Accept – Heavy metal breakdown!
Il 18/02/2021, di Nick Guglielmi.
Ebbene sì, è stato un lungo viaggio… e non è ancora finito! È uscito in questi giorni il sedicesimo lavoro full-length in studio dei teutonici Accept capeggiati dall’instancabile Wolf Hoffmann, unico membro fondatore rimasto in formazione dopo l’inaspettata e sofferta dipartita di Peter Baltes un paio di anni fa. La storia più o meno la conosciamo tutti: l’esordio nel lontano 1976, il periodo d’oro e i successi degli anni Ottanta, la prima dipartita del vocalist Udo Dirkschneider e il conseguente, goffo tentativo di commercializzazione a fine anni Ottanta, il rientro di Udo per i primi anni Novanta e poi il lungo stop fino al 2010. Una decina d’anni fa Wolf ha deciso di rimettere insieme la vecchia banda, al netto di Udo ovviamente, con un nuovo cantante e con un’energia rinnovata, e i risultati sono stati sorprendentemente positivi, con prolificità addirittura superiore a quella degli anni d’oro. Wolf sembra aver capito che se la formula funziona conviene non fare troppi esperimenti, e così gli Accept ci hanno abituato a prepararci per le loro uscite sapendo esattamente cosa riceveremo, nel bene e nel male. È in questo contesto che si inserisce il nuovo album ‘Too Mean To Die’, il cui titolo Wolf ci garantisce non essere riferito in alcun modo alla pandemia…
Allora Wolf, siamo arrivati al sedicesimo! Sei contento del lavoro svolto sul nuovo album?
“(Wolf Hoffmann) Sì, sono molto contento del risultato finale! Nulla di stravagante o drammaticamente innovativo, ‘Too Mean To Die’ è il tuo tipico album targato Accept, con qualche novità soprattutto per quanto riguarda la formazione. L’album non affronta alcuna tematica in particolare, la gente spesso mi chiede quale sia il tema di base o se si tratta di un concept album: non lo è! Si tratta solo di una raccolta di canzoni nelle quali crediamo. Il titolo ‘Too Mean To Die’ non ha alcun significato nascosto o secondario, è semplicemente un titolo divertente che secondo me rappresenta bene il mood del disco. In passato abbiamo scritto canzoni intitolate ‘Pandemic’ e ‘The Rise Of Chaos’ che forse avrebbero rappresentato meglio i giorni che stiamo vivendo, ma secondo me la gente ne ha già abbastanza del COVID-19 e di tutta questa situazione senza che glielo ricordiamo anche noi! Diciamo che abbiamo optato per dare ai fans un album di heavy metal da godersi e per distrarsi e rilassarsi, senza troppi pensieri: bastano quelli che già dobbiamo affrontare tutti i giorni ultimamente…”
Come posizioneresti il nuovo album rispetto ai lavori passati?
“Mah, negli ultimi giorni ho raccolto un po’ di commenti interessanti… molti mi dicono che ricorda ‘Blood Of The Nations’, il primo album post-reunion, altri mi dicono che il materiale è molto vario; quello che posso dirti io è che noi non partiamo mai con un’idea precisa di come vogliamo impostare il lavoro, diciamo che ci facciamo portare per mano dalle canzoni e andiamo dove ci portano.”
Sì, condivido che ci troviamo di fronte ad un tipico lavoro targato Accept, ma mi ha comunque colto di sorpresa la strumentale finale (‘Samson And Delilah’): ce ne parli un pochino?
“Chiaramente la canzone deriva dalla musica classica, che è una mia grande passione che spesso è al centro dei miei lavori da solista. Insomma, avevo questa canzone su cui avevo lavorato negli ultimi tempi e Andy Sneap ne era al corrente, ed è stato lui a suggerire il suo inserimento nel nuovo album, per aggiungere un po’ di colore e per fungere diciamo da outro per il disco. Mi piace perché nonostante la chiara derivazione classica, la canzone rimane comunque molto heavy e secondo me si amalgama bene con il resto del lavoro. Nella sostanza, rappresenta una continuazione di un filone che sto portando avanti oramai da decenni.”
Sei nel business da quasi mezzo secolo ormai, eppure agli inizi probabilmente non pensavi o speravi che avresti trascorso quasi tutta la tua vita a portare avanti gli Accept: qual è stato il momento in cui hai capito che ce la potevate fare, che la band stava diventando un progetto importante, di lungo termine?
“Beh, devo dire che il disco che ha cambiato tutto per noi è stato sicuramente ‘Balls To The Wall’, quel disco ci ha posizionato sulla proverbiale mappa e ci ha dato quella spinta necessaria per permetterci di cominciare a fare sul serio e pensare in grande. Confesso che quando abbiamo finito il disco abbiamo avuto subito la sensazione che avevamo fatto qualcosa di speciale.”
Come ti senti ad essere il “sole survivor” della vecchia guardia, ora che Peter Baltes ha lasciato la band? Come ti ha impattato la sua dipartita, sia personalmente che musicalmente?
“All’inizio mi ha colpito molto, non solo perché io e Peter siamo amici dall’inizio di questo lungo viaggio, ma anche per il modo improvviso ed inaspettato in cui è successo. Noi della band avevamo percepito che c’era qualcosa che non andava con Peter, come se il fuoco della passione non ardesse più dentro di lui, quindi non siamo stati colti totalmente alla sprovvista. Ma allo stesso tempo avremmo voluto affrontare il tema insieme, avere l’opportunità di parlarci, piuttosto che trovarci davanti al fatto compiuto. Resta il fatto che lui ha deciso così per suoi motivi personali, quindi non ci resta che accettare la sua decisione e andare avanti. Cosa altro puoi fare? Ognuno ha la propria vita e prende le proprie decisioni. Ma sicuramente è stato un momento triste per me, dopo quaranta anni. Ma come spesso accade, le storie tristi hanno anche un lato positivo, e in questo caso il lato positivo è che abbiamo una persona nuova nella band che è fantastica! Martin Motnik, il nostro nuovo bassista, è pieno di entusiasmo, e siamo contentissimi del suo ingresso. A dire il vero Martin mi ha sorpreso enormemente per il suo contributo al nuovo album: come al solito ho chiesto a tutti di partecipare con eventuali idee per la musica e ho scoperto che lui ne aveva parecchie e si è inserito in modo molto naturale nei nostri processi compositivi. La verità è che io non vorrei mai vedere nessuno andare via dalla band. Quando abbiamo iniziato il nostro lungo percorso da ragazzini, a sedici anni, ci siamo giurati fedeltà eterna e di vedercela insieme fino alla fine, ma le cose non vanno mai così nella vita reale purtroppo… prima va via uno, poi va via un altro, e senza accorgersi di nulla si rimane da soli, come l’ultimo membro fondatore! Non l’avevo immaginata così la storia, ma così è andata, e io ho semplicemente fatto del mio meglio per mantenere il treno sulle rotaie ed in costante movimento, e giudicando dai pareri positivi che stiamo raccogliendo anche sull’ultimo album credo di esserci riuscito abbastanza bene!”
Be’, allora te lo devo chiedere: riesci ad immaginare una versione degli Accept senza Wolf? Questa è una domanda che mai avrei immaginato potesse essere rilevante per alcuna band, ma d’altra parte mai avrei immaginato che dopo quaranta anni saremmo ancora stati qui a commentare un nuovo album degli Accept! Alcune band hanno resistito talmente bene all’usura del tempo che passa, che siamo ormai arrivati al ricambio generazionale con le band ancora a pieno regime! Mi vengono in mente ovviamente i Judas Priest: chi avrebbe potuto mai immaginare una loro incarnazione senza K.K. Downing e senza Glenn Tipton? Eppure ci sono riusciti, e mi verrebbe da dire con ottimi risultati, anche se a me personalmente fa sempre una certa impressione vedere Richie Faulkner e Andy Sneap alle due chitarre…
“Confesso che non ci avevo mai pensato! Nel senso che non mi sono mai posto il problema, finché godrò di buona salute e continuerò a divertirmi e ad avere lo stesso entusiasmo, andrò avanti, poi si vedrà. Potrebbe funzionare una formula in cui passo l’eredità a qualcuno? Non lo so, chi può dirlo? La verità è che solo i fans potrebbero decidere una cosa del genere: se loro accettassero allora funzionerebbe, altrimenti no. È vero che molte band risultano stravolte rispetto alla loro incarnazione originale, ma finché i fans esprimono apprezzamento per la musica allora si può dire che la formula funziona e ha senso andare avanti. Quando i fans decidono che è ora di calare il sipario, allora quello è la vera fine.”
Tornando alla band attuale, mi parli del recente ingresso del terzo chitarrista, Philip Shouse?
“Mah, non è stata proprio una cosa voluta o cercata, piuttosto frutto del caso; Phil ha lavorato con noi un paio d’anni fa in tour sostituendo Uwe Lulis per una serie di date speciali con un’orchestra in Europa. Suonavamo un po’ di canzoni classiche pescate dai miei solo album più altre canzoni riarrangiate per l’orchestra, e Phil ha performato in modo straordinario! Tanto che alla fine del tour non avevamo più minimamente intenzione di fare a meno di lui, così abbiamo deciso di arruolarlo nella band come terzo chitarrista su base permanente, che porta anche una componente di maggiore flessibilità e possibilità di fare cose che con sole due chitarre non potremmo fare. Con Phil pienamente arruolato, abbiamo poi fatto una serie di shows con lui in Sud America prima che scoppiasse la pandemia, con tre chitarre le sensazioni sono state assolutamente fantastiche! Non vedo l’ora di tornare sul palco per rifarlo. Anche in studio la sua presenza è stata importante perché ci tenevo che lui fosse rappresentato, e che non fosse sempre il nome di Wolf Hoffmann come marchio su tutto. Gli abbiamo creato degli spazi in modo tale che si sentisse comodo nel suo ruolo e devo dire che l’impronta di Phil si sente eccome sul nuovo album. E probabilmente non è un caso che il nuovo album sia un po’ più “colorato” e vario rispetto agli altri nostri lavori recenti.”.
Logisticamente è stato complicato produrre il nuovo album a causa della pandemia? Mi sembra che un po’ tutte le band, in un modo o un altro, stiano sperimentando nuove formule e procedure per mettere fuori musica nuova. Come l’hai affrontato questo tema, tu poi che sei della “vecchia scuola” e che vieni da una lunga trafila di ben 15 album prodotti alla vecchia maniera?
“Be’, in realtà siamo stati fortunati perché come giustamente facevi notare noi siamo abituati a incidere e produrre i nostri album insieme, ed effettivamente circa la metà del lavoro è stato fatto proprio all’inizio dell’anno, prima dello scoppio della pandemia, dato che poi avevamo programmato un sacco di date live per il periodo estivo. Quindi le prime sei o sette canzoni le abbiamo registrate tra febbraio e marzo, con l’idea di finire il lavoro dopo il periodo di touring. Poi improvvisamente ci siamo trovati a dover cancellare tutte le date programmate, quindi ci siamo ritrovati con un sacco di tempo libero a disposizione, ma non si poteva più viaggiare! Quindi Andy Sneap, che produce i nostri album da un po’ di tempo, non poteva venire a Nashville per riprendere il lavoro. Per fortuna il resto del gruppo era a Nashville, quindi ci siamo organizzati a distanza con Andy, che da casa sua si collegava e ci guidava da remoto! E la cosa bella è che ha funzionato! Chiaramente ci siamo dovuti adattare alla situazione, ma è andata bene comunque. Chiaramente il fatto che avevamo già fatto metà album e che la persona fosse Andy, con il quale ormai abbiamo un rapporto consolidato, sono fattori che hanno agevolato il processo… Non sarebbe stata la stessa cosa se avessimo dovuto affrontare una situazione simile con qualcuno che non conosci benissimo.”
Quali sono i piani ipotetici per il 2021? Pensi che si potrà tornare “on the road” oppure prevedi di riprendere il touring nel 2022?
“Beh, per il momento abbiamo in programma la partecipazione ad una serie di festival estivi… e ovviamente mi auguro che il tutto possa realizzarsi, ma allo stato attuale non ci resta che sperare e incrociare le dita, nella speranza che i numeri migliorino e che presto si possa tornare a fare tutte le cose che amiamo fare!”
Saresti disposto eventualmente a ricorrere a soluzioni alternative sperimentate da così tante band ultimamente, tipo il live streaming?
“Diciamo che l’idea di suonare davanti ad una schiera di microfoni e videocamere e zero pubblico non mi entusiasma… infatti per il momento non ci abbiamo ancora provato. Credo che anche per i fans non sia il massimo. Spero di poterlo evitare, ma è pur vero che se questa situazione va avanti ancora per molto bisognerà pure che ci inventiamo qualcosa di diverso, ma io rimango fiducioso e spero di rivedervi tutti quanti molto presto on the road! D’altronde, me lo ripeto sempre: il meglio deve ancora venire…”