Autopsy – Death Metal Pioneers
Il 30/11/2020, di Nick Guglielmi.
L’intervista è lunga e tutti sanno che gli Autopsy sono tra i padri fondatori del death metal americano, quindi poche parole di introduzione. Le origini della band risalgono al lontano 1987, e dopo una “breve” interruzione dal 1995 al 2010 la band ha ricominciato da un decennio circa a produrre colonne sonore per accompagnare i vostri peggiori incubi. Ma il 2020 è speciale per i nostri amici californiani perché vede l’uscita del loro primo live album vero e proprio, nella forma di un doppio LP, intriso di vecchi classici e con anche qualche nuova chicca. La chiacchierata la facciamo con il mitico Chris Reifert, fondatore della band insieme a Eric Cutler (gli unici presenti in formazione sin dal primo demo del 1987), famoso anche per aver suonato la batteria sul primo disco di un gruppo della Florida semi-sconosciuto chiamato Death…
Allora Chris, partirei dal nuovo live album, che è uscito a fine ottobre. Siete contenti con il risultato finale?
“Beh, diciamo che siamo molto soddisfatti, ma il nostro piano originale era molto diverso sia per il live album sia per altre cose. Il 2019 è stato un anno pigro per noi: abbiamo suonato poco in giro e non abbiamo prodotto nuova musica. Allora pensavamo di compensare nel 2020: avevamo organizzato una serie di date in Europa, mi ricordo sicuramente Portogallo, Olanda, Londra, poi saremmo dovuti tornare negli USA e fare un’altra serie di date qui. Avevamo prenotato lo studio per giugno scorso e l’idea era quella di scrivere materiale per il nuovo disco, che sarebbe dovuto uscire il 30 ottobre, in base ai piani. In parallelo, avremmo registrato professionalmente tutti i nostri live shows del 2020 per raccogliere materiale sufficiente per pubblicare un bel doppio live l’anno prossimo, nel 2021. Perché noi non abbiamo mai pubblicato un disco live vero e proprio, ma solo qualche registrazione non professionale, diciamo al livello di bootleg. L’idea era quella di raccogliere tutte queste registrazioni live e poi mettersi nello studio e selezionare con calma tutte le prestazioni migliori da ciascuno show, e poi assemblarle insieme per formare il live. Il concerto di Chicago, che si è svolto il 7 marzo, quindi doveva essere il primo di una lunga serie, ma alla fine è rimasto l’unico! Perché poi siamo tornati nella Bay Area e, nel giro di due settimane, eravamo già in lockdown, e il resto della storia la conosciamo. Ma la cosa divertente è che mi ricordo chiaramente che quella sera a Chicago nessuno aveva idea di quello che stava per succedere… Certo, già si parlava un pochino di questo maledetto virus, ma mi ricordo chiaramente che eravamo tutti concentrati in questo piccolo locale, e c’era un continuo passaggio di birre e spinelli di mano in mano senza problemi! E devo dire che sono contento che non sapevamo nulla, perché la notizia avrebbe senz’altro rovinato il fantastico clima di festa di quella serata! In ogni caso, alla fine abbiamo risentito la registrazione del materiale e per fortuna tutte le canzoni, sia come registrazione che come esecuzione, erano di buona qualità. Perché sai, noi ogni tanto facciamo un po’ di casino quando suoniamo… poi io canto e suono la batteria, quindi questa cosa mette un po’ di pressione sugli altri membri della band, che stanno davanti a me e sono a contatto con il pubblico, e devono fare di tutto per sopperire alla mancanza di un frontman, correndo da una parte all’altra con i loro strumenti. Questo spesso si traduce in un po’ di confusione sul palco e quindi rischio di far casino anche nell’esecuzione. Ascoltare gli Autopsy dal vivo non è come ascoltare ‘Unleashed In The East’, dove fai fatica a capire se è un live album oppure se è suonato in studio! Ma il risultato è dignitoso e ne siamo contenti.”
