Meshuggah – In Tutti I Sistemi Di Riferimento
Il 02/04/2017, di Fabio Magliano.
Cosa sono veramente i Meshuggah? Un gruppo di pazzi furiosi, il massimo possibile della complicazione metal, un picco impossibile di durezza, un misto di queste cose o qualcos’altro ancora? Un Noto Ex Giornalista Metal, lascia momentaneamente la sua chiesetta sperduta nella neve e torna (temporaneamente) in un backstage metal per parlare con Dick Lovgren e Marten Hagstrom dei Meshuggah e capirci finalmente qualcosa dopo tanti anni.
Mentre spingo il pedale dell’acceleratore sull’autostrada per Milano, piano piano si fa largo in me, non senza un po’ di tensione, la coscienza del fatto per la prima volta da 15 anni sto andando ad intervistare un gruppo. E non esattamente “un gruppo”, ma, almeno per me, IL gruppo. Perché quasi nessuno come i Meshuggah (e forse i Nevermore) è riuscito a tenere viva dentro di me una fiamma che quindici anni fa, improvvisamente, si era ridotta ad un lumicino.
La mia relazione con i Meshuggah comincia con una stroncatura mai rinnegata (quella del loro primo, acerbo “Contradiction Collapse”) e continua con un colpo di fulmine per il terzo disco “Chaosphere”. A cui seguì, già quando avevo smesso di scrivere, un amore cupo e per certi versi ossessivo, il tipo di amore che si prova verso qualcosa che si crede di capire più di quanto lo capiscano gli altri. Ma in un senso adulto che non siamo abituati ad associare alla musica metal. Con “Nothing” e soprattutto con “Catch 33”, mi sono trovato di fronte un oggetto che mi affascinava e spaventava. “Spasm” e “”Perpetual Black Second” mi parlavano cose che conoscevo fin troppo bene, quasi come se fossero state fatte per me. “Catch 33” per mesi, fu una colonna sonora in loop. Con “Obzen” , la cui fredda perfezione mi prese di sorpresa – ero convinto che dopo “Catch 33” sarebbe arrivato il declino – il loop divenne quotidiano rumore di fondo. Per quasi un anno l’Ipod non trasmise altro. La sorpresa quattro anni dopo (nel 2012) non fu la qualità – a quel punto mi ero rassegnato all’idea di un gruppo impossibilitato a non stupirmi – bensì il suono, immensamente più granitico e caldo del precedente, e soprattutto le contorsioni di “Swarm”, Il CD rimase per quattro anni ospite dello stereo della mia macchina. Per essere sostituito questo ottobre da “Violent Sleep Of Reason”, che ovviamente suona ad un volume spaventoso mentre guido nella pià classica delle nebbie lombarde.
Ma in testa girano tante cose. Ricordi di altre interviste, flashback di eventi degli ultimi 15 anni, e chissà perchè (ma neanche tanto) immagini di lezioni di fisica, i video dei corsi di Teoria Della Relatività che ho divorato in modo disordinato qualche anno fa e che mi capita di vedere tutt’ora nelle pause del lavoro. L’associazione fra i Meshuggah e la matematica è diventata un luogo comune, quasi una barzelletta, e mi sono ripromesso di evitarla, se possibile, durante l’intervista. Ma chissà perché (stasera i chissà perché si sprecano) mi ritorna sempre in mente la stessa frase:
“Valido in tutti i sistemi di riferimento”
Nel frattempo “Violent Sleep of Reason” fa tremare i vetri dell’auto. E’ il disco più bello che i Meshuggah abbiano fatto dai tempi “Catch 33”. Bello in un senso viscerale, quasi immediato. Si è detto molto sul fatto che è il primo disco da anni che la band registra tutti insieme in uno studio, ma la mia sensazione è che più che il metodo di registrazione, abbia potuto la presenza di Dick Lovgren, il bassissta della band, come co-autore di quasi tutti i pezzi, sostituendo Frederick Thordendal /che era impegnato con il suo side project Special Defects). I primi quattro pezzi, da “Clockworks” a “By The Ton” sono magnifici, sembrano disegnati solo per scaldare i motori. Ma dalla title track in poi, il disco decolla ad un livello che, al primo ascolto, mi ha lasciato quasi sbigottito. Soprattutto il sinistro valzer di “Ivory Tower” e il suo doppio,, la preghiera radioattiva di “Our Rage Won’t” Die”, Ma anche gli altri – il groove (parola odiosa!) di “Stilted”, il mosaico di “Nostrum”, e la cattiveria di “Into Decay”. Avrei tante cose da chiedere su questi pezzi, ma mi chiedo se ho le parole per farlo.
