The Ossuary – Vieni a morire in Puglia
Il 10/09/2019, di Giuseppe Cassatella.
I The Ossuary nel giro di due dischi hanno conquistato un proprio status all’interno dell’ormai affollatissima scena doom nazionale e internazionale. Ci sono riusciti grazie a un approccio originale al genere, che trae ispirazione dalle radici musicali (il blues del titolo del primo album) e geografiche (il sud del nome della seconda fatica) del quartetto. Max Marzocca, il batterista della band, non solo ci ha spiegato i dettagli dell’oscurissimo ‘Southern Funeral’, ma ha dimostrato di non avere peli sulla lingua dipingendo un quadro non proprio florido della scena doom e della situazione musicale in Italia.
Bentornato su Metal Hammer Max, hai terminato la nostra ultima intervista dicendomi più o meno queste parole “Nessuna data confermata al momento, ci sono anche delle proposte dall’estero, ma per ora non abbiamo fretta di andarcene in giro, quindi non stiamo esattamente pianificando un tour, anche se ci piacerebbe moltissimo. Vediamo prima come va con questo primo passo discografico!”. Allora, come è andato il primo passo discografico?
Ciao Giuseppe, direi che il primo passo discografico è andato piuttosto bene, tant’è che dopo un po’ siamo andati pure in tour in Europa per promuoverlo. ‘Post Mortem Blues’ ci ha immediatamente fatto conoscere nella scena heavy doom rock underground. Prima di allora avevamo solo un paio di brani su Youtube, quell’album ha avuto parecchi feedback positivi e, sopratutto, ha spinto la Supreme Chaos Records a pubblicare anche il secondo capitolo, ‘Southern Funeral’!
In virtù di questa fiducia accordatavi dall’etichetta, avete sentito maggiori pressioni o responsabilità durante le fasi di songwriting di ‘Southern Funeral’?
In realtà, la vera pressione è quella di scrivere della buona musica cercando di non farsi troppo condizionare da ciò che abbiamo fatto prima. Abbiamo cominciato a lavorare immediatamente su ‘Southern Funeral’ non appena abbiamo terminato di scrivere il primo disco perché avevamo comunque un sacco di altre idee e del tempo a disposizione. È stato un processo spontaneo, nessuno ci ha dato fretta, ci siamo messi a lavorare sui nuovi brani in maniera naturale!
Mi pare di capire che si sia trattato di un flusso creativo continuo, iniziato col primo e terminato col secondo disco. Ma cosa distingue l’ultimo nato dal suo predecessore?
Innanzitutto, penso che la produzione sia generalmente migliore rispetto al passato! Poi abbiamo incominciato ad introdurre delle keys e synth qua e là, abbiamo dato maggior presenza agli effetti sulla chitarra e basso, il songwriting è più ragionato. Ma in sostanza si sente che si tratta di un disco della stessa band che ha registrato ‘P.M.B.’! Qualcuno ha detto che è un disco più allegro” rispetto al precedente, qualcun altro ha detto che è meno heavy metal e più blues, chi ha detto che è più acido e psichedelico, altri hanno detto che è più oscuro e articolato, etc…etc… Io dico semplicemente che son contento che ci siano delle differenze, seppur minime e che è giusto che la band si diriga verso altri lidi sonori se la cosa avviene in maniera spontanea. Non è un problema di generi, per noi non è importante se questo disco suona più heavy rock ed il prossimo suonerà più doomy, semplicemente ci piace scrivere dei bei riff e dei brani che ci convincano. In realtà, il bello sta proprio nel fatto che abbiamo segnato un tracciato sonoro col primo disco e ora lo stiamo percorrendo col secondo, ma non sappiamo dove ci porterà!
Allargando il discorso, cosa distingue i The Ossuary dalle altre band?
Per come la vedo io c’è una solida componente traditional heavy metal e hard rock, ci piacciono moltissimo le classic band 70 e primi anni 80, però poi amiamo allo stesso tempo molti gruppi con un sound dark e malinconico. Veniamo dal death metal e credo che un po’ questo fattore venga fuori ogni tanto nel modo in cui suoniamo, io ogni tanto uso la doppia cassa ed inoltre abbiamo un suono di chitarra molto pesante, il basso ha una distorsione molto vicina allo stoner rock ma poi il nostro cantante ha uno stile alla Gillan, Dio, Dickinson, giusto per fare qualche esempio. Insomma, potremmo comporre un pezzo doom e non suonerebbe mai come un pezzo alla Candlemass, e scrivere un brano stoner che non suonerà mai alla Kyuss. O un brano d’ispirazione early 70’s ma non sarà mai completamente vintage! Quindi forse è proprio il mix di queste componenti che ci distingue dalle altre band, ma non ne sono sicuro! Di solito scriviamo che suoniamo heavy doom rock giusto per dare delle coordinate alla gente che non ci conosce, ma in realtà non sappiamo come definirci, e francamente non è neanche così importante!
‘Maze Of No Return’ mi da l’idea di un brano che non avrebbe sfigurato neanche nell’esordio, mi sembra la canzone che meglio guida la transazione dal primo al secondo disco.
Sì, probabilmente hai ragione sul fatto che avrebbe potuto far parte della stessa session del primo disco ma la cosa strana è che si tratta di uno degli ultimi brani composti in ordine cronologico. Per tornare al discorso che facevamo prima, questo dimostra il fatto che non stiamo a vedere troppo cosa stiamo componendo: volevamo scrivere una sorta di brano “up-tempo/space rock senza synth” ma con un mood avventuroso che coincidesse con le liriche, e l’abbiamo fatto! Ho preso ispirazione per scrivere il testo dopo aver visitato i mitici Giardini di Bomarzo. Per me è stata un’esperienza “intrippante”, eheheheh… conto di tornarci un giorno!
Uno dei brani che preferisco del disco e che considero uno dei migliori della vostra produzione è ‘Shadow Of Plague’. Che mi dici di questo pezzo?
Ha un riff ed un chorus molto “catchy” nel blocco iniziale, una parte tirata ed il rallentamento finale con le digressioni del moog-synth, in definitiva racchiude tutto quello che facciamo ed è il degno finale dell’album! A livello lirico si riallaccia a ‘Black Curse’ ed è basato sui fatti della Peste del 1347. È stato uno dei nostri timidi tentativi di introdurre altri strumenti in questo album, probabilmente per alcuni brani in futuro continueremo su questa via.
Passiamo ora al nome dell’album: cosa hanno di così particolare i funerali al sud?
Quelli di tanto tempo fa conservavano ancora quel fattore ancestrale fatto di misericordia, struggevolezza, passione e folklore. Ho cercato di catturare quelle sensazioni e i ricordi di epoche passate per far rivivere il culto della morte secondo la tradizione meridionale. In realtà, il ‘Funerale del Sud’ è anche una metafora dell’attuale condizione della nostra terra d’origine.
Favoloso l’artwork, supera in bellezza anche quello dell’esordio, chi se n’è occupato?
È sempre Rossella “Roxhell” Battista ad occuparsi dell’ artwork delle nostre copertine. Rox è una nostra carissima amica, è una tatuatrice e illustratrice, il suo stile traditional e visionario si fonde bene con il nostro concept, amiamo lo stesso genere di musica e di arte quindi ci troviamo in perfetta sintonia! È incredibile come riesca a tirare fuori esattamente quello che le chiedo basandosi semplicemente su degli scarabocchi che le disegno ogni volta per farle capire cosa voglio, riesce a cogliere perfettamente l’idea per la cover confrontandosi anche con i riferimenti che le porto e la interpreta con il suo stile particolare. Credo sia importante che la gente veda le nostre copertine ed immediatamente le associ alla band e al nostro stile, sopratutto di questi tempi è fondamentale essere facilmente identificabili, e Rox ha fatto un lavoro eccezionale sinora!
Il doom è sempre stato un genere di nicchia, ma in questi ultimi anni sta avendo un picco inaspettato di notorietà. Preferisci la situazione attuale o credi che si stava meglio quando certe sonorità erano ad appannaggio di una stretta cerchia di ascoltatori?
Il doom è trendy oggigiorno! Lo vedi anche dal fatto che è più probabile che un gruppo di ragazzini oggi metta in piedi una band stoner o doom piuttosto che una death metal. Ci sono nuove realtà fighe in giro ma chiaramente l’altra faccia della medaglia è che molti, saltando sul carro del vincitore, non fanno altro che saturare la scena. Comunque non è un problema di genere, l’inflazionamento è totale e riguarda l’ intera industria musicale odierna, ed è esattamente pari a quello che sta succedendo in altri ambiti dell’arte, vedi cinema, fotografia, grafica, etc… etc… È facile per tutti oggi mettere insieme una band, fare un disco ed andare in tour. La meritocrazia e la qualità sono andate a farsi benedire, basta tirare fuori dei soldi ed i giochi sono fatti. Per cui attualmente tutti suonano e nessuno va a vedere i concerti e acquista dischi.
Ecco, hai toccato un tasto dolente. Sei sempre in giro grazie alla tua attività di drumtech e tour manager, quanto è distante la realtà live italiana da quella degli altri Paesi? Con realtà live intendo a livello di infrastrutture ma anche di audience ai concerti e tutto ciò che circonda un evento dal vivo.
Per quella che è la mia esperienza la differenza c’è e la notano sopratutto le band straniere con cui lavoro quando vengono in Italia. A meno che non si tratti di spettacoli di un certo livello – parliamo di grosse produzioni – nel nostro Paese il pubblico ai concerti è molto esiguo, l’accoglienza inesistente e per quanto riguarda le infrastrutture il più delle volte chiamarle così è un eufemismo. Purtroppo manca la cultura in Italia di supportare l’underground ed in generale la cultura musicale è molto limitata, la gente va a vedere i soliti quattro nomi mainstream perché conosce solo quelli! Allora il promoter di eventi piccoli tira fuori le braccine da T-rex perché giustamente non vuole rischiare di perdere soldi. Per questo, la norma è che finisci a fare spettacoli in location che, la maggior parte delle volte, non sono preposte per un evento live e in condizioni tecniche non adeguate. E’ un cane che si morde la coda, e in un certo senso capisco anche la malavoglia dei promoter nell’investire! Tranne che in alcuni casi, la situazione è progressivamente peggiorata, mentre all’estero, per quanto anche lì si registri una flessione nelle presenze ai concerti, si rimane comunque sopra un certo livello, sia di pubblico che di professionalità. Quello dell’Italia è di sussistenza, diciamo. È davvero un peccato!
Mettiamo da parte per il momento la triste le realtà che viviamo, è torniamo a cose più piacevoli. Nelle tue scorribande europee hai raccolto cimeli vari in vinile, a sto punto mi viene da chiederti: quali sono i 5 album senza i quali oggi i The Ossuary non esisterebbero?
Ti cito i primi che mi vengono in mente e, ovviamente, sono molti più di cinque: ‘Sabbath Bloody Sabbath’, ‘Melissa’, ‘Iron Maiden’, ‘Sad Wings of Destiny’, ‘Flight by Night’, ‘Tokyo Tapes’, ‘Relentless’, ‘Bloody Kisses’, ‘Death Penalty’, ‘Born Too Late’, ‘Reign in Blood’, ‘Grand Funk’, ‘In Rock’, ‘Rising’, ‘In-A-Gadda-Da-Vida’, ‘Overkill’, ‘Angel Witch’, ‘Outsideinside’, ‘Captain Beyond’, ‘Phenomenon’, ‘Benefit’, ‘One Way or Another’, ‘Tarkus’, ‘Growers of Mushrooms’ e la lista potrebbe continuare all’infinito…