Quindi cosa succede a questo punto al nuovo album? Come dicevi prima, l’uscita era programmata per il 30 ottobre, data poi trasferita alla pubblicazione del live, all’interno del quale tra l’altro compare una nuova track…
“Sì, sono molto contento che abbiamo deciso di inserire la nuova track, lo abbiamo fatto senza pensarci molto, più che altro perché suoniamo un sacco di roba vecchia, ci sono parecchie canzoni da “Severed Survival” nel set, tutta roba che ci piace suonare ma che la gente ha già sentito milioni di volte… allora abbiamo infilato la canzone nuova, e dico per fortuna, visto che a questo punto chissà quando saremo in grado di fare uscire il nuovo album. Spero presto, ma non abbiamo idea. Chiaramente a questo punto dobbiamo aspettare che la situazione migliori. Diciamo che il nostro approccio al COVID è quello di rimanere in sicurezza e non prendere rischi inutili. Per questo motivo non ce la sentiamo di rinchiuderci in una sala prove minuscola mettendoci vicendevolmente a rischio di contagio. Io personalmente non me lo perdonerei mai se dovessi contagiare uno dei miei amici della band, quindi preferiamo rimanere cauti. Chiaramente è un po’ deprimente certe volte… ogni giorno mi dico che non siamo solo noi, che ci sono migliaia di band nelle nostre stesse condizioni, bisogna avere pazienza e aspettare che le cose migliorino…”
A questo punto sono costretto a farti una domanda abbastanza “idiota” e totalmente triviale sul doppio live, ma essendo io personalmente ossessionato con ogni cosa in vinile, devo sapere: ho notato che a differenza di molte uscite in vinile contemporanee, il doppio live uscirà esclusivamente in versione “black vinyl”. Questa è una scelta vostra oppure è l’etichetta a decidere i formati e le versioni da pubblicare?
“Beh, non è una domanda stupida, la verità è che non ci avevo mai pensato alla questione del colore del vinile perché di solito la Peaceville ci chiama e ci dice cosa hanno in mente, e a noi va bene tutto quindi non ho mai pensato di proporre soluzioni diverse. Confesso che ero molto più eccitato e focalizzato sul discorso che fosse un doppio live, perché, avendo 51 anni, da ragazzino sono cresciuto musicalmente negli anni fine ’70 e inizio ’80, che era l’epoca in cui le grandi band pubblicavano i loro doppi live, tipo ‘Alive’ dei Kiss oppure ‘Live Bootleg’ degli Aerosmith, ‘Live And Dangerous’ dei Thin Lizzy, con l’interno ricoperto di foto della band in giro per il mondo, allora abbiamo pensato: facciamolo anche noi! Realizziamo la nostra fantasia d’infanzia da adulti, anche se suoniamo brutal death metal! Detto ciò, se la prima stampa va sold-out sicuramente indagheremo sulla possibilità di fare una seconda stampa colorata, grazie per l’idea!”
Altra domanda obbligatoria: tu ovviamente sei famosissimo anche per aver fatto parte dei Death ed aver suonato su quella pietra miliare che è ‘Scream Bloody Gore’ nel lontano 1987: parlaci un pochino di quella gloriosa epoca e della tua esperienza con “Evil” Chuck Schuldiner…
“Bei tempi! Sono venuto a contatto con Chuck quando lui si è trasferito qui in California dalla Florida, era alla ricerca diciamo di un nuovo inizio. Lui aveva cominciato la band in Florida, poi aveva trascorso un periodo in Canada con gli Slaughter, poi era tornato in Florida, e infine aveva deciso di venire in California. All’inizio aveva cominciato a suonare insieme a Eric Brecht dei D.R.I., con il quale produsse il demo ‘Back From the Dead’, ma quella formazione non durò a lungo. Lui stava in un paesino a 20 minuti da dove vivevo io, e siamo entrati in contatto tramite conoscenze comuni: un mio amico mi ha avvertito che aveva visto nel giornale locale l’annuncio di un tizio che aveva una band death metal che sia chiamava Death e che cercava un batterista. Mai avrei pensato che si trattasse di Chuck, pensavo fosse qualcun altro… comunque ho telefonato e quando ho capito che era lui non ci potevo credere! Tra l’altro pensavo fosse molto più grande: i Death erano in giro da parecchio tempo ed erano già una leggenda nell’underground, quindi nel mio immaginario Chuck pensavo fosse molto più grande. Mentre chiacchieravamo al telefono allora gli ho detto che avevo solo 17 anni e se questo poteva essere un problema, ma lui mi ha risposto che non c’era alcun problema, dato che lui stesso ne aveva 19! La cosa incredibile è che sono stato l’unico a rispondere al suo annuncio, ma bisogna capire che a quell’epoca, nel 1986, il death metal non era popolarissimo, e nella Bay Area regnava supremo il thrash metal, sembrava non ci fosse spazio per altro. Chi suonava death metal era in un certo senso discriminato, emarginato, trattato come un “loser”. Nessuno dei miei amici riusciva a capire il mio entusiasmo per essere parte dei Death.”
