Grave Digger – Sogni, Vita e Heavy Metal
Il 18/06/2020, di Dario Cattaneo.
Che cosa puoi chiedere in un’intervista ai Grave Digger? La band ha 40 anni, da quattro decadi fanno sempre la stessa musica e rilasciano le stesse interviste, e quindi sembra che il pool di opportunità per un contenuto interessante siano limitate. Ma non bisogna mai dare niente per scontato, e questa bella chiacchierata che Dario Cattaneo vi propone qui ne è un bell’esempio. Spinto dalla forza delle proprie convinzioni che ha su diversi temi; Chris Boltendahl ha risposto estensivamente ai microfoni di Metal Hammer, dicendoci la sua su COVID-19, sulla loro scheletrica mascotte, sulla storia scozzese ma anche su quella tedesca, e finendo pure per darci un interessante consiglio per quando si è una giovane band con sogni di successo…
In piena quarantena non potevamo che iniziare con una domanda sul COVID-19… tra l’altro proprio qualche giorno fa avete rilasciato delle dichiarazioni forti al riguardo…
“Già, le dichiarazioni riguardavano il fatto di fare finti concerti/performance live da casa durante questo sciagurato periodo. Siamo contrari. L’heavy metal è una cosa speciale, è il mondo che viviamo, e se suoni heavy metal hai bisogno dei fan davanti, del loro sudore, delle loro grida. Abbiamo bisogno di essere insieme a loro, di fare una specie di festa tutti insieme. Dove è tutto ciò in quello che ci hanno proposto? Suonare davanti a una fila di macchine senza vedere il pubblico, o peggio ancora in una sala vuota, allestita per le telecamere? Non è il concetto che do io all’heavy metal come fan, neanche come musicista. Possiamo aspettare, possiamo aspettare che questo virus ci permetta di trovarci e di fare le cose come le abbiamo sempre fatte. Quindi aspetteremo”.
Mi piacerebbe dire che che tutti i fans la pensano come te, ma leggendo i commenti sotto i vari articoli con le tue dichiarazioni penso sia più realistico considerare due correnti di pensiero. C’è chi pensa che uno show è 100% la band che suona, perché – appunto – è la band che suona, e altri che dicono che il pubblico fa parte dello show in toto. Anche se è facile capire la tua posizione al riguardo, ci spieghi meglio il ruolo del pubblico in un concerto dei Digger?
“Il pubblico è parte della band! È come il coro che registri in studio per le canzoni epiche, Urlano, alzano i pugni al cielo… celebrano l’heavy metal! È l’unica cosa che non è cambiata dagli anni Ottanta se ci pensi, e ce la teniamo stretta. Senza tutto ciò sembrerebbe di stare in sala prove, no?”
Non ti si può dare tutti i torti alla fine… Cambiamo argomento. Vorrei dirti buon compleanno, visto che sono quarant’anni che siete in giro sulle scene ed è di sicuro un traguardo non da poco. Come vi sentite a proposito di questa cifra così… importante? Come si tiene a bada la stanchezza e il logorio in un tempo così lungo?
“Quarant’anni sono tanti, è vero. Ma che ti devo dire, tutto quello che ho passato forma la persona che sono oggi. In tutto questo tempo ho vissuto, ho passato momenti bellissimi e momenti meno belli, incontrato gente fantastica e gente di merda… come la vita vera, un continuo su e giù, alternarsi di alti e bassi, ma tutto ciò fa parte dell’esistenza stessa. Posso dirti che il tempo che ho passato facendo questo, facendo show, incidendo dischi, sia oramai lo specchio stesso della mia esistenza e quindi, come potrei fermarmi? Alla fine ogni tanto ci penso al tempo che è passato, ma mi rendo conto che in fondo sono una persona felice. Quindi se tutto quello che ho trascorso mi ha portato a considerarmi così, non vedo perché non dovrei considerare la mia vita nella musica se non un vero e proprio dono da una qualche entità superiore. Adesso la vedo così, man, e mi sento in pace con quanto successo in questi quaranta anni”.
Naturalmente avete deciso di festeggiare con un nuovo album. Prima di entrare nel dettaglio delle caratteristiche peculiari di ‘Fields Of Blood’, vorrei chiederti come ci avete lavorato, se come con ‘The Living Dead’ molto del lavoro di scrittura per le parti chitarristiche è stato lasciato ad Alex Ritt o se avete lavorato in maniera più organica…
“No, direi diverso da ‘The Living Dead’ perché questo doveva essere un concept. Quindi abbiamo messo giù uno scheletro narrativo su cui abbiamo ricavano uno spazio per ogni canzone. Poi, prendendole in mano una a una ci siamo chiesti cosa serviva ad ogni passaggio. Questa deve avere il coro potente? A questa servono chitarre tirate? Su questo brano così importante in cui si parla dei Clans dobbiamo metterci le cornamuse? Abbiamo affrontato quindi il riempimento dentro le righe progettate un brano alla volta, facendo un lavoro, come dici tu, più… organico.”
E il concept ovviamente riguarda la vostra ambientazione in qualche modo più famosa, ovvero la storia di sangue delle highlands medievali. Cosa vi ha spinto a tornare su questo argomento dopo ‘Tunes Of War’ e ‘The Clans Are Marching Again’. Volevate concludere una sorta di trilogia?
“Non so se è una trilogia, ma so bene la differenza tra questi tre capitoli. ‘Tunes Of War’ era una sorta di lezione di storia. Affrontava i fatti dal punto di vista di ciò che era successo, quasi come serie di eventi. ‘The Clans Are Marching Again’ copre il lato mistico della storia scozzese. Due anni fa ero in Scozia col mio figlio, ai tempi aveva dieci anni e per lui era la prima volta che ci andava. Ho cominciato a spiegargli la storia di quei luoghi, che come sai conosco bene, a dirgli cosa era successo, delle battaglie per la libertà che ci sono state… È lì che mi sono reso conto che non avevo finito di parlare di quell’argomento. Procedendo nella visita andammo in un museo, e vedemmo uno dei guardiani – uno di quelli che lavora lì – dormire durante una pausa. E mi sono chiesto: ‘Lui lavora qui tutto il giorno, che tipo di sogni potrà mai fare in un posto così pieno di storia? Sognerà quanto è successo qui?’ Ed è partito da qui una sorta di sogno in cui comparivano questi personaggi importanti: The Bruce, Mary… ed è così che ho descritto in ‘Fields Of Blood’ la stessa storia di ‘Tunes Of War’ ma dal punto di vista emozionale, calandomi nella parte di quest’uomo che sognava di questi eventi. Capito? Non mancava di finire di narrare la storia… mancava un punto di vista diverso su di essa.”
Interessante… questo mi porta a chiedermi: questa terra l’adori, ma non è la tua terra… farai mai un lavoro del genere per un pezzo di storia tedesca? Non senti di dover parlare delle parti da cui provieni tu?
“No, non credo. La storia tedesca penso guadagni molta importanza più avanti nei secoli, con le guerre mondiali e il ruolo cruciale che la nazione tedesca ricoprì in quegli eventi… e non è la mia tazza di thè, come si suol dire. Sono più interessato alla storia inglese, scozzese, romana, quella di tempi più antichi, dove i valori erano diversi. Per quella parte di Storia più moderna sentite i Sabaton mi viene da dire, non i Grave Digger”.
Vorrei cambiare un attimo punto di vista anche io… parlando della vostra mascotte, il Becchino (Reaper in inglese, ndr.). Ma è un buono o un cattivo? Sembra banale, ma guardiamo le vostre copertine… su quest’album combatte al fianco degli Scozzesi, lotta per la libertà… ma in molte altre copertine è chiaramente intento ad azioni malvagie e diaboliche. Chi è il Becchino in realtà?
“È un nostro amico! (ride sinceramente, ndr.). Lui rappresenta la band, certo, ma è più un fratello, appunto. Alle volte fa cose malvagie, è un tipo pericoloso comunque, ma alle volte sta con i buoni. Noi lo amiamo, certo, ma è pur sempre uno che non può parlare. A pensarci bene, non so nemmeno se gli piace fare la nostra mascotte ma appunto, non potendocelo dire, è un po’ obbligato, no? Scherzi a parte, è ovviamente nato come clichè del metal ottantiano di quando abbiamo iniziato, uno scheletro, minaccioso, cattivo, che rappresentava questo tipo di musica negli anni in cui facevamo i primi dischi, e gli Iron Maiden avevano sdoganato questo tipo di immagine. È piaciuto, e si è ricavato da se uno spazio su ogni nostra copertina. Dopo un po’, nel 1993, col disco ‘The Reaper’ ha preso una sua identità vera e propria e ci ha accompagnato per sempre. Ora è vero che lo considero un mio amico, dopo tutti questi anni, e il suo ruolo nelle copertine è deciso in base a come possiamo mettere l’attenzione su di lui.”
L’immagine che vi siete costruiti è in effetti molto forte, e ora come ora sarebbe rischioso tradirla. Dopotutto nel 2020 i Grave Digger fanno questo tipo di musica, parlando di questi temi, lo fanno usando determinate sonorità e hanno uno scheletro in copertina. Ma non ti senti a volte di esserti creato una gabbia intorno a te e alla band che potrebbe limitare la tua creatività qualora decidesti di voler cambiare qualcosa o suonare un altro genere?
“No, niente affatto. Nel mio caso, posso dire che io amo questo tipo di musica. Sono cresciuto ascoltando Sabbath, Zeppelin e Purple, ho evoluto la mia musica da lì, ci ho lavorato per 4 decadi e non è adesso che sono vecchio che cambierò direzione o pensiero. È la mia vita, dopotutto, e non mi sento di tradirla. E poi, per come la vedo io, ci dicono che alla volte suoniamo un po’ più old-school, alle volte sembriamo un po’ più epic, alle volte siamo un po’ più power. Tutte etichette, mi piace pensare che ogni album dei Grave Digger suona come un album dei Grave Digger. E allora non serve cambiare. Che usiamo le cornamuse, le chitarre, o altri strumenti medievali, alla fine dopo un paio di canzoni hai capito che stai sentendo un album nostro e a me va bene così, ci ho sempre investito su questo aspetto. Quindi quello che dici tu può anche essere vero, ma non sento alcuna gabbia attorno a me. Forse c’è, ma non mi impensierisce.”
La vostra esperienza vi pone in una posizione in cui potete benissimo essere considerati oltre che dei pionieri delle vere e proprie guide per nuove band… a questo punto, ti chiedo di vestire questi panni e dirci cosa consiglieresti a una giovane band che segue i passi del Becchino…
“Essere se stessi. E non è un cazzo facile perché quando inizi hai per forza degli idoli, hai dei modelli che segui, e quindi essere te stesso – cioè qualcuno che ancora non conta niente – non è per niente scontato. Però è così che devi fare. Che tu voglia suonare come i Digger, come i Nighwish, come gli Iron, gli Helloween o come vuoi tu, al mondo non servono i Digger, i Nightwish o gli Iron perché ce li hanno di già. Hanno bisogno di un’altra band, e tu devi diventare questa band. Solo così ci si ricorderà di te.”