Triptykon – Una trilogia da Requiem
Il 04/06/2020, di Francesco Faniello.
Dopo l’entusiastica accoglienza riservata a ‘Requiem (Live at Roadburn 2019)’ dei Triptykon, niente di meglio di una lunga chiacchierata con un affabile Tom G. Warrior sulla genesi del disco e quella ancora più profonda del progetto stesso, che affonda nel sue radici nell’anno di grazia 1987 e nello storico ‘Into The Pandemonium’…
Buonasera, Francesco.
Buonasera Tom, come stai? Viviamo tempi strani, non credi?
Dici bene, tempi strani. Ma ne verremo fuori…
Parliamo del Requiem. Ho letto che il disco è dedicato alla memoria di Martin Eric Ain e di HR Giger. Mi chiedevo se Martin fosse stato coinvolto da subito nel concept relativo al Requiem, dato che esso trova le radici nel 1986, durante le registrazioni di ‘Into The Pandemonium’ che sarebbe uscito l’anno dopo…
Se parliamo del concept, io e Martin discutevamo insieme praticamente di tutto nella band: di ogni pezzo, di ogni frammento di testo, e sicuramente il progetto del Requiem era importantissimo per entrambi. Quindi, anche se in realtà lui non è stato co-autore della parte musicale, la sua presenza è stata immensamente importante a livello dialogico, tanto che il Requiem è anche frutto della sua personalità.
Capisco… devo subito aggiungere che sentire per la prima volta il ‘Rex Irae’ dal vivo è stata un’emozione davvero intensa, come si conviene dinanzi all’esecuzione di questo capolavoro originariamente incastonato su ‘Into The Pandemonium’. Parlando però della trilogia, possiamo dire che la stessa è giunta a compimento una volta entrati in scena i Triptykon, dato che la prima sezione era costituita dal ‘Rex Irae’ e la terza ha visto la luce anni dopo su ‘Monotheist’. Come è nata l’idea? È iniziato tutto con la vostra partecipazione al Roadburn o magari con il coinvolgimento di Florian Magnus Maier?
No, tutto ha avuto inizio molto prima. Quando abbiamo rifondato i Celtic Frost nei primi anni Duemila, una delle prime cose di cui Martin e io abbiamo parlato è stata quella di riprendere a lavorare sul Requiem e concluderlo. Quindi abbiamo scritto e registrato un’altra parte, ‘Winter’, per l’album ‘Monotheist’, ed eravamo intenzionati a concludere il tutto. Ma poi i Celtic Frost sono implosi ancora una volta e al loro posto ci sono i Triptykon; ovviamente avevo l’ambizione di finire il Requiem, dato che era principalmente un mio pezzo, quindi è una delle prime cose di cui ho discusso con i ragazzi dei Triptykon nei primissimi giorni della band, e tutti erano d’accordo con me. D’altro canto, noi tutti volevamo che i Triptykon trovassero una loro strada come band e concordammo sul fatto che forse avremmo potuto lavorarci intorno al terzo o quarto lavoro in studio! Poi è arrivato l’invito al Roadburn e al contempo si era materializzata l’opportunità di tornare a mettere le mani sul progetto tutti insieme, tanto che abbiamo terminato la parte compositiva un po’ prima del festival, laddove l’idea iniziale era quello di registrarlo nelle sessioni del prossimo album, o di quello dopo ancora.