In realtà volevo chiederti se nella tua crescita ed evoluzione musicale, tra l’altro essendo cresciuto nella Bay Area, eri transitato in qualche modo per la scena thrash, oppure se sei sempre stato appassionato esclusivamente di death metal?
“Beh, probabilmente come tutti noi “vecchietti” di una certa età, ho attraversato le classiche fasi, partendo dai Kiss ed Alice Cooper e quella roba lì, poi un giorno scopri i Motorhead e Iron Maiden, poi arrivano i Venom e Slayer, e quando pensi che il limite sia già stato raggiunto arrivano i Possessed… Non è stata una questione dal giorno alla notte, è stato un processo graduale… la continua ricerca del gruppo nuovo, più veloce e più brutale di quelli che lo hanno preceduto. Quindi quando è arrivato il death metal, per me si è inserito in modo logico in un processo di evoluzione naturale. E potrei dirti che mi sono fermato lì! Non ci sono state ulteriori evoluzioni degne di nota, a parte roba tipo il grindcore, che comunque è un genere direi a sé stante.”
Quindi il black metal non fa per te?
“Confesso: non proprio. C’è qualche band che mi piace, ma non sono particolarmente entusiasta del genere. E poi non mi piace l’attitudine spesso collegata ad alcune di queste band. So che ci sono band con influenze neonaziste, che è una cosa che non sopporto. Sono fatto così: se scoprissi che una band, anche se fosse la migliore al mondo, ha alla sua base una cultura neonazista non potrei mai ascoltarla…”
Tornando agli Autopsy: il live album, che peraltro mancava nella vostra produzione, rappresenta l’ultimo episodio di una lunga collezione di creazioni musicali. Tu hai fondato il gruppo e hai suonato su ogni disco: qual è in assoluto il tuo preferito, o quello al quale sei più affezionato, e per quale motivo?
“Ti darò due risposte. Ovviamente ‘Severed Survival’ è molto speciale perché è stato il primo, mi ricordo come se fosse ieri la sensazione di trionfo e di incredulità di tutti noi quando fu pubblicato! Detto ciò, l’album preferito dovrebbe sempre essere l’ultimo, perché se così non fosse vorrebbe dire che hai un problema!”
Questo discorso mi ricorda di un’intervista a Geddy Lee (bassista dei Rush) che leggevo qualche giorno fa, a cui chiedevano perché non pubblicassero materiale raro, demo oppure brani inediti, dato che ultimamente va di moda mettere fuori box set pieni di questi residui, e lui ha risposto nel suo tipico approccio iper-razionale che le canzoni da loro ritenute all’altezza finivano sui dischi, mentre le altre venivano scartate e cestinate…
“Sì, noi abbiamo lo stesso approccio, non per metterci nella stessa categoria dei Rush! Però la procedura è la stessa: le canzoni che ci piacciono e che funzionano vanno sul disco, e le altre le scartiamo. E se sono tutte buone, facciamo un disco più lungo del solito, oppure se quelle buone sono troppo poche, facciamo un EP! Non è che scriviamo 20 brani e poi facciamo la selezione.”
Come vi è venuto in mente dopo 15 anni di sosta di riformare la band? Sentivate la mancanza degli Autopsy?
“In realtà non avevamo in mente di riformare la band, è solo che ad un certo punto ci siamo resi conto che ‘Severed Survival’ stava per compiere 20 anni e avevamo voglia di celebrarlo facendo qualcosa di speciale. Così abbiamo deciso di fare una reissue aggiungendo due brani nuovi, e sarebbe dovuta finire lì. Poi i tizi del Maryland Deathfest (un famoso festival USA dedicato al death metal, NDA) hanno cominciato a mandarci email a ripetizione, chiedendoci di partecipare al festival. Noi li conoscevamo bene perché come Abscess avevamo suonato al Deathfest un paio di volte, quindi sapevamo che era gente in gamba. Insomma per farla breve, hanno insistito talmente tanto che alla fine ne abbiamo parlato internamente e ci siamo detti: ma perché no? Si vive una volta sola! Di nuovo, pensavamo che sarebbe finita lì, ma a seguire abbiamo cominciato a ricevere offerte dai principali festival europei… e la verità è che facevamo fatica a crederci, continuavamo a chiederci: ma veramente tutta questa gente è ancora interessata agli Autopsy?? Così abbiamo deciso di resuscitare gli Autopsy, ma a quel punto non ci piaceva l’idea di suonare tutti questi concerti solo con musica vecchia di 20 anni, quindi abbiamo cominciato a scrivere nuovo materiale, da cui sono nati ‘The Tomb Within’ (EP del 2010) e ‘Macabre Eternal’ (LP del 2011). La cosa bella è che il processo compositivo è avvenuto in maniera molto naturale: non abbiamo dovuto forzare nulla, ma a un certo punto si era rigenerato così tanto entusiasmo che io ed Eric ci telefonavamo continuamente con nuove idee e nuovi riffs… diciamo che il nuovo materiale ha preso una forma tutta sua non studiata a tavolino.”
Tra l’altro, dopo la reunion, sono stato contentissimo di ascoltare nuovo materiale, ma mai mi sarei immaginato che sareste ritornati ad una prolificità addirittura superiore a quella dei primi anni della band. Dipende forse da una maturazione collegata all’età, che vi permette di creare nuova musica diciamo senza pressione?
“Effettivamente non saprei risponderti… una cosa è certa: siamo ad un punto del nostro cammino che le cose le facciamo se abbiamo voglia di farle! E sotto quest’aspetto quelli di Peaceville sono sempre stati di grande supporto e non ci hanno mai messo pressione in alcun modo. Il processo prevede che noi li chiamiamo per avvertirli che siamo pronti per fare il nuovo disco e loro ci dicono ok, facciamolo! Noi firmiamo contratti da un unico disco alla volta, non facciamo contratti da quattro dischi o roba del genere. Posso garantirti che non ascolterai mai un disco degli Autopsy pubblicato per adempiere a qualche obbligazione contrattuale o roba del genere.”
Vorrei chiudere quest’intervista chiedendoti se hai uno show preferito o un bill particolare, lungo questo percorso trentennale, che ricordi con particolare nostalgia o entusiasmo?
“Ce ne sono tanti! Ci siamo divertiti parecchio ad andare in giro, ma se proprio devo concentrarmi ti direi che uno sicuramente speciale è il Buffalo Deathfest del 1990, c’eravamo noi, Immolation e Suffocation da NYC, Cannibal Corpse, Mortician, Deceased, Baphomet, una roba pazzesca! Altro episodio degno di nota è il primo tour in Europa nel 1990, insieme a Pestilence, Bolt Thrower e Morgoth. Su quel tour ci siamo ritrovati tutti benissimo, noi in particolar modo con i Bolt Thrower, che erano simpaticissimi! Zero ego e zero tensioni, anche quando gli shows non erano il massimo in termini di organizzazione e logistica, riuscivamo sempre a divertirci. Quelli sì che erano bei tempi!”