Quando arrivo al club Alcatraz dove si terrà il concerto, in orario perfetto, c’è già una coda che fa il giro dell’isolato. Segno che sono in molti a condividere il mio entusiasmo per il disco. Mi viene a prendere il tour manager che mi accompagna nel backstage. Qui mi attende una sorpresa. Forse le cose in 15 anni sono cambiate moltissimo. O forse i Meshuggah sono veramente un gruppo diverso dagli altri. Fatto sta che se buttando un’occhiata nel camerino dei supporter High On Fire riconosco il solito svacco da backstage, tutto birra, fidanzate del gruppo e musica a palla, la parte occupata dai Meshuggah sembra un altro pianeta. Tutto è ordinato, quasi pulito – per quanto possa essere pulito un backstage! Il crew del gruppo, tutti ragazzi giovanissimi e simpatici che lavorano da tempo con la band. alternano movimenti da e per il palco o all’interno del backstage con una velocità e una precisione che mi fanno venir voglia di stare li a guardarli per ore.
Una vocina mi dice che mi sto facendo prendere un po’ troppo dalla mistica dei Meshuggah “gruppo alieno”, e in effetti, mentre sono seduto in una stanzetta assieme a Dick e al resto del crew, aspettando che Marten Hagstrom, uno dei due chitarristi finisca un’altra intervista, l’impressione ritorna ad essere quella di normalissimi ragazzi con i capelli lunghi e un vestiario colorito, alla fine di una lunga giornata di lavoro piuttosto duro. Edvard Hansson, il tecnico delle luci che farà spettacolare mostra della sua arte durante il concerto è impegnato dietro qualche complicato lavoro con il computer, mentre Dick e gli altri sentono musica e bevono (acqua – altra novità per uno della vecchia scuola come me). La conversazione è diventa immediatamente molto varia. Dick è un fan di Gomorra, la serie televisiva, e vuole sapere tutto su quanto la serie rifletta o meno la realtà. Scopro parecchie cose: che la Svezia è diventata un paese più violento di quello che immaginavo. Che i Meshuggah e il loro crew sono tutti parenti oppure vecchi amici, oppure legati da contatti extra-musicali. Scopro anche che Dick sembra perfettamente a suo agio con il suo ruolo di “nuovo compositore” dei Meshuggah, anche se ha dovuto aspettare l’ottavo disco della band per riuscire ad esprimerlo pienamente.
“Prima non c’è stata l’occasione, e questa volta avevo il materiale”.
Però c’è stata una svolta in tanti altri sensi, per esempio il modo con cui avete registrato il materiale…
“In realtà è successo che per la prima volta dopo anni io e Tomas abbiamo avuto la possibilità di trovarci assieme in studio per registrare un disco, cosa che, per via della distanza fisica fra di noi (Dick abita vicino a Goteborg, il resto della band si divide fra Umea nel nord della Svezia e Stoccolma) normalmente non avveniva. Una specie di ping pong fra me e Tomas (Haake, batterista della band e principale autore dei testi). Lui partiva con un’idea, io ci aggiungevo delle cose, gli altri pure, un processo circolare di scambio di idee. L’importante in un gruppo come i Meshuggah è che tutti abbiano la loro voce… altrimenti prima o poi qualcuno userà la sua voce per fare altro (quest’ultima frase è seguita da un sorrisetto sornione).”