Quindi le cose si sono velocizzate in vista del festival! Mi chiedevo qualcosa sugli arrangiamenti orchestrali: sono stati difficili da mettere insieme o sono nati con naturalezza? Mi piacerebbe sapere qualcosa di più del tuo lavoro insieme a Florian Magnus Maier, l’arrangiatore…
Beh, tu dici che tutto è successo velocemente, ma in realtà mi ci è voluto circa un anno per scrivere la parte finale del Requiem [la seconda, ndr.] e poi svilupparne gli arrangiamenti. Florian Magnus Maier è stato coinvolto appieno: lui non è solo un arrangiatore di musica classica, è anche un amico mio e dei Triptykon da molti anni, quindi sapeva esattamente di cosa avevamo bisogno, conosceva le nostre personalità e il nostro approccio musicale; non è stato come quando ingaggi qualcuno di estraneo che lo faccia solo per i soldi, perché lui ha capito appieno la natura del progetto sapendo bene chi eravamo. Ciò ha facilitato le cose, ma si è comunque trattato di un processo molto complesso, poiché bisognava orchestrare quarantacinque minuti di musica per l’ensemble di musicisti coinvolti, il tutto nei minimi dettagli, a partire da quale strumento introdurre di volta in volta per giungere all’intensità di esecuzione… abbiamo parlato all’infinito delle modalità di arrangiamento, mettendo sul tavolo le idee di ognuno, per poi giungere al risultato finale, pronto per essere provato agli inizi del 2019.
Immagino… ma penso anche che nel 1987 sia stato anche più difficile mettere una band metal insieme a un’orchestra quando avete registrato il ‘Rex Irae’, o no?
Questo è proprio vero, perché all’epoca i musicisti classici non erano affatto avvezzi all’idea di collaborare con una band metal; stiamo parlando di persone con alle spalle anni di studio del proprio strumento, con al contempo un mucchio di pregiudizi nei confronti dell’heavy metal, che a stento veniva percepito come “musica”. Questo rese il lavoro in studio piuttosto complesso, poiché per ottenere ciò che volevamo ottenere come Celtic Frost passammo un sacco di tempo a discutere con queste persone e cercare di convincerle a suonare con noi, più di quanto ce ne volle per le registrazioni in sé per sé. Oggi è molto più facile, perché la collaborazione tra generi diversi è molto più diffusa.
Che cos’è per te ‘Grave Eternal’? C’è un significato, oltre al tributo a due dei tuoi più grandi amici prima menzionati?
Per me ‘Grave Eternal’ è una transizione, sia musicalmente che dal punto di vista testuale, quello stesso tipo di transizione che riguarda l’anima, dalla vita alla morte. Dal punto di vista musicale, è una transizione dalla sezione tipicamente heavy metal del Requiem al suo corrispettivo classico. È un po’ come il concetto del viaggio, che prevede un momento di transizione a ogni livello.
C’è un momento, durante ‘Grave Eternal’, in cui i violini richiamano esattamente il tema del ‘Rex Irae’; in quell’occasione non ho potuto fare a meno di pensare a Wagner e tutto ciò che riguarda il concetto di leitmotiv…
Interessante… è la prima volta che qualcuno mi fa notare qualcosa del genere, ed è anche un paragone piuttosto ardito! È sicuramente vero che nella parte centrale abbiamo citato alcuni elementi preesistenti, e lo abbiamo fatto intenzionalmente poiché dovevano fungere da collegamento tra le tre distinte parti. Ma non avevo mai davvero pensato al collegamento con Wagner: dovrei riascoltarlo in quest’ottica!
La cosa che mi ha fatto pensare al leitmotiv wagneriano è la presenza della tematica “babilonese” sulla prima parte del Requiem (così come avviene per altri pezzi dei Celtic Frost come ‘Babylon Fell’ e ‘A Descent to Babylon’), tanto da immaginare i protagonisti di ‘Rex Irae’ “citati” in un contesto nuovo. A proposito: hai un background di ascolti di musica classica? Se sì, quali sono i tuoi compositori preferiti?
Sì, il mio primo approccio alla musica classica risale alla collezione di dischi dei miei genitori, con cui sono cresciuto sin dall’infanzia e che ho imparato ad apprezzare da subito; inoltre, mio nonno era un vero e proprio specialista di partiture classiche a Zurigo, avendo uno dei negozi di musica più importanti negli anni Cinquanta e Sessanta. Dunque, in tutto ciò ho sviluppato un gusto per determinati compositori di musica classica, come Sibelius (il mio preferito, tuttora!), Brahms, Bach, Grieg, Dvorak, per non parlare di Franz Liszt, compositori che ascolto ancora adesso e che sono tra le ragioni per cui mi sia venuto in mente di iniziare la scrittura del Requiem negli anni Ottanta.
Personalmente ho anche pensato a Gustav Holst, il compositore britannico della suite ‘The Planets’, per via di un possibile parallelo tra ‘Winter’ e ‘Neptune’ [ultimo movimento della suite di Holst, nda] nell’uso dei cori femminili. Se poi si parla di voci femminili e di soprani britteniani dalla timbrica glaciale, la storia dei Celtic Frost (e ora dei Triptykon) ne è piena; qual è la motivazione dietro la scelta di Safa Heragi su questo lavoro?
La motivazione è che l’ho vista esibirsi a Zurigo alcuni anni fa e ne sono rimasto positivamente impressionato. Credo per di più che quella fosse la sua prima volta da vivo, ed è stata fenomenale! La sua voce mi ha emozionato particolarmente, quindi sono andato a trovarla nel backstage e le ho chiesto se fosse interessata a una futura collaborazione con i Triptykon. Lei disse di sì, e quando il mettemmo mano al progetto del Requiem venne fuori il discorso su chi avrebbe partecipato. Tutti fummo concordi sulla scelta di Safa per le parti da soprano, nonostante la sua giovane età e la sua poca esperienza, e decidemmo di contattarla. È stata davvero una grande intuizione.
Tra l’altro ha dovuto portare il peso di un’eredità non indifferente, poiché tutti ricordiamo la performance originaria di Claudia-Maria Mokri, un vero e proprio momento di innovazione all’interno di un disco di per sé innovativo come ‘Into The Pandemonium’. Siete ancora in contatto?
No, sfortunatamente Claudia-Maria Mokri è cambiata molto: tanti anni fa ci ha contattato per dirci che rinnegava completamente la passata collaborazione, dicendoci anche che ora lei odia l’heavy metal e cose del genere… pensa che in quell’occasione – sarà stato alla fine degli anni Novanta – ci ha addirittura chiesto di rimuovere le sue parti dai nostri dischi, cancellando anche il suo nome dal sito e dagli album. Naturalmente, le abbiamo detto che una cosa del genere era impossibile: quei dischi [‘To Mega Therion’ e ‘Into The Pandemonium’, ndr.] sono stati venduti in tutto il mondo, le registrazioni e il nome sono impossibili da cancellare. In ogni caso, era molto frustrata e arrabbiata, e ha dichiarato di non voler avere più nulla a che fare con l’heavy metal; ovviamente ha cambiato totalmente la sua scena di riferimento ma anche il suo modo di vedere, tanto che quando molti anni dopo abbiamo iniziato a pensare al completamento del Requiem sapevamo già che non avremmo potuto coinvolgerla. Evidentemente ha una vita diversa, e non vuole avere alcun legame con la nostra scena. È un peccato, anche perché non credo che si renda conto quanto effettivamente la sua voce sia divenuta leggendaria nella storia del metal.
Incredibile!
È un peccato, ecco tutto. È chiaro che percepisce le cose in maniera diversa dalla realtà, quando invece dovrebbe essere fiera di quello che ha fatto e del suo contributo!
Tra l’altro qualche anno dopo aver partecipato ai vostri dischi aveva collaborato con i Therion per il loro ‘Lepaka Kliffoth’…
Esatto! Probabilmente le sarà capitato qualcosa dopo… non so perché abbia cambiato opinione ma credo davvero che sia cambiato qualcosa in lei.
Sembra quasi la storia al contrario di Clare Torry e ‘The Great Gig In The Sky’ dei Pink Floyd! A proposito, mi ha particolarmente colpito l’assolo di Santura su ‘Grave Eternal’, per via del suo stile reminiscente di David Gilmour. Tra l’altro, è un innesto che mi ha davvero sorpreso: nel mio approccio al disco mi aspettavo di trovare una miscela di extreme metal e avantgarde con le consuete incursioni nella musica classica, ma mai avrei pensato ai tipici “crescendo” del periodo di ‘Atom Heart Mother’ o ‘Echoes’!
Beh, Santura è ovviamente un chitarrista fenomenale e io non mi azzardo a dirgli cosa suonare: è lui a scrivere i suoi assoli di chitarra. Ma quello che dici è interessante, perché per me i Pink Floyd sono un gruppo importantissimo, che rispetto immensamente. Amo tutta la loro musica, indipendentemente dal periodo: i Pink Floyd sono stati una fonte di ispirazione molto importante per me, e anche se Santura appartiene a un’altra generazione io stesso ho potuto notare quest’influenza nel suo stile solistico.
Tom, ho una domanda personale: ti consideri ancora un metallaro, in un certo qual modo?
Naturalmente: l’heavy metal è la mia vita! Sono molto aperto musicalmente e ascolto ogni genere ma il metal è la mia vita ed è ancora la musica che mi emoziona di più, avendo praticamente condizionato tutta la mia esistenza. Tra l’altro, devo essere molto grato all’heavy metal, poiché ha reso possibile la realizzazione dei sogni che avevo da adolescente, cui si è aggiunta tutta l’esperienza acquisita nel corso degli anni. Senza l’heavy metal probabilmente condurrei una vita completamente diversa, e questo non lo dimenticherò mai, con tutta la mia gratitudine.
Te l’ho chiesto perché va spesso di moda dimenticare le proprie radici e rinnegare una certa appartenenza, come nel caso di Claudia-Maria Mokri che citavamo prima… come se questo fosse uno scheletro nell’armadio o qualcosa di simile!
Sai, ognuno ha i suoi momenti e vive diverse fasi nella propria vita, ma credo che alla fine siamo quello che siamo e credo che se siamo onesti con noi stessi ci ricordiamo da dove veniamo e cosa ha contribuito a plasmare la nostra personalità.
All’interno della tipica scaletta dei Triptykon c’è sempre molto spazio dedicato ai pezzi dei Celtic Frost. Li suoni ancora con la passione di sempre o perché è il pubblico ad aspettarselo?
No, io amo davvero quelle canzoni. Per prima cosa, quando ho lasciato i Celtic Frost ho fondato i Triptykon proprio per continuare a sviluppare quel tipo di musica. Ho sempre amato la direzione musicale dei Celtic Frost, e non potevo sopportare il fatto di andare avanti senza, tanto che i Triptykon sono nati specificatamente per essere i successori dei Celtic Frost. In secondo luogo, molte di queste canzoni sono molto importanti per me, a livello personale, e questo si collega direttamente alla tua domanda: dietro queste canzoni c’è una storia speciale o comunque un significato speciale, e le amo per davvero. Questo vale anche per pezzi come ‘Procreation of the Wicked’ o ‘Circle Of The Tyrants’, che ho suonato centinaia di volte e che mi piace ancora suonare, in tutta onestà. Quando ero ancora un giovane metalkid e non ancora un musicista, mi chiedevo sempre se a gruppi come Black Sabbath o Deep Purple piacessero ancora pezzi come ‘Paranoid’ o ‘Smoke On The Water’, dopo magari averli suonati per una vita intera, ma nel mio caso non ho dubbi: io adoro ancora i miei “classici”. Nella nostra scaletta c’è sempre il 50% di pezzi dei Celtic Frost e il 50% di pezzi dei Triptykon; personalmente, io suonerei ancora più pezzi dei Celtic Frost, ma è chiaro che non sarebbe giusto nei confronti degli altri membri dei Triptykon. Tuttavia, per i miei gusti è sempre meglio una scaletta live con tanti pezzi dei Celtic Frost!
Tra l’altro mi sento di aggiungere che lo stendardo con il logo dei Triptykon e l’artwork di Monotheist è un po’ il simbolo di come una realtà riviva nell’altra, senza soluzione di continuità…
Assolutamente! Con il Requiem, poi, abbiamo realizzato questo connubio, portando sul palco sia la parte relativa ai Celtic Frost che quella nuova relativa ai Triptykon, allo stesso tempo e nello stesso progetto, ed ecco il perché di questa scelta grafica.
Tornando al 1987, mi piacerebbe chiederti se durante la composizione di ‘Into The Pandemonium’ avevate la sensazione di star creando qualcosa di unico…
Allora non sapevamo quanto fosse “unico”, ma semplicemente ci prefiggemmo l’obiettivo di non accettare alcun limite o confine. Prima di entrare in studio, prima ancora di iniziare a comporre il disco, l’idea era già quella di dare libero sfogo alla creatività, senza quelle pressioni esterne come i tipici paletti presenti in una scena, per cui “non puoi fare questo, non puoi fare quello…”. Invece, se ti consideri un artista – e la musica è sicuramente un’arte – devi sapere che l’arte non gioca sul sicuro, ma comporta una certa dose di rischio. L’artista rischia la sua carriera per un’idea, ed era quello che volevamo fare: eravamo molto giovani e molto naïf, con la ferma intenzione di mettere da parte ogni tipo di restrizione, rifiutare i limiti e fare solo ciò che sentivamo. Ecco perché quell’album è così com’è.
Ricordo di aver letto un’intervista su una rivista specializzata in cui, alla fine del tour di ‘Into The Pandemonium’ avevate in mente un nuovo progetto, un concept sul Vietnam…
Sì, c’è stato un periodo in cui tutti e tre – Martin, Reed St. Mark e io – parlavamo molto della guerra del Vietnam, che all’epoca era terminata da relativamente poco tempo ed era a tutti gli effetti un evento di Storia recente. La cosa ci affascinava abbastanza, non solo a livello superficiale ma soprattutto per via della tragedia umana ad essa connessa e le condizioni politiche che portarono a essa. Era un tipico argomento che affrontavamo in tour, e in un certo senso influenzò ciò che stavamo scrivendo.
Personalmente ho sempre pensato che una buona parte di ‘Cold Lake’ trattasse del Vietnam, portando così a compimento quel progetto, con pezzi come ‘Downtown Hanoi’ o ‘(Once) They Were Eagles’. Mi sbaglio?
Beh, quello che posso dire è che ‘Cold Lake’ era l’album sbagliato per affrontare questo genere di tematiche. A parte ciò, mi sento davvero lontano dalla forma mentis che portò a ‘Cold Lake’, tanto da non riuscire a risponderti. Parliamo di circa 33 anni fa, praticamente un’eternità… e quell’album è un grande fallimento, un abominio, dal mio punto di vista. Qualsiasi tematica profonda che abbiamo potuto affrontare nel disco appare ora grottesca, poiché la parte musicale non può certo reggere il confronto con la serietà dell’argomento.
Parlando di progetti, cosa ricordi del periodo degli Apollyon Sun?
Gli Apollyon Sun erano davvero quello che avevo bisogno di fare in quel periodo; sentivo di voler fare qualcosa di diverso, di lontano da quella che era la nostra scena, per acquisire più esperienza. Per la verità, ho imparato un sacco di cose tecniche legate al programming e a cose simili, e sono diventato un produttore molto migliore grazie alla mia esperienza negli Apollyon Sun. Si è trattato soprattutto di un progetto in studio: in effetti lavoravamo in studio quasi ogni giorno, e quell’esperienza mi è servita molto nel lavoro successivo di produzione con ‘Monotheist’ dei Celtic Frost o con i Triptykon. Insomma, un progetto che ha avuto un’importanza personale prima ancora che musicale.
Molte delle vostre intuizioni musicali hanno gettato le basi sia per il black metal che per il gothic metal degli anni Novanta. Ne sei cosciente? Ti piacciono alcune di quelle band che hanno preso qualcosa del sound dei Celtic Frost, portandolo verso altre dimensioni musicali?
In realtà, ci sono così tanti ottimi gruppi là fuori che mi riesce difficile credere che abbiano bisogno della mia musica come fonte di ispirazione! Ho alcuni amici in questi gruppi, come Paradise Lost, My Dying Bride o Darkthrone, che mi hanno detto di aver ascoltato la mia musica, ma le loro cose mi piacciono anche senza pensare che abbiano preso qualcosa dai Celtic Frost. Penso che siano musicisti fenomenali già di loro e che non abbiano bisogno di Tom Warrior per suonare in band fantastiche come le loro!
Una curiosità: da dove viene l’idea della cover di ‘In The Chapel In The Moonlight’? C’era qualcuno tra voi che era un fan di Dean Martin?
Tutti noi eravamo fan di Dean Martin, Frank Sinatra e questi crooner americani degli anni Cinquanta e Sessanta, era qualcosa che accomunava sia me che Reed St. Mark e Martin Ain. Abbiamo realizzato quella cover come bonus track nel periodo di ‘Into The Pandemonium’ e oltre ad amare davvero la musica di Dean Martin pensammo che il titolo ‘In the Chapel In The Moonlight’ suonasse proprio come un titolo black metal… e il pezzo non è affatto black metal, ma è quello il motivo per cui lo abbiamo scelto!
Ed è stata proprio la mia impressione quando ho comprato la raccolta ‘Parched With Thirst Am I And Dying’, per poi scoprire che si trattava di una cover solo molti anni dopo…
Eh sì, ci piaceva molto l’idea che il titolo di Dean Martin suonasse molto più estremo di tanti altri titoli nel metal!
A proposito, sei ancora in contatto con Reed o con altri ex componenti della band come Curt Victor Bryant o Stephen Priestly?
Sì, naturalmente: Reed lo stento spesso, qualche volta sento Curt Victor Bryant e ogni tanto capita di pranzare o cenare con Stephen Priestly. Stiamo parlando di persone che sono molto importanti nella mia vita e non credo che smetteremo mai di sentirci o vederci.
Bene, siamo verso la fine dell’intervista. Stavo riflettendo sul fatto che in questi giorni di lockdown un disco dal vivo come il Requiem sia importante per due motivi: sia per aver portato a compimento e in scena l’intero progetto, ma anche per il fatto di rappresentare la fotografia di uno degli ultimi momenti in cui la musica è stata suonata dal vivo nel modo che conoscevamo e in cui eravamo abituati a fruirne. Quindi, qual è per te l’importanza di un album dal vivo che esce nel 2020?
Hai detto bene, poiché per cominciare si tratta di un documento storico, in quanto cattura un momento che non può di per sé essere riprodotto, e lo fa a maggior ragione in una situazione come quella odierna. Un anno fa, quando abbiamo suonato in quell’esibizione, nessuno avrebbe potuto predire che un anno dopo non ci sarebbero stati concerti in nessuna parte del mondo, il che conferisce al Requiem un valore ancora più profondo. Tuttavia, spero che questa situazione cambi a breve.
Lo speriamo tutti. Un’ultima domanda prima di lasciarci: cosa vedi nel futuro dei Triptykon? State progettando un nuovo album?
Sì, e ci concentreremo su questo nel breve termine, visto che per ora non possiamo tornare a calcare i palchi; c’è da ultimare il prossimo album in studio dei Triptykon che avevamo per un attimo accantonato per finire il Requiem in vista del Roadburn – una volta accettata la sfida, abbiamo dato priorità a questo progetto, ma credo che quest’anno lavoreremo a fondo sull’album. Grazie mille per il tuo tempo e per l’interesse dimostrato… è stato un onore fare questa intervista!