai voglia di condividere con noi un ricordo che ti porti dietro di questo grandissimo fotografo?
“Poco dopo la dipartita di Alex, assieme a Casey (Brokendolls, Thee S.T.P.) e Frank (Perfect View), abbiamo raccolto ottanta cover dei Kiss da parte di altrettante band, il risultato é ‘We Keep On Shoutin’ – Not Your Average Kiss Tribute’, compilation benefica in memoria di Alex. Questo ha acceso il desiderio di fare qualcosa di solo mio a tema Kiss, “Kover All Over” appunto. Sinceramente non mi ricordo esattamente quando ho conosciuto Alex, sicuramente sotto a qualche palco, sicuramente attraverso Alvise Sclisizzi, amico comune storico, quasi un fratello acquisito per entrambi. Alex faceva le foto, io urlavo dentro un microfono, avevamo scelto due aggeggi diversi ma entrambi stavamo ringraziando la musica per quello che aveva dato alle nostre vite. Credo di essere stato simpatico ad Alex, a modo suo, nessuna smanceria. Un “Vai in mona” ogni tanto e una risata a crepapelle valevano tutti i convenevoli di questo mondo. Io ero un ragazzino emiliano che scriveva canzoni e sbucava dovunque ci fosse un bicorde al massimo volume, lui un fotografo veterano che aveva visto, conosciuto e fotografato tutti.
Parlavamo di musica, sempre e continuamente, ne eravamo ossessionati. Trovava divertente fossi cresciuto nella casa dietro l’albergo dove aveva incontrato i Kiss al Monsters of Rock dell’ ’88. Pensava avesse qualcosa a che fare col fatto che fossi così appassionato di sonorità che di sicuro appartenevano più alla sua generazione che alla mia.
Le feste in barca, gli Hanoi Rocks al campo volo di Fusina, il tour con Kulick e Corabi, le serate coi Faster Pussycat, con gli L.A. Guns, con gli Enuff Z’Nuff, il tour con i Dogs D’Amour, le foto a Texas Terri nei bagni del Sabotage di Vicenza, cene, aperitivi, concerti e day off con Richie Ramone, Gilby Clarke, Steven Adler son solo alcuni dei preziosismi ricordi che ho con Alex.
Non posso definirmi uno dei migliori amici di Alex, però abbiamo sempre consumato lo stesso tipo di carburante e questo bastava per capirsi, anche solo con uno sguardo, spesso molto di più che con gente che frequentavamo tutti i giorni”.
Leggo dalla presentazione: “… ‘Kover All Over’ è la seconda di una serie di cinque uscite previste quest’anno…”. Ti va di illustrare le altre quattro?
“Abbiamo iniziato l’anno con ‘Lockdown Sessions – Live At The Box’, un live registrato tra i lockdown che credo ritragga piuttosto bene quello che sono oggi dal vivo. L’elettricità è stata quella giusta, tornavamo in sala prove dopo tante settimane, è stato magico e liberatorio allo stesso tempo. Ora è fuori questo ‘Kover All Over’, che assieme al prossimo ‘Maccheroni Accident’, spero di editarlo in Luglio, fa parte di un dittico dedicato alle cover. ‘Maccheroni Accident’ sarà una collezione di cover di artisti diversi registrate in questi vent’anni.
Per settembre mi piacerebbe riuscire a rilasciare ìCarpenter’s Cultì collezione di miei brani inediti dedicati all’ opera del cineasta americano John Carpenter. Tredici brani per raccontare tredici film. Infine, verso Natale, vorrei concludere l’anno con ‘Too Much Too Often’, best in due volumi che comprende i brani più significativi scritti da me e riregistrati appositamente con ospiti da tutto il mondo”.
Ripercorriamo i tuoi primi 20 anni con una domanda un po’ scomoda: chi è oggi Lester Greenowski?
“Lester Greenowski sono io, un ragazzo di provincia che ha scelto di esprimersi attraverso la sua passione più grande, seguendola sempre fino in fondo. Oggi ho quarant’anni, grazie alla mia passione ho girato il mondo, ho incrociato la mia vita con tantissime persone, sono sempre in moto, una ne faccio e cento ne penso. Sono fatto così e non c’è molto che possa o voglia cambiare, continuo a vivere appieno le mie inclinazioni ogni giorno. Ormai mi conosco bene, so che nella coerenza con quello che sento stanno, sicuramente, la mia felicità e il mio equilibrio”.
Vent’anni fa la scena rock/glam/punk italiana pareva davvero in grado di poter primeggiare a livello europeo, forte di una serie di gruppi davvero eccellenti (mi viene da pensare a Bastet, Crackhouse, Fuori Uso, Baby Ruth, Smelly Boggs tanto per citare i primi che mi vengono in mente). Che ricordo hai di quella scena?
“Sono stato parte integrante di quella scena, sia come artista, sia come fruitore, frequento ancora tantissime persone conosciute a quei tempi, molti di loro sono tra gli affetti più cari e tra le presenze più importanti della mia vita ancora oggi. Mi sono fatto le ossa in quel contesto, ho aperto i miei primi concerti importanti, ho partecipato ai miei primi festival, ho fatto i miei primi tour assieme ad artisti internazionali grazie alla mia militanza assidua in quell’ ambiente. Slam!, Trash & Crash, Leather Boyz, NoRespect, Glam Attakk, Orgia Fuxia, Nord Est Rock And Roll Family, Secondo Avvento, Rome ’n’ Roll, Get Smart per tanti sono locuzioni che non significano nulla, per chi ha vissuto quegli anni era il vocabolario fondamentale di un circuito underground che metteva in contatto le persone che condividevano un certo tipo di passione.
Ci siamo divertiti tantissimo, siamo stati tutti tanto creativi, abbiamo messo in piedi, collaborando attivamente, tante bellissime situazioni che ancora permettono ad un certo tipo di musica di funzionare nel nostro Paese. Non eravamo interessati a rivivere nessun passato, a ricreare nulla in particolare, non gli anni Ottanta del Sunset Strip, non la contemporaneità del movimento scan rock di allora. Ci interessava aprire una via nuova, un modo italiano. Se potevano farlo in Scandinavia potevamo farlo anche noi, con band nostre e con un nostro sound.
Per quello che riguarda questo secondo aspetto devo dire che, forse perché nessuno suonava propriamente un genere, quanto più assemblava tante cose che gli piacevano in un modo che funzionasse bene nel proprio contesto di provenienza, il sound era sempre molto personale.
Ecco che i Crackhouse miscelavano Faster Pussycat e Pantera in egual misura, i Bastet sembravano un frullato di Star Star e 69 Eyes prima maniera, i Baby Ruth un frontale tra AC/DC, Skid Row e Ramones e così via. Soluzioni quasi sempre inedite, che sulla carta avrebbero potuto sembrare vaneggiamenti, che puntualmente dal vivo trovavano una dimensione efficacissima e alla gente piacevano.
I mezzi tecnici a disposizione non erano eccelsi e non eravamo certo i migliori musicisti della storia, la chiave di volta stava nel non insistere nel riprodurre cose di altri, ma nel mettere tanto di se stessi in quello che si faceva perché la propria proposta funzionasse.
In più era possibile sentire un afflato comune anche con band che non avevano propriamente il glam rock o il glam metal tra le dirette influenze, probabilmente in virtù del fatto che si suonava tanto assieme e che ci si andava a vedere l’un l’altro il più possibile
Per esempio capitava che certe cose dei Bastet potessero sembrare scritte dai Leeches o viceversa, stesso discorso per Baby Ruth e Thee S.T.P., per Landslide Ladies e Crooks e via dicendo. Mi sembra ci fosse un modo comune di affrontare la scrittura tra tanti di noi. Si percepivano come forti le stesse cose, c’era un’ impronta rock and roll molto decisa, la voglia di far divertire e di divertirsi portava tutti a cercare un modo comune di esprimersi che toccasse la maggior parte di quelli che sentivi affini a te, fregandosene di parrocchie e parrocchiette. C’era un modo italiano di scrivere e suonare rock and roll e tanti lo hanno ancora, nessuno assomigliava a nessuno, ma sicuramente potevi sentire fossimo tutti interconnessi, anche se a volte addirittura non ci conoscevamo. Li ricordo come anni bellissimi”.
Che cosa non ha funzionato, secondo te, e ha impedito a quella scena di emergere come avrebbe meritato?
“La disattenzione della maggior parte dei grandi media, in Italia storicamente più attenta a cosa succede fuori dai confini nazionali per quanto riguarda il rock cantato in inglese. Il coinvolgimento, la fidelizzazione, l’effetto sul pubblico italiano che deriva dall’ uso della nostra lingua madre é spesso un elemento determinate per un appeal più ampio. Da qui, probabilmente, la mancanza di strutture professionali forti: booking, discografiche, press office realmente interessate ad aumentare l’exposure di questo sound.
Per quel che riguarda esportare la nostra proposta all’ estero, penso sia esperienza comune sperimentata sulla propria pelle da tanti di noi che, al di là di una stretta cerchia di appassionati o di addetti ai lavori, portiamo sulle spalle un immaginario che sicuramente non comprende il rock and roll tra i suoi tratti distintivi.
Mi è capitato, ma ho spessissimo sentito storie del tutto analoghe, dopo un buon concerto all’estero chi non a conoscenza della nostra origine rimaneva stupito dal fatto che dallo Stivale potesse uscire del buon rock and roll. Ecco un pregiudizio duro da superare che, ancora, ha spesso reso difficile il coinvolgimento di solide realtà estere che si impegnassero a promuovere la musica fatta da noi. Tutto questo nella prima decade del duemila, mentre si consumava una contrazione del mercato discografico mondiale mai sperimentata in precedenza, che ad oggi non solo non si é ancora esaurita e che, difficilmente, credo potrà mai rientrare”.
Se guardi indietro, pensi che l’Europa ti abbia dato, a livello di consenso, più di quanto non ti abbia dato l’Italia, conferma che “nessuno è profeta in patria”?
“Se vuoi la verità, in Italia, sento di essere sempre stato preso molto alla leggera, lo dico senza voler fare il Petrolini di turno: “… A me, m’ha rovinato la guerra, se non c’era la guerra a quest’ora stavo a Londra…” Anche solo per il fatto che a Londra dal 2010 ad oggi ho suonato molte volte. Con i Crybabys, in cui ho militato dal 2015 alla morte di Darrell Bath, facevo tranquillamente sold out in locali da 400 persone.
Sinceramente non ho mai sperato di diventare il nuovo Mick Jagger, mi sarebbe bastato essere uno che suonava le sue cose allo stipendio di un operaio. Detto questo sono felice e completamente risolto, ho la certezza di aver sempre lavorato al massimo delle mie possibilità, penso di essermi ampiamente meritato tutto quello che ho fatto e di aver sudato le proverbiali “sette camicie” per ottenerlo.
Forse sarà presuntuoso, ma nel mio piccolo mi sento assolutamente capace in quello che faccio, trovo la mia proposta centrata, originale, ben scritta, ben suonata, ben presentata. All’ estero le pacche sulle spalle dei vari Ramones, Boys, Dictators, Dogs D’Amour e compagnia sono sempre arrivate copiose, cosa che mi ha sempre fatto estremamente piacere e mi ha sempre spronato a continuare per la mia strada. Sicuramente non si può piacere a tutti e fa assolutamente parte del gioco, a “casa” sono sempre stato quello che a prescindere suonava tutti i weekend e non era gran cosa, quello che comunque avrebbe buttato fuori un disco ed il disco sarebbe stato buono e neanche quello era una gran cosa, quello che apriva i concerti e comunque non era gran cosa, quello che nonostante tutti i casini che può incontrare una band in vent’anni si presentava sempre e sul palco faceva il suo e anche lì non era una gran cosa, quello che finiva in band con artisti internazionali con dei trascorsi importanti ed anche quello non sembrava ancora essere una gran cosa.
Sia ben chiaro, lungi da me creder di fare gran cose, ma ti confesso che é straniante cenare con Casino Steel che non si capacità di come tu non sia un musicista a tempo pieno mentre tante “figure professionali” di questo Paese o certi “colleghi” fanno piovere i loro “Magari se avessi sempre la stessa formazione”, “Sei troppo poco punk”, ”Sei troppo poco metal”, “Non suoni un genere”, “Quello é pelato”, “Quello é grasso”, “Quello é vecchio”.
All’ inizio mi dispiaceva anche parecchio, ma ormai sono 10 anni che mi diverto troppo, vivo così tanto come volevo che non ci penso neanche più. Non me ne sono mai andato definitivamente perché mi interessava costruire a “casa”, con la mia gente, per la mia gente. Ho abitato all’ estero più volte, semplicemente preferivo le persone che ho qui. Altrimenti chi me l’avrebbe fatto fare di spendermi parallelamente anche come dj, fanzinaro, promoter, discografico? Ho fatto tutto nell’ottica di costruire qualcosa da noi. Sono felice della mia scelta, preferisco non vivere solo di musica ma essere vicino alle persone che veramente contano nella mia vita, che essere un “operaio della musica” in qualche capitale europea senza condividere la quotidianità assieme ai miei affetti più cari”.
Se guardi alla tua produzione discografica, c’è un lavoro che ancora oggi ti rende particolarmente orgoglioso, e uno che, con il senno di poi, avresti fatto diversamente?
“Cambierei tutto e rifarei tutto allo stesso modo, in studio é difficile essere soddisfatti di se stessi, allo stesso tempo chi mi vuole bene é affezionato ai pezzi come sono stati incisi e io fondamentalmente da sempre cerco di dire le mie cose nella speranza di trovare un modo personale di farlo e contemporaneamente stare bene e far stare bene chi mi ascolta, forse per questo da sempre preferisco il live”.
Nel corso della tua carriera hai avuto la fortuna di condividere il palco con grandi nomi dell’hard rock internazionale come Offspring, Faster Pussycat, Dogs D’Amour, L.A. Guns, Michael Monroe, John Corabi… il ricordo che ti è rimasto particolarmente impresso di queste esperienze?
“Non saprei proprio scegliere è una carrellata di episodi fantastici, che puntualmente mentre accadevano non riuscivi a goderti del tutto perché impegnato a fare in modo che tutto funzionasse alla perfezione, poi, a posteriori, ripensandoci, sembra quasi sia impossibile che sia capitato proprio a te. Di solito mi rimane la sensazione del palco, il momento dell’esibizione per me è il fulcro di tutto, vivo per quello, per quei 45 minuti in cui sono io al 100%, in cui mi connetto con le persone, con me stesso, in cui lascio uscire tutto.
Scrivendo sempre cose che mi riguardano in prima persona diventa assolutamente un momento catartico. Poterlo condividere con artisti che ti hanno spinto a fare quello che fai, ad essere quello che sei, diventa il coronamento di un percorso nel quale hai sempre cercato il tuo “posto” nel mondo, lì capisci che quel “luogo” che ti sei costruito é sicuramente il “posto” giusto”.
Oltre alla tua attività solista, hai avuto modo di collaborare con membri ed ex membri di Ian Hunter, The Boys, UK Subs, Vibrators, Capt. Sensible, Nikki Sudden, Dogs D’Amour… Quale è l’insegnamento principale che hai ricevuto collaborando con musicisti di questo livello?
“Non riesco a trasmettere in poche righe tutte le piccole e grandi cose che ho imparato stando a stretto contatto con certe persone per tanto tempo e comunque non ci sono parole che possano valere “l’ esempio”. Sono fermamente convinto che per imparare e metabolizzare le cose oltre che spiegate vadano viste e vissute. Sono stato fortunatissimo a poter condividere per tanti anni sala prove, concerti, tour o anche semplicemente la vita quotidiana con tante persone, non solo di talento cristallino, che mi hanno subito accettato e coinvolto nei loro progetti. In particolare non posso non citare Honest John Plain e Darrell Bath che per me sono due figure fondamentali di riferimento, due compagni di gruppo e due membri acquisiti della mia famiglia. Amici di poche parole che lasciano che i fatti parlino per loro”.
Ci racconti quale è la cosa più “Spinal Tap” che ti è capitata in tutti questi anni on the road?
“Ovviamente non posso fare nomi, ma ti giuro ne ho viste e vissute tantissime:
Ex membro di una delle band più famose del mondo discute animatamente con la madre al telefono tentando di offrire un giro alla comitiva di fan di turno. Quest’ultima preoccupata per le sue inclinazioni tossiche aveva bloccato tutte le sue carte di credito. La serata del divo proseguirà terrorizzando commesse di nota catena di calzature che dopo l’orario di chiusura si erano trattenute a fare l’inventario. Interessato ad un paio di scarpe in vetrina, il divo, penserà che tentare l’effrazione non sia assolutamente una cattiva idea.
Diverbio tra notissimo maudit del rock inglese e gestore di locale ex professionista della pallacanestro. A fronte di una divergenza di vedute sul cachet, volano maledizioni zingare, in una finta lingua che il maudit inventa lì per lì, asserendo di discendere da una potentissima stirpe zingara di fattucchieri, questo mentre il cestista lo tiene attaccato al muro per il bavero a circa 15 cm da terra.
Una malcapitata viene attirata in un affollato tour bus da romanticissimo ex piacione, questo, non riuscendo a venire al dunque nei tempi che riteneva adeguati, per levarsela dalle scatole estrae confezione caserma di preservativi e gettandoli in aria in direzione del resto dei presenti grida “PARTY TIME!”. La poveretta terrorizzata batte ogni record di scatto per fuggire a quello che nella sua mente si prospetta come l’incipit di un baccanale.
Chitarrista, membro fondatore di band americana in pieno reunion tour, tour pubblicizzato a suon di “siamo fratelli nel rock”, “siamo la vera famiglia che non abbiamo mai avuto”, si tira nero, suona uno show patetico, danneggia la backline per poi essere abbandonato dal resto della band, senza passaporto e fatto come una pantegana, nel parcheggio deserto di un locale disperso nell’ hinterland milanese.
Band scandinava di medio successo suona con sovra scarpe stile carnevale che imitano nota marca di stivali da cowboy, nascondendo in realtà ciabatte stile capo reparto d’ospedale e ti giuro potrei continuare almeno per un paio di serate”.
Come vedi l’attuale scena hard rock italiana? Quando senti parlare di hard rock e saltano fuori i Maneskin, ti prende l’orticaria, o…..?
“La scena rock and roll italiana ha, come sempre, tante ottime band puntualmente ignorate, faccio qualche nome a braccio: Small Jackets, Lu Silver, Temporal Sluts, Crooks, Brokendolls, Peawees, Stinking Polecats, Faz Waltz, Giuda, Midnight Kings, Boogie Spiders, Radio Days, Diplomatics, Los Fuocos questo solo tra i “vecchiardi” della scena, tra i più giovani o tra le formazioni più recenti Mad Rollers, Cabin Fevers, Supersonic Deuces, Sandness, Speed Stroke, Loyal Cheaters, Mad Dogs, Castrol, Deliquents, Superhorror e tutto questo così all’ impronta, figurati che lista ci verrebbe se ci pensassi un attimino. La mia opinione sui Maneskin non conta nulla, oggi contano i numeri e i numeri danno ragione a loro. Alla luce di questo, come non accendere la miccia di una bella polemica? Potrei mai privarti di questo piacere? Ecco che arriva la mia totalmente irrilevante opinione, senza filtri, su questa band italiana:
Mi fa piacere che ragazzi così giovani vivano il sogno di essere in una band che muove grandi numeri, personalmente non li trovo una band che incontra i miei gusti, sicuramente è un mio problema.
Premetto che: nella mia vita avrò venduto 10.000 copie se metto assieme tutto quello che ho pubblicato in 20 anni di attività, ho perfettamente coscienza di chi sono e dove sono, non credo assolutamente né ho mai creduto di avere le qualità per impormi nell’ Olimpo del rock, sono completamente in pace con il signor nessuno che sono.
Adesso, chiarito questo, da fruitore di rock da quasi tre decadi, mi sia concesso, che questi ragazzi mi sembra non abbiano tutta questa stoffa adamantina. Certo sono giovani, ma che dischi facevano alla loro età Beatles, Stones, Who, Small Faces, Kinks, Zeppelin, Hendrix, Cream, Purple, Sabbath, Velvet, Mc5, Stooges, Alice, Aerosmith, Kiss, Ramones, Misfits, Pistols, Clash, Judas, Iron, Lizzy, Van Halen, Crue, Metallica, Guns, RHCP, Jane’s Addiction, Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, RATM, devo continuare? La proposta degli RHCP, il look delle ballerine di ‘Aeroplane’, il concept del video di ‘Soul To Squeeze’ messo a colori per ‘Morirò da Re’, sostituire al funk e all’ hip hop influenze reggae e mediterranee, una cover dei ‘Four Seasons’, ne fanno una new sensation irresistibile? Sicuramente, ma gli dona anche un talento ed un rilievo artistico che non può essere messo in discussione pena shitstorm di proporzioni inusitate? Mi fa piacerissimo che ispirino tanti ragazzini, che li invoglino ad approcciarsi alla “musica suonata” ma, sparo completamente a caso, anche i No Doubt gasavano i ragazzini e questo ne ha fatto necessariamente dei pilastri del rock and roll? Anche qui con massimo rispetto per Gwen Stefani e soci, che comunque col fratello di lei avevano una storia, una gavetta, venivano da una scena, collaboravano con altre band come i Sublime ecc. I Maneskin che scena rappresentano? La loro gavetta qual’é? Il loro Cavern, il loro Cbgb’s, il loro Starwood qual’é? Il sostrato da cui provengono? L’ istanza generazionale che rappresentano? La scena che hanno rivelato al mondo come storicamente hanno fatto tutti i grandi prime mover dov’é? Se non sono dei prime mover da che movimento partecipato fuoriescono? Le etichette che si scazzottano per mettere sotto contratto altre band della stessa scena che ne condividono questo nuovo sound irresistibile dove sono? Spero tutto questo non suoni come un panegirico da “boomer”, giuro che mi fa piacere per loro, ma semplicemente quello che vedo non é rock and roll.
Sicuramente sbaglierò, mi sembra che ai Maneskin manchi quel tipo di esperienza condivisa che trovo fondativa perché una cosa sia “rock” e che, personalmente, mi fa percepire “rock and roll” anche contesti apparentemente lontani ma con un vissuto analogo come Afrika Bambaataa e i Run Dmc, piuttosto che Bob Marley e Jimmy Cliff, piuttosto che il movimento black metal, piuttosto che il movimento hard core. Tutte cose che non incontrano i miei gusti musicali, ma che me li fanno percepire fortemente “rock”. Sicuramente sbaglierò di nuovo, ma mi sembra la band in questione sia un prodotto commerciale efficacissimo ma non rock and roll.
In compenso vedo, con rammarico, tanti musicisti fuori età massima che si spendono in lodi sperticate, inneggiando ad una rinascita del rock made in Italy, tutto ovviamente per mero tornaconto personale. Convinti che a 50 anni, dopo 25 di divano nei quali hanno disimparato a suonare, non hanno prodotto niente, sono ancora meno ispirati che a 20, sia arrivato finalmente il loro momento perché finalmente il “rock” é tornato di moda.
Chiudo, facendo una considerazione generale e non necessariamente sui Maneskin, che, nella mia esperienza, le cose non cadono dall’alto, si costruiscono dal basso e se non sono un fuoco di paglia non si fanno perché senti il bisogno di farle, se arriva la botta di fortuna e va bene ottimo, ma non é mai il motore ed fine ultimo del “baraccone” e non lo dico solo io, riporto anche quello che ho sentito in prima persona da gente che la storia della musica l’ha fatta veramente.
Ovviamente non è bello ciò che bello ma è bello ciò che piace e con questo vedi bene che tutto quello che ho detto fin qui perde immediatamente di significato, citando Martin Mull “Scrivere di musica è come ballare di architettura”. Ascoltate quello che volete, se vi fa stare bene, va bene”.
Quale è per te il momento più alto toccato da te e dalla tua band in questi 20 anni?
“A me piace suonare dal vivo le mie cose, se il contesto è giusto e le persone reagiscono in maniera positiva, si innesca un circolo virtuoso dove più loro si divertono più lo faccio anche io caricandoci a vicenda.
Ho tanti ricordi bellissimi, momenti in cui ti sembra di vedere un film e non riesci a credere che quella sia la tua vita: una data a Barolo in apertura agli Offspring con 10.000 presenze, pubblico caldissimo che non conosceva i miei pezzi e già al secondo ritornello li cantava con noi, un’apertura ai Backyard Babies al Sottotetto di Bologna con un locale stracolmo di gente e quasi tutti amici, un New Age a Treviso “piombato” di spalla agli L.A. Guns, una ‘Strutter’ assieme a Kulick e Corabi ai Candelai di Palermo, un sold out al Wild at Heart di Berlino assieme ai Church of Confidence, un sold out a Londra al The Lounge, le Cretin Hop assieme a Richie Ramone nel tour del 2017 come vedi è difficilissimo scegliere.
Sicuramente quest’ultimo compleanno in piazza a Castelnuovo Rangone, assieme a Marky Ramone, di fronte a circa quattromila persone di cui un paio di migliaia di facce conosciute è veramente stata una delle cose più belle che mi siano mai capitate”.
C’è invece stato un momento in cui avresti voluto mandare tutto a fare in culo e chiudere i battenti, tenendo conto che hai scelto una strada, quella del rock in Italia, non certo agevole?
“Tutti i giorni, più volte al giorno, é dura Fabio, è sempre più dura. Continuo a gestire sia la parte artistica, che organizzativa completamente da solo, il mercato è in una recessione che non sembra finire ormai dall’ inizio del nuovo millennio. Figure professionali, locali, gruppi e pubblico scompaiono di anno in anno. I momenti di stanca sono sempre più frequenti, poi, magicamente, alla fine, vince sempre la passione”.
Come vedi Lester Greenowski tra vent’anni?
“Spero di essere appassionato, tanto quanto lo sono di musica, anche di qualcosa che mi dia una sicurezza economica più solida e di riuscire a farlo con lo stesso entusiasmo ed energia, giusto per aver l’opzione di non essere costretto ad esibirmi anche nel momento in cui non me lo senta davvero”.
Abbiamo parlato di pubblicazioni per celebrare i tuoi 20 anni di carriera… mentre a livello live? Qualcosa in programma?
“Come ti dicevo abbiamo appena suonato due date assieme a Marky Ramone a Modena e a Torino. A settembre partirò per un paio di settimane in giro per l’ Europa, nel frattempo faremo qualche uscita nei soliti club del “giro” se avete voglia noi, come sempre, vi aspettiamo”.
A te la possibilità di concludere come meglio credi, anche togliendoti qualche sassolino dalla scarpa (dopo 20 anni ci sta…)
“Grazie Fabio, direi di aver ampiamente “vuotato il sacco” precedentemente, grazie davvero del tempo e dello spazio. Un abbraccio a tutta la redazione, tanti di voi li leggo da almeno 25 anni e ti giuro stavolta é una di quelle volte in cui mi sono emozionato”.