Space Paranoids – Spaceship landing
Il 23/12/2019, di Fabio Magliano.
I cuneesi Space Paranoids sono esempio lampante di come non sia indispensabile nascere tra aridi deserti o nel clima torrido di Palm Desert per confezionare uno stoner rock con gli attributi, di chiara caratura internazionale. Con ‘High Tales’, terza fatica discografica del gruppo, gli Space Paranoids sfornano infatti un concept album avvolgente, pregno di attitudine, che se da un lato attinge fortemente al miglior stoner rock, dall’altro va ad imbastardirsi con echi grunge, richiami alla psichedelia e ammiccamenti allo scan-rock tanto da risultare, alla fine, estremamente vario e coinvolgente. Per saperne di più siamo andati a bussare alla porta della band (Muco voce e percussioni, Suzza alla batteria, Andre alla chitarra e Squallo al basso) facendoci raccontare cosa c’è dietro a questa eccellente produzione orgogliosamente tutta tricolore.
Terzo disco con “High Tales” e lavoro che rappresenta la vostra consacrazione. Cosa è cambiato rispetto ai primi due lavori?
“Abbiamo dato continuità al progetto andando a registrare nello stesso studio scelto per il lavoro precedente (MAM Recording Studio), però rispetto a prima abbiamo lavorato in modo più diligente e con maggiore attenzione ai dettagli.
Soprattutto in fase di arrangiamento la nostra idea era chiara: favorire soluzioni più semplici e potenzialmente più efficaci.
‘High Tales’ nasce come concept album, una raccolta di storie “ad alta quota”: leggende, personaggi, suggestioni legate a doppio filo alle Alpi del Mare, che dominano il nostro territorio”
Quanto ha influenzato la vostra origine e la realtà nella quale siete nati, sul sound della band?
“Tantissimo. Il nostro obiettivo è quello di calare sonorità tipiche dello stoner-rock e del desert-rock nella nostra realtà. In tutta sincerità noi, del deserto, che cazzo ne sappiamo? (ride)”
Quali pensiate siano i vostri punti di riferimento sonori?
“A dispetto di quel che si possa pensare, in nostro sound non è solo influenzato dallo stoner (che comunque è un riferimento importante), ma ci sono molti riferimenti alla psichedelia ed al garage anni ’60, delle buone strizzate d’occhio al grunge ed alla scena dei ’90 di Detroit (Jack White su tutti), ammiccamenti allo Scan-rock stile Hellacopters, e tanta ammirazione verso band più “giovani” (Truckfighters, Greenleaf, per citarne alcune)”
Il disco è uscito nel 2018. A bocce ferme, cosa vi piace di questo lavoro e cosa pensate sarebbe potuto uscire meglio?
“Siamo felici del fatto che il disco, nel suo ascolto complessivo, renda l’idea di un piccolo “viaggio” con un’inizio ed una fine. Per il resto si può sempre migliorare, soprattutto nell’esplorare nuove atmosfere sonore”
‘Wildboar March Part II’ è il primo singolo estratto dal disco con tanto di video promozionale. Volete parlarcene?
“‘Wildboar’ è uno dei pezzi più tozzi e diretti del disco, ed infatti parla del life style di un cinghiale immortale. Il video (realizzato da Sandro Bozzolo e Marco Lo Baido) con protagonista Luca Occelli, riprende il tema umanizzando la figura del cinghiale, ed è stato girato nei castagneti del nostro cantante Simone”.
‘La Draio’ è uno dei pezzi più belli del disco, un brano dai mille volti al quale Tom Newton dona un tocco in più…
“Hai detto tutto tu. Il pezzo è uno dei nostri preferiti, soprattutto da suonare dal vivo, e non ringrazieremo mai abbastanza Tom Newton per averlo impreziosito con la sua armonica, che ci riporta nei blues più polverosi. Lo spunto del brano trae origine da un lago sito nelle Valli di Lanzo (terra di eresie) attraversato da una linea subacquea, simbolo di contatto con l’ultraterreno”.
‘Iupiter Penn Boogi’ a mio parere è un altro dei pezzi forti del disco. Come è nato questo brano?
“E’ la ripresa di un brano scritto dalla precedente formazione, praticamente dieci anni fa, e adorato da quello che sarebbe diventato il nostro nuovo chitarrista, che ha voluto recuperarlo e metterlo su disco. Si mantiene così il legame con gli “Space” della prima ora. Il brano narra della divinità pagana Penn, Giove Pennino per i Romani, dio delle cime e delle grandi altezze”.
La decisione di chiudere con uno strumentale “soft” pare quasi la volontà di far “decantare” l’ascoltatore dopo la botta del disco. Come mai questa scelta?
“L’intento perseguito con ‘Valdinferno’ era proprio questo. Abbiamo trasposto una vera e propria jam session fatta in studio alla fine del brano ‘Man from Mecca’, assolutamente libera e non preparata, da utilizzare come conclusione del “viaggio” sonoro di cui si è detto sopra”.
Come pensate possa evolversi in futuro il vostro sound, tenendo conto che con questo disco di carne al fuoco soprattutto a livello sonoro ne avete messa davvero tanta?
“Vogliamo cercare di lavorare sempre meglio ed aumentare sempre di più la qualità non solo della realizzazione, ma anche delle idee. Soprattutto non vogliamo precluderci nulla, ed anzi vorremmo ampliare ulteriormente l’esplorazione sonora verso sentieri più “liquidi””.
Come state promuovendo il disco dal punto di vista live?
“Siamo partiti con un tour promozionale in tutta Italia dall’ottobre 2018 sino ad ora. Per il 2020 dovremmo rilanciare con qualche uscita in Europa grazie ad alcune nuove partnership, con l’obiettivo di tastare il pubblico estero anche su questo nuovo lavoro, dato che in passato ci ha dato sempre grandi soddisfazioni”.
Per concludere…
“Ti ringraziamo per questa intervista ed invitiamo chiunque stia leggendo a spararsi una dose di “Watt Alpini”!”