Orphaned Land – Out Of The Cave
Il 08/02/2018, di Dario Cattaneo.
‘Nessuno è profeta in patria’ diceva Gesù di Nazareth a fronte della fredda accoglienza ricevuta dai propri conterranei. A riguardo di questo noto adagio però, c’è da dire che la compagnia di musicisti (e che musicisti!) capitanata da Kobi Fahri, ad essere in qualche modo ‘profeti’ ci prova fortemente, sia in patria che fuori. Forti di un concept che parla dell’ottusità che si cela dietro l’apatia dell’umanità nei confronti delle cose importati, gli Orphaned Land ci regalano un altro disco che, oltre a una musica quantomai bellissima, ci regala anche molti spunti su cui ragionare nelle parole in essa incluse. Di alcuni di questi spunti abbiamo avuto la fortuna di parlare con Kobi Fahri, frontman e scrittore principale della band.
Ciao Kobi. Anche questa volta non possiamo certo dire che il nuovo Orphaned Land sia arrivato molto presto… abbiamo aspettato cinque anni! Le lavorazioni di ‘Unsung Prophets And Dead Messiahs’ sono state davvero così lunghe o ci sono altri motivi dietro questo gap temporale?
“La lavorazione di questo album ha richiesto davvero molte ore di lavoro. Tantissime. Però penso che, ascoltandolo, il risultato possa ampiamente giustificare tutta la fatica che vi è stato riversata. Sentendo i pareri sulla band in giro per la rete, leggiamo spesso che i nostri fan vorrebbero dischi con una cadenza maggiore… a parte farmi piacere sapere che così tanta gente aspetta un nostro album, posso anche essere d’accordo sul fatto che quattro o cinque anni per preparare un nuovo album possano sembrare tanti. Però so anche che ad ogni album cerchiamo di progredire almeno un po’, di raggiungere un nuovo livello, e un percorso di questo tipo richiede tempo, almeno per noi. Su questo nuovo album puoi quasi sentire tre band in azione: una band heavy più classica, una band progressive dai forti connotati etnici e una band praticamente death metal! Far convivere questi tre tipi di approccio richiede innumerevoli layer di registrazione, e ore e ore in consolle… abbiamo fatto fatica a ricordarci su quale traccia fossero i violini, su quale ci fossero gli strumenti come l’oud o il saz, su quali fossero i cori… è stato come fare un puzzle, ma alla fine ogni pezzo è andato al suo posto”.
Hai detto una cosa interessante parlando del fatto che diverse anime musicali convinvono nel vostor sound… cercate attivamente di bilanciare le influenze prog, death e heavy o questo risultato vi esce spontaneamente?
“Il bilanciamento di cui parli c’è, e deriva dalle emozioni che vogliamo trasmettere con questo lavoro. ‘Unsung Prophets and Dead Messiahs’ è un opera complessa, con un concetto sottostante importante, e tratta quindi di un range ampio di emozioni. Mi piace pensarlo come un quadro della vita, dell’umanità, e vi troviamo rappresentati eventi e tragedie. Ci sono rabbia, paura, e volendo anche gioia ed altre emozioni forti. Ognuna di queste – nella mia mente – ha un mezzo adeguato per essere espressa: ad esempio il growl è la maniera più spontanea che ho per esprimere la rabbia, mentre altre emozioni hanno bisogno di un cantato meno arrabbiato, ma più intenso. Ogni emozione trova la propria rappresentazione in un tipo di musica, ed è per questo che il risultato finale è così eclettico. Per dipingere un’immagine così vasta, abbiamo usato tanti colori”.
Mi aggancio ancora a una tua frase. Hai parlato di un concept preciso… ce ne parli?
“Il concept principale si appoggia su un opera del passato, la ‘Allegoria della Caverna’ del filosofo greco Platone. Lui scrisse questa storia come allegoria del comportamento del genere umano, partendo dall’uccisione di Socrate effettuata dalla sua stessa gente. Platone non capiva come si potesse uccidere un uomo che rappresentava un simile dono per l’umanità, come si potesse uccidere qualcuno dotato di tale conoscenza e saggezza. Platone ipotizzò quindi una situazione che vedeva l’umanità vivere in una caverna, e vedendo solo le ombre della realtà fuori dalla grotta, convinti che quelle ombre fossero la realtà. E capì che, forte di quella convinzione, l’umanità in realtà non vuole lasciare la caverna. Ed è per questo che tenta di uccidere chiunque cerchi, grazie alle proprie illuminazioni, di tirarla fuori da lì”.
Immagino però che questa allegoria l’abbiate attualizzata a quanto succede anche adesso…
“Esatto, abbiamo trasposto l’allegoria agli eventi anche dei giorni nostri, adattandola a qualcosa di più recente. Ogni volta che un individuo che possiamo considerare un rivoluzionario viene all’umanità tentando di tirarla fuori dall’oscurità, l’umanità decide di eliminarlo. Che si tratti di Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Che Guevara o altri, sono tanti i rivoluzionari che sono stati uccisi per il messaggio che portavano. Abbiamo quindi pensato a Platone come a un profeta, dopotutto scrisse la sua allegoria che così bene dipinge anche il mondo odierno ben duemilacinquecento anni fa, mentre i rivoluzionari di cui si parla nelle canzoni sono i ‘messia morti’ del titolo. Abbiamo scelto questo parallelismo con le religioni per sottolineare come sempre la gente dà la colpa a politica e filosofia per il fatto di non uscire da determinate situazioni, ma alla fine della storia è la gente stessa a non voler mettere il naso fuori dalla caverna”.
Mi pare di dedurre che ti piace tenerti informato, e hai un grande interesse sui risvolti sociologici e comportamentali. Leggi molto al riguardo?
“In effetti sì, leggo molto in generale, e mi piace leggere cose che mi fanno pensare. Cose che ritengo ‘informative’. Vivo il bisogno di informazione come parte di un continuo processo di automiglioramento, quindi di fatto rimango poco interessato a chiacchiere inutili sull’ultima stagione del Grande Fratello o cose simili. In casa mia difficilmente vedrai una televisione accesa, a meno che non cerchi proprio io un programma specifico…”.
Ritornando a questa gestazione così lunga, lavorare in studio per così tanto tempo è un peso per te? In molti sarebbero impazziti per un mixing complicato come quello di ‘Unsung Prophets And Dead Messiahs’…
“Lavorare in studio è duro, ma non è nemmeno così brutto come dicono in molti. È un momento creativo, vi sono diversi momenti di soddisfazione e anche felicità, una volta che il lavoro è finito e lo vedi pronto. Però, è un momento solitario. Sei tu, chi lavora in consolle, magari i compagni della band, ma tutti conosciamo l’album, ci lavoriamo. Non c’è un feedback, non lo vedi funzionare. Sul palco, la gente davanti a te interagisce, ed è lì che l’album cui hai lavorato diventa un vero dialogo!”.
Su questo disco si notano diverse collaborazioni. Sono importanti per lo sviluppo delle tue capacità musicali e nell’economia dell’album?
“Le collaborazioni sono certo importanti per lo sviluppo della mia personalità musicale. Ma non solo le collaborazioni esterne, come quelle avute con Tompa e Hunsi per questo album, intendo anche collaborare con i miei stessi compagni. Negli Orphaned Land non c’è un leader, ognuno mette la propria voce, la propria idea, e scriviamo a più mani, questo permette anche quella ricchezza e quell’ecletticità di cui parlavamo prima. Per quanto riguarda invece gli ospiti ‘esterni’, anche in quel caso la collaborazione stretta è importantissima. Prendi la canzone su cui canta Hansi Kürsch, dei Blind Guardian, ‘Like Orpheus’. È la parte di concept dove uno dei nostri messia esce dalla caverna, e vede la realtà per come è davvero. Quando si è spiegato il concetto a Hansi, lui l’ha capito. Abbiamo collaborato strettamente, e lui non è solo un cantante, ma un vero e proprio attore nella nostro opera. Lo stesso vale per Tompa, la sua timbrica violenta nel growl era il mezzo giusto per esplicitare la nostra rabbia nel considerare l’ostinazione delle genti a rimanere nella propria caverna…”.