Gli chiedo se secondo lui tecnicamente questo è stato un album difficile da registrare:
“Non so cosa intendi per “difficile” – la composizione è sempre la fase in cui in qualche modo c’è la tensione, la paura di non riuscire a fare il disco che volevi fare… dopo tutto lo scopo di un gruppo è produrre buona musica no? E noi comunque a produrre pezzi nuovi ci mettiamo molto, è un processo complicato… poi dal punto di vista della registrazione pura è stato molto diverso dagli altri, siamo stati molto di più assieme in studio, e poi il mio ruolo in qualche modo è stato diverso, se provi ad ascoltare il disco, c’è molto più basso in un modo”separato” dal resto degli strumenti, il che è un bene (ride), e se devi fare in modo che il basso non sia solo un’altra chitarra ritmica… non è per niente facile, credimi…
“Ho sempre suonato il basso, sempre stato bassista. Come tanti ho cominciato perchè sentivo i gruppi metal con bassisti che facevano cose fuori dal comune… non voglio dire grandi virtuosi, dico bassisti che esprimevano qualcosa che ti faceva pensare wow, che figata. Cliff Burton era uno…. ma credo che la mia principale influenza da “piccolo” sia stato Joe Patitucci, un bassista jazz che ha suonato praticamente con tutti i grandi. Ma oltre a lui ci sono tutti i grandi bassisti jazz. Il jazz per me è stato formativo.”
Ma tu avevi iniziato con il contrabbasso jazz?
“No, no (ride) con il basso elettrico, sempre suonato il basso elettrico.”
Quindi sei un appassionato di jazz?
“Sì! E’ una musica dove “capitano” un sacco di cose, ci sono così tanti stili e suoni e idee differenti. E’ una grande fonte di ispirazione”
Il fatto di avere questa formazione jazzistica ti ha aiutato con i Meshuggah? Voglio dire, il clichèe è che siete un gruppo complicatissimo… Lui rotea gli occhi divertito e scoppia in una risata, come se questa frase l’avesse sentita diecimila volte
“Ma no! Voglio dire non ci sono TUTTI questi pezzi strampalati e impossibili da suonare, se chiedi a qualcuno che suona il basso te lo potrà confermare… non siamo un gruppo di fissati con il virtuosismo, davvero! La parte che porta via più tempo è quella compositiva. Soprattutto in questo ultimo disco, trovare l’idea giusta ha richiesto un bel po’ di comunicazione avanti e indietro soprattutto con Tomas. E gli altri a questo punto potevano dire la loro.”
Vuoi dire a Marten e Frederick?
“Sì! E’ una procedura che potrebbe sembrare complicata ma ti assicuro, dopo anni di tentativi e aggiustamenti in realtà è una specie di dialogo, capisci? Insomma, segui una specie di vibrazione, che magari parte da Tomas e allora io e poi gli altri la seguiamo…. (si gratta la barba come se in effetti seguisse un ricordo). E’ un dialogo, una specie di partita a tennis, ma il trucco è che in qualche modo dobbiamo tutti seguire quell’idea, quel… come dire, quella vibrazione. In pratica l’idea è che tutti devono avere la possibilità di esprimersi al meglio delle loro capacità e del loro vocabolario musicale, ma in qualche modo questo deve rientrare all’interno di una specie di…. di indicazione coerente che da un senso al pezzo.”
Non credi che molta musica classica veniva composta così?
“Non lo so, può essere, non ho mai fatto musica classica! (Ride) Però c’è un po’ questa cosa dell’orchestra, del fatto che il pezzo funziona se tutti partecipano nel modo giusto e nessuno piglia il sopravvento”
Nel frattempo Marten si è liberato, e quindi lascio Dick al suo relax pre concerto, e entro nella stanzetta dove Marten mi aspetta. Ha l’aria tirata e stanca, e non ha particolari dubbi sul fatto che la vita on the road non è tutta rose e fiori
“E’ facile ad un certo punto farsi delle domande sulle priorità, tutti parlano di priorità, ma poi… voglio dire, prendi la mia situazione, io sono divorziato, ho un figlio, non è facile… ma voglio dire, non è che puoi girarci in torno, ci sono delle priorità di cui devi tenere conto, ma non è per niente facile… ieri tieni presente, era il compleanno di mio figlio, e io ero a Bologna… cioè non è la prima volta che manco al suo compleanno. Ha otto anni, e non è una bella cosa… quella è la parte di tutto questo che odio (fa un gesto dandosi un pugno sul palmo della mano). uonare non è solo divertirsi, è anche un lavoro, con le priorità e precisi doveri e responsabilità. Dura per chi è cresciuto con un certo mito, ma è così. Non è nulla di specifico rispetto a stasera, chiaramente suonare è la mia vita, ma insomma ci sono quelle volte in cui qualche mio amico mi presenta un suo amico che non sa niente di me o dei Meshuggah e allora saltano fuori i soliti discorsi sulla musica e loro sono tutti…. oooooooooh, sei un musicista, che bello ma allora TU VIAGGI UN SACCO, e a me viene solo in mente…. mavaffanculo, ho fatto questo sbattimento dei viaggi per 25 anni, ed è stato divertente solo i primi cinque!”
Gli viene da ridere, ma è una risata a denti stretti. Capisco che è il caso di cambiare argomento. L’impressione che ho sempre avuto dei Meshuggah è che la loro longevità deriva dal cercare di trascendere le limitazioni del genere, usare il metal per “dire altro…”.
“Non c’è un segreto. Davvero. Questa è la risposta ovvia – la risposta ovvia è sempre la più semplice… cosa posso dirti? La prima volta che ho preso in mano la chitarra è stato per provare a suonare gli accordi di “Smoke On The Water” dei Deep Purple… lo abbiamo fatto tutti no? Però la differenza è che dopo un paio di mesi che sapevo suonare quel paio di riff… mi è venuta subito la voglia di farne di miei, fare la mia musica. E’ un riflesso condizionato, una cosa che ho da quando avevo 12 anni. E bada bene non è che la prima cosa che ti viene in mente è “voglio campare facendo il musicista”, quello c’è ma dopo. La prima cosa è il piacere di creare della musica nuova che risenti e almeno sul momento di piace… dopo magari no! (ride). Capisci alla tua domanda non c’è una risposta assennata, potrei solo tirare ad indovinare per darti una risposta soddisfacente…”
Quindi in pratica è un po’ andare a tentoni, cercando una nuova direzione?
“Siiiii…. ma senti, prima hai detto una cosa interessante, “dire altro” con il linguaggio del metal… allora, secondo noi – parlo di tutto il gruppo – questo è l’unico modo in cui il linguaggio del metal deve essere parlato…
Ho sempre pensato la stessa cosa almeno dai tempi in cui avete fatto uscire “Chaosphere”… la mia sensazione era che o si andava in quella direzione oppure il metal sarebbe andato a pezzi…
“Alla fine degli anni 90 è arrivato un sacco di persone che in realtà non appartenevano al mondo del metal e che hanno cominciato a fare un sacco di soldi a spese dei gruppi, rovinandone tantissimi, magari mangiandosi tutti i loro soldi una volta che questi facevano un po’ di successo… e hanno tentato di impacchettare il metal in un contesto che non era mai stato “quello”, trasformarlo in un’altra cosa, secondo me una parodia…”
Comunque c’è sempre stato un sacco di humour nella musica dei Meshuggah… per esempio non hai l’impressione che “Violent Sleep of Reason” sia un disco fatto da due parti, una iniziale più leggera e una seconda, dalla title track in poi il tono cambia parecchio?
“Sì, sono d’accordo, non che sia sta una cosa conscia, decisa all’inizio, ma vedi, nel modo in cui abbiamo messo il disco assieme, volevamo che in qualche modo l’elemento dinamico del disco ad un certo punto fosse diciamo, non sfumasse… invece che mettersi li e dire “oh, vogliamo che il disco cominci con un pezzo veloce” oppure “a qui dobbiamo mettere un pezzo durissimo” e simili. Cioè non credere, lo abbiamo fatto anche noi, ma da un certo punto in poi c’è stata questa cosa, diciamo da Catch 33 in poi in cui tutti i dischi sono una specie di viaggio alla ricerca… alla ricerca di quello che è il passaggio più duro, più “groovy”, oppure più lento e pesante… e qui quell’elemento, quello di Catch 33, l’idea che il pezzo duro o pesante o il groove funzionano se mandano il disco da qualche parte, se lo fanno progredire. E la progressione di questo disco era la vecchia idea nostra che il tempo inevitabilmente progredisca nella decadenza, nello sfacelo… che poi è il titolo dell’ultimo pezzo del disco, “Into Decay”. E quindi direi di si, come dici, inizia in qualche modo come un disco che deve acchiappare l’attenzione dell’ascoltatore, non necessariamente in un modo cupo, se senti il primo pezzo, “Clockwork”, decisamente serve per catturare l’orecchio di ascolta… magari non è un pezzo particolarmente orecchiabile, anzi! (ride) e uno si dice, ok, che sta capitando qui? E poi ci sono alcuni pezzi più accessibili, con più groove… e questo serve per mettere l’ascoltatore in una specie di finta zona di comfort così poi… bam! Arriva il muro contro cui sbatti da “Violent Sleep” in poi… ma non è uno sforzo conscio, è un sistema per far progredire il disco in modo naturale…
Il fatto che, sorprendentemente per un gruppo metal, siete una formazione praticamente stabile da 25 anni, secondo te che ruolo ha avuto in tutto ciò?
“Sì in qualche modo la stabilità della formazione aiuta tutti ad avere una voce, e il fatto che tutti abbiano avuto una voce mantiene la formazione stabile e quindi mantiene continua la capacità del gruppo di esprimersi al massimo dei livelli possibili… ma… (sospira) vedi è dannatamente difficile esprimere “consciamente” queste cose… la realtà è che non c’è mai una vera strategia, le cose capitano, buone o brutte che siano… sai è facilissimo con il senno di poi analizzare perché cinque anni prima hai fatto o non hai fatto questo, e pensare “era la decisione giusta” o quella sbagliata ma la realtà è che le cose in un gruppo capitano, e spesso non ci puoi fare niente… c’è un abisso fra quello che analizzi cinque anni dopo (o dieci o venti) e ammettere con sincerità che al momento in cui si trattava di prendere delle decisioni, in pratica sei andato a naso, sei stato fortunato… se sei in un gruppo, vivi in una specie di bolla da cui è difficile venire fuori per guardare se stessi…
“Senti, ho appena fatto un’intervista con un’altra rivista… le domande di per se stesso non erano rilevanti, ma girano sempre intorno al “come abbiamo fatto questo e quello”. E una domanda, in particolare una, mentre stavo rispondendo mi sono reso conto che poi tutto ruota attorno alla nostra capacità di fare un certo tipo di musica… e la realtà… la realtà è che eravamo un gruppetto di ragazzini, io e Tomas ci conosciamo da quando siamo bambini… e il trucco in qualche modo, che non è un trucco, è scoprire che hai questi gusti artistici e musicali in comune, e cercare qualcun altro che li condivida… poi non è che sia importante molto di altro, ti ritrovi con le persone giuste per fare il gruppo che vuoi, al momento giusto, e avere la possibilità di esprimersi, di tirare fuori quello che hai dentro… vale più quello di qualsiasi pensata fatta a tavolino, o colpo di genio temporaneo, contano le persone giuste… io e Tomas ci conosciamo da quando andavamo all’asilo…e poi abbiamo cominciato a cercare assieme persone che abitassero nelle vicinanze… è importante che siano persone che in qualche modo condividano lo stesso ambiente in cui sei vissuto tu… insomma cercare persone con gli stessi gusti che volessero esprimere qualcosa in questa direzione… e quando cominci così presto, quando sei un ragazzino, a scambiare impressioni sulla musica e magari a dire questo è bello, questo è una stronzata… è MOLTO difficile capire esattamente perché fai questo o quello una volta che fai partire un gruppo. Quando incominci a mischiare le tue influenze e le tue passioni artistiche o altro fin da quando sei giovanissimo… poi diventa impossibile capire esattamente perché 30 anni dopo fai con il gruppo la musica che fai.. le tracce originali si sono perse….”
“Mi capita a volta di parlare con altri musicisti… per esempio con Matt, degli High On Fire (il gruppo di supporto al tour) e lui è veramente entusiasta delle cose che fa, addirittura più “energizzato” di quanto possiamo esserlo noi, è anche un fatto anagrafico, comunque non credo che si ponga mai la domanda di dove siano le origini della sua musica oppure su come possa mettere una nota qui o la per cambiarla o migliorarla… e neanche noi… non abbiamo un sistema di riferimento come quello, non abbiamo un sistema di riferimento preferito…”
Gli faccio presente che “sistema di rifermento preferito” era la frase che mi sta girando in testa da quando so che devo intervistarli…
“Sì… oddio a questo punto probabilmente i tuoi lettori troveranno tutto così pretenzioso… ma… dopo tutto lo scopo principale dei Meshuggah, al di la della musica è quella di permettere di guardare attraverso tutti gli strati che in qualche modo fanno la realtà… cioè, puoi pensare che esistano degli strati, dei livelli che compongono la realtà. E se non li metti assieme nel modo giusto oppure non li guardi nella prospettiva giusta… la realtà smette di avere senso! A meno che tu riesca a guardare attraverso tutto questo e capire cosa tiene tutto insieme, cosa tiene assieme la realtà… in un qualche modo stiamo cercando di fare per la musica quello che fa per la realtà il calcolo infinitesimale… per usare un paragone matematico un po’ assurdo! Ma se ci pensi è vero, dopo tutto cerchiamo di spiegare a tutti tramite un linguaggio universale quelli che sono dei concetti di per se stessi incomprensibili., perfino a noi. Il solito paradosso.. “(ride)
Ma quindi tu e Tomas avevate in comune passioni che andavano oltre la musica…
“Sì! Anzi, all’inizio la musica forse non era manco la cosa più importante… la prima passione era la letteratura horror… poi è venuta la musica, e ad un certo punto ci siamo resi conto che suonare era più importante che vedere film horror oppure essere interessati a tutte quelle cose tetre e oscure… sai come sono i ragazzini! Finisci ad un certo punto per mollare certi amici ed invece rimanere in contatto con altri, e quelli poi diventano importanti per tutto il resto della vita. Se ci pensi non è niente di che, sono cose che tutti quanti abbiamo vissuto, però credimi, è importante suonare o vivere la musica con persone che conosci da tutta la vita. Ci sono delle volte che certe cose non le devi manco dire a voce, le pensi quasi simultaneamente, una specie di telepatia.”
Anche questo è però un elemento di longevità, devi ammetterlo…
“Sì.. però, c’è questo elemento costante in quello che facciamo… voglio dire, se ci pensi è buffo, tutta la storia del math metal… ”
Metto le mani avanti spiegando che non sto cercando di che i Meshuggah fanno math metal…
“No ok, l’ho capito, però stai cercando di capire da dove veniamo dal punto di vista.. filosofico? E quegli elementi di cui abbiamo parlato, tengono veramente assieme il tutto. Mentre la maggior parte della gente, salta fuori la storia del math metal ed è ridotta a “oddio quanto siete complicati, come fate a memorizzare tutti quei cambi di tempo, avete delle tecniche speciali?” E la gente ti viene a chiedere se fai math metal. E vuoi sapere una cosa? Secondo me il math metal sono gli AC/DC! Cosa c’è di più matematico del 4/4! Mentre noi siamo qui che cerchiamo di distrorcere la visuale, a distorcere gli oggetti.. così se ci pensi la gente incomincia a preoccuparsi e a cercare dei sistemi di riferimento, quelli di cui abbiamo parlato prima. “Dove è il mio punto di riferimento?”. Beh, noi non siamo come gruppo per quel tipo di pubblico, Siamo per quelli che sono in grado di accettare che…. PUM! (mima un pugno contro il muro) ma che poi voglio in qualche modo scoprire quello che c’è oltre quel ‘pum’.”
Il che mi fa venire in mente Catch 33. Che è un disco che stranamente mi sembra abbia parecchio in comune con “TVSOR”, anche se quest’ultimo è più accessibile. Sono due dischi composti con uno stato mentale simile?
“No! Proprio il contrario! Catch 33 eravamo tutti noi attorno ad un computer componendo la musica tutti insieme simultaneamente. “Simultaneamente” nel senso letterale della parola. Mai fatto niente del genere prima, e mai fatto niente del genere dopo. Il motivo per cui TVSOR ti ricorda Catch 33 è per via di Dick (Lovgren, il bassista). Dick è arrivato all’epoca di Catch 33, e… il suo disco preferito era Nothing (Chaosphere non gli diceva molto) e lui ha cominciato a scrivere proprio per quel disco, anche se in fase di registrazione il basso era campionato. Lui e Tomas hanno scritto la musica assieme in studio a Stoccolma, io invece ho fatto le mie parti da casa. Strano perché per me era come essere un satellite che gira attorno ad un altro pianeta, e osservava il loro processo compositivo da lontano. Dick ha secondo me, magari inconsciamente, inserito all’interno di quel processo compositivo tantissime cose che in qualche modo gli erano venute da C33.”
“Questo disco è la prima volta in cui ho scritto i miei riff avendo bene in testa quello che stavano facendo gli altri (Dick e Tomas). In tutti i dischi precedenti scrivevo tipo “Hey, sentite qui che bello, e poi c’è questo e quello etc). E poi Tomas oppure noi assieme sceglievamo cosa usare. Qui invece era tutto fatto un po’ di rimbalzo sulla traccia fatta da Dick e Tomas. In un certo senso è meglio perché ormai ci conosciamo così bene che sono stato in grado di “prevedere” dove Tomas voleva andare a parare con le sue parti di batteria, e quindi un po’ di rispondere di sponda invece brancolare nel buio. Quando ho sentito dove andava a parare soprattutto con i pezzi della seconda parte del disco, h ho capito che anch’io dovevo in qualche modo aumentare l’intensità.”
Sembra un processo compositivo molto complicato!
“Sì, non è facile, devi mettere tantissimi elementi assieme. Però ripeto, poi lo scopo non è diverso da quello di tutti i gruppi metal del mondo, cioè fare musica di impatto immediato, che ti prende per la gola. Il processo funziona solo quando hai una certa interazione. Non esiste il musicista di un gruppo che si chiude nella sua stanza e confeziona tutto perfettamente, pronto per registrare. Se è così, gli altri membri del gruppo finiscono per essere solo dei turnisti, magare pure frustrati. Ci deve essere interazione.”
“Ma non ci può essere SEMPRE interazione. Il disco con più interazione che abbiamo fatto è stato C33. Ma se avessimo continuato con quel livello di interazione totale fra di noi saremmo finiti in una inevitabile stagnazione. Il processo collasserebbe su sse stesso. Divertente la prima volta che lo fai e ti da quel feeling energizzante “wow non abbiamo mai fatto nulla del genere”. Ma quando lo hai fatto, lo hai fatto. Devi muoverti in avanti.”
Siete un gruppo di successo, anzi, uno dei grandi successi del metal di questi anni, ma allo stesso tempo non siete una “sensazione planetaria”. Non pensate che questa posizione “nel mezzo” sia la migliore per avere la massima libertà artistica possibile, almeno nel mercato attuale?
“Sì! Decisamente! Ci sono due modi per vedere la cosa.. ok, no, ce ne sono di infinite (ride) ma comunque, da un lato sicuramente essere una band di medio successo garantisce certamente un sacco di libertà artistica… dall’altro lato se siamo una band di medio successo commerciale è perché ci prendiamo un sacco di libertà nella musica che un “successo planetario”, come lo chiami tu, non potrebbe avere…. se decidessimo deliberatamente di smettere di prenderci queste libertà… ok, siamo di nuovo al tirare ad indovinare, ma insomma, la musica che facciamo è “roba nostra”, la nostra musica, è una strada che abbiamo intrapreso da anni… per cui dopo un po’ ti rendi conto che non sarai mai un “successo planetario”… noi non siamo quella cosa. Non siamo come un’epidemia globale, un virus che esplode e poi uccide l’organismo ospite e anche il virus finisce. Siamo un virus lento, lento, e la nostra forza è in profondità. Siamo un parassita di successo! Ne parlavamo fra di noi l’altro giorno. Il motivo per cui siamo diventato bravi a riempire posti come questo, cosa che non succedeva prima, è che con l’esplosione del Djent come genere musicale (e non voglio discutere di Djent!) insomma, con l’esplosione di questi talenti musicali in questa direzione, e non sto parlando di maniaci della poliritmia complicata, sto parlando di bravi musicisti… e quindi è molto più facile per il fan del metal “medio” sentire cose complicate e strane in giro, ci sono molti più gruppi, magari non piacciono tutti, ma la “stranezza” nel metal è diventata più comune. Invece quando abbiamo iniziato, anche gente che era appassionata di quello che allora passava per musica estrema… beh, sentivano Chaosphere e ti guardavