Jerry Cantrell – Il lume del Rock

Il 29/10/2021, di .

Jerry Cantrell – Il lume del Rock

Chiaramente il nome Jerry Cantrell non ha bisogno di grandi introduzioni. Il suo percorso e la sua storia musicale parlano da sole e ci si potrebbe tranquillamente produrre una serie TV di grande successo, tanti e tali sarebbero gli episodi da narrare. È stato un percorso difficile, pieno di gloria e successo ma anche di ostacoli, tragedia, dipendenza, depressione e morte. La storia di Jerry è partita subito in salita, con il divorzio dei suoi genitori e la successiva perdita, in un arco temporale di pochi mesi, della nonna e della madre, le due donne con cui aveva vissuto fino a quel momento, sostanzialmente la sua famiglia.
Poi sono arrivati in ordine una durissima gavetta, i primi successi musicali con gli Alice In Chains e le dolorose scomparse di alcuni tra i suoi migliori amici, Andrew Wood, indimenticato lead singer dei Mother Love Bone, nel 1990 alla tenera età di ventiquattro anni per overdose, e ovviamente Layne Staley, nel 2002, a trentaquattro. Ma non solo loro, e non solo per la maledetta droga. Il destino si è portato via altri amici lungo il cammino, come Dimebag Darrell, per mano di un pazzo, poi a seguire Chris Cornell, e infine Chester Bennington, entrambi per depressione, altra malattia terrificante che spesso non dà scampo quando si insinua e prende il controllo della vittima di turno.
Jerry stesso ha dovuto combattere duramente contro i suoi “demoni interiori”, ma fortunatamente ha trovato la luce alla fine del tunnel, e ne è uscito vincitore; a cinquantacinque anni e con una vita lunga ancora davanti, si ha quasi l’impressione che il chitarrista degli Alice In Chains abbia tutta la voglia di mettere questi brutti pensieri alle sue spalle.
Da cui, forse, il titolo del nuovo disco da solista ‘Brighten’, che in inglese significa letteralmente “to make brighter” o “to make more cheerful”. Trattasi per la precisione di verbo transitivo, che richiede quindi un complemento oggetto, che ovviamente, in tipico Jerry-style, rimane non identificato/definito. Quando si tratta di spiegare o approfondire i concetti dietro la sua arte si sa che Jerry è di poche parole e che preferisca che l’ascoltatore ci metta del suo per dare un significato a quello che sta percependo. Io ci sto a questo gioco, e allora dico che per me ‘Brighten’ significa che la vita può essere difficile, ma sa essere al contempo anche piena di luce, e che nonostante tutte le perdite e la sofferenza che in alcuni momenti la vita può riservarci, ci sono mille e più validissimi motivi e ragioni per lottare per raggiungere quella luce alla fine del tunnel, anche per dare un senso al sacrificio di tutti quelli che non ce l’hanno fatta.
Passando alla musica… ‘Brighten’ rappresenta il terzo parto da solista di Jerry Cantrell, a distanza di quasi vent’anni dal lavoro precedente, ‘Degradation Trip’. Prendendo a riferimento il materiale degli Alice In Chains, il lavoro da solista di Jerry gli dà l’opportunità forse di spaziare un pochino, attingendo da svariati generi musicali, che vanno dal folk al blues al southern rock. Come da titolo, il mood è decisamente più “leggero” rispetto a quello che ti aspetteresti da un album degli Alice In Chains. Anche gli strumentisti convocati per questo progetto sono di prim’ordine, come vedremo nel corso della nostra gradevolissima chiacchierata con Jerry, che non potrebbe non esordire con un rapido commento sui risultati della NFL della sera prima (il sottoscritto condivide questa passione con Jerry, che, similmente al suo grande amico Duff McKagan con il quale vede le partite tutte le domeniche, è un grande tifoso dei Seattle Seahawks…).

Allora Jerry, sei ancora incazzato per la sconfitta dei Seahawks di ieri?
Lasciamo perdere… ero alla partita insieme al mio amico Tyler Bates (co-produttore insieme allo stesso Jerry di ‘Brighten’, anche noto compositore cinematografico, ndr.) e persino lui non riesce a credere che i suoi Titans abbiano vinto la partita! Pazzesco…

Allora Jerry, passando al nuovo album, io l’ho ascoltato un paio di volte prima di quest’intervista, e sinceramente trovo che il titolo sia azzeccatissimo… è un disco tutto sommato quasi allegro rispetto ai tuoi standards! Mi sembra nel complesso un disco “leggero”, senza troppi fronzoli o concepts di fondo, semplicemente una buona collezione di rock tunes concepiti ed eseguiti con leggerezza e in piena libertà.
Sì, condivido in gran parte quello che dici ed il senso del titolo è proprio quello, inoltre ‘Brighten’ è anche la mia canzone preferita del disco. Credo che da sempre il trademark del mio stile compositivo sia quello di giocare e intrecciare diverse dosi di oscurità e luce nella musica, transitando magari da un passaggio musicale particolarmente cupo ad uno decisamente più leggero, questo mi piace molto, giocare con le piccole sorprese. Chiaramente questo mio stile compositivo è pienamente riflesso nel nuovo album, e la musica, pur essendo generalmente un rock and roll piuttosto basico e disimpegnato, è accompagnato comunque da testi che non sempre sono particolarmente “allegri”, anzi direi decisamente il contrario! Leggevo proprio recentemente un’intervista di Sting che rifletteva sulla musica dei Police e il contrasto significativo tra il mood della loro musica, decisamente “vivo” e carico, con quel mix di punk, pop e reggae, ed i testi che accompagnavano le canzoni, che spesso contrastavano fortemente con la musica stessa, esprimendo cupezza, negatività e cinismo. Questo mi piace molto, mi piace la presenza di entrambi i fattori nella musica, che può essere quindi ascoltata ed interpretata sotto diverse luci, anche contrastanti, perché in fondo anche la vita è così: spesso la vita non è semplicemente bianco o nero, ci sono sempre i due lati della medaglia…

Oltre ai due ottimi video mi ha anche colpito molto la canzone ‘Had To Know’, decisamente un rock tune che non può non mettere di buon umore…
Sì, è una delle mie preferite dell’album! Sono contento di tutto il lavoro, nel suo complesso, ma ovviamente ci sono alcune canzoni che “pesano” di più, che sarebbero le prime due e poi a seguire ‘Had To Know’ sicuramente. Sai, mettere insieme un nuovo album per me è sempre un po’ come una nuova avventura, come avventurarsi nelle lande selvagge! Non puoi e non vuoi fare affidamento su quanto già fatto in passato, quindi non sai mai dove ti porterà la strada che intraprendi. Io non ero partito con un obiettivo preciso, non lo faccio mai quando inizio un processo compositivo, ma per questo disco ero affiancato da musicisti straordinari, come Jordan Lewis e Vincent Jones alle tastiere e pianoforte, e Michael Rozon alla chitarra “pedal-steel”, che hanno aggiunto elementi al mix che non utilizzo abitualmente, ma che sono di forza entrati nella formula finale. I loro strumenti sono tipici di musica blues/rock/country, quindi tramite il loro contributo ed impatto il risultato finale è un album divertente, pieno di rock n roll tradizionale ma anche di molto altro, sicuramente non un album metal ma non per questo meno di sostanza!

Una cosa che sento tantissimo sono le influenze dei vecchi e mai dimenticati Lynyrd Skynyrd!
Ah senza dubbio! Il buon vecchio southern rock è chiaramente una delle mie influenze principali.

Un altro aspetto che mi piace tantissimo è che i tuoi assoli non sono “stressati”, spesso sono brevi ed intrecciati o alternati con altri assoli o stacchi di tastiere, mai fini a se stessi e a pieno servizio del mood della musica, e non finalizzati a mettere in mostra le tue spiccate doti tecniche, che peraltro già conosciamo ampiamente attraverso il tuo lavoro con gli Alice In Chains.
Guarda, su questo disco non ci sono pippe mentali o forzature super-tecniche di alcun tipo! Questo disco è “song-centrico”, è pienamente incentrato sul contenuto musicale. In alcune canzoni il mega assolo ci sta bene, e allora ben venga, ma in molte altre il contributo della chitarra è solo finalizzata al layering con gli altri strumenti, all’aggiunta di colore e melodia, poche note scelte, sparse qui e lì. Ecco, direi che “song-centrico” sia la migliore definizione per questo nuovo album.

Sono rimasto spiazzato dalla selezione della cover di Elton John a chiusura dell’album. Confesso che non la conoscevo, ma dato il mood dell’album mi aspettavo una delle sue canzoni più leggere e melodiche, e invece mi sono trovato con una cupissima ’Goodbye’.
Sì ma c’è anche un po’ di luce in quella meravigliosa canzone! Elton John rappresenta una delle mie principali influenze, ascolto e amo la sua musica da più di quarant’anni, e ritengo che questa sua influenza, nello stile del songwriting e nell’emozione pura che mi trasmette la sua arte, sia pienamente riflessa, insieme a tutte le mie altre principali influenze, in ‘Brighten’. Ecco, diciamo che su questo disco le radici dell’albero sono un pochino più esposte e visibili rispetto alle produzioni targate Alice In Chains. Puoi sentire e percepire chiaramente quali siano le cose che ho ascoltato crescendo, cosa mi abbia influenzato come compositore, gli artisti che sono sati importanti per me.

A me personalmente ha fatto particolare piacere la tua scelta di fare una cover di Elton John perché forse dà l’opportunità ai ragazzi più giovani di conoscere meglio una delle figure musicalmente più influenti del rock degli ultimi cinquant’anni, e mi riferisco in particolare al movimento glam rock degli anni Settanta. Mi risulta che, ma è chiaramente evidente anche dal modo in cui si conciava e si presentava sul palco, Elton John fosse una grandissima influenza per Andrew Wood dei Mother Love Bone, uno dei tuoi migliori amici di gioventù.
Sì, ma non solo lui: pensa che il primo concerto al quale ha assistito Layne Staley era uno di Elton John, giusto per dare un’idea della grandezza e il peso in termini di influenza esercitata da questo immenso artista. Anche Layne era un suo grandissimo fan…

Tornando al disco, e parlando del cast di fantastici musicisti di cui ti sei circondato per l’occasione, ho visto che ci suona anche Duff McKagan. Essendo anche lui di Seattle immagino che siate anche buoni amici.
Duff è un fratello per me…lui è un musicista straordinario ed è stato una grande influenza per me sin da prima ancora che lo conoscessi. Quando abbiamo deciso di rimettere in moto gli Alice In Chains e abbiamo portato dentro William Duvall, lui è stato come il quinto membro della band! È venuto in tour con noi come secondo chitarrista.
Lui è una figura super-positiva e sempre di grande spinta e supporto. Io ho finito di scrivere il materiale per il disco intorno a marzo e avevo già sistemato le track di batteria con Gil Sharone, prima dell’inizio del shutdown. Dopodiché chiaramente si è bloccato tutto e ho dovuto mettere la produzione in sospeso. Intorno ad aprile ho invitato Duff da me per ascoltare il materiale e per fargli contribuire le parti di basso su una o forse due canzoni, ma più andavamo avanti e più gli piaceva il materiale! Alla fine ha suonato su cinque o sei canzoni. Non credo fosse la sua intenzione iniziale ma lui è fatto così!

Sentire questi racconti fa ancora più piacere, considerando che Duff è uno dei più famosi “sopravvissuti” di quegli anni bui di eccessi e di dipendenza, ed avere una prova tangibile che se ne possa uscire in maniera positiva ritengo possa essere di grande esempio ed ispirazione per altri che ci stanno dentro.
Diciamo solo che ho avuto la fortuna e il privilegio di avere un nucleo stretto di amici veri che ammiro immensamente e che hanno affrontato i loro ostacoli con grandissima determinazione ma anche con classe, che mi hanno accompagnato nel mio percorso di crescita e che ci sono sempre stati per me, dandomi sempre i giusti consigli. Tra questi ci sono Chris De Garmo, Sean Kinney, Tyler Bates e ovviamente anche Duff.

Tornando alla scena di Seattle degli inizi anni Novanta, è incredibile pensare alla concentrazione di talento emersa da quella zona in un periodo temporale così breve. Voglio dire, pensando a figure come Chris Cornell, Layne Staley, Andrew Wood, Kurt Cobain, Jerry Cantrell, Dave Grohl… come ti spieghi un fenomeno simile? Eppure stiamo parlando di Seattle, non di LA o NYC, quindi non stiamo parlando di una città dove un musicista ci si trasferiva per la vivacità culturale…casomai a quei tempi la gente ci scappava da Seattle…come ha fatto lo stesso Duff McKagan ad esempio…per salvarsi dalla sua dipendenza dalla droga.
Beh, ovviamente non ho una risposta…quello che posso dire è che io sono nato e cresciuto a Seattle, e sono contento e ne vado fiero. Questa è da sempre una zona particolarmente recettiva verso ogni forma d’arte, e la musica in particolare a Seattle è sempre stata celebrata in modo importante. Paradossalmente, anche il fatto che Seattle sia un po’ fuori dai percorsi tradizionali e non sia, o meglio dire non fosse, una mecca dell’entertainment, probabilmente ha incentivato ed agevolato in qualche modo l’emergere in modo spontaneo di nuove forme di musica autentiche. Dopo aver fatto un breve tentativo di avviare un percorso universitario, durato solo un semestre, mi sono trasferito con un amico in Texas. Al mio ritorno a Seattle, dopo un anno, ho cominciato a entrare in contatto con molti altri musicisti, tutti di grande talento. Era un periodo di grande fermento, sembrava che tutti suonassero in una band, ed avevamo tutti più o meno la stessa età e frequentavamo gli stessi locali, visto che non c’erano troppi locali dove ci si poteva esibire dal vivo. Suonavamo ovunque: oltre ai locali tradizionali, anche nei bar, nelle palestre, alle feste e così via. Quello che posso dire è che sono fiero e contento di aver fatto parte di quella scena, di quel movimento, e celebro ancora oggi con la mia musica la storia e la “legacy” di quel periodo e di quella comunità di musicisti.

L’altra cosa che colpisce ripensando a quella scena è la varietà degli stili delle band che emersero in quel periodo… voglio dire, stiamo parlando di tutte band di ottimo livello, ma molto diverse stilisticamente tra di loro. Basti pensare ai nomi Mother Love Bone, poi Pearl Jam, Screaming Trees, Soundgarden, Alice In Chains, Nirvana…tutte ottime band ma con uno stile e caratteristiche ben precise e uniche.
Credo che ci fosse una sana competizione tra le band a quei tempi. Tutti avevano fame e voglia di emergere, ma si puntava all’originalità, si faceva uno sforzo per portare nuove idee piuttosto che copiare quelle degli altri. Ogni band era molto brava a fare quello che faceva, quindi nessuno aveva voglia di copiare l’altra. C’era voglia di sorprendere, non di replicare. Ognuno di noi ha ispirato l’altro, e così siamo cresciuti insieme sia musicalmente che come individui.

Tornando ai giorni nostri…conti di portare ‘Brighten’ on the road?
Assolutamente sì! Abbiamo appena fissato una serie di date negli USA tra marzo e maggio 2022. Dopodiché vediamo come si mettono le cose con la pandemia e casomai cerchiamo di fare un salto anche in Europa.

Andare in tour come Jerry Cantrell dev’essere anche divertente perché ti dà l’opportunità di esibirti davanti a pubblici più piccoli e locali più intimi rispetto alle solite arene che affronti come Alice In Chains.
Ah, per me va tutto bene…posti piccoli, enormi e tutto quello che c’è nel mezzo…va bene tutto. Se tu hai modo e voglia di venirmi a vedere dal vivo io farò del mio meglio per mettere su uno show degno di tal nome, questo te lo posso garantire, che sia davanti a 300/400 persone o che siano decine di migliaia.

OK, ho un’ultima domanda per te: tempo fa ho visto una tua intervista su che fa parte di una serie di interviste dal titolo ‘Icons’, svolte da parte della Gibson…alle tue spalle c’è una collezione di migliaia di vinili…è tua?!?
Ahahaha! Sei la terza o quarta persona che mi ha fatto questa domanda negli ultimi giorni! No, non è la mia collezione! Bella però, vero?

È pazzesca…beh ti avrei chiesto qual è il vinile più prezioso di quella collezione. Ma visto che non è la tua, allora ti chiedo di dirmi un vinile speciale per te.
Beh, ovviamente ce ne sono tanti…allora tanto vale tornare la mio primo. Al ritorno da un lungo viaggio in Korea mio padre si presentò a casa con una cassa piena di dischi, io ero solo un bambino, lui tirò fuori una copia di ‘Greatest Hits’ di Elton John e mi chiese se la volevo e io gli risposi entusiasta di sì!

E come si suol dire in questi casi: il resto è storia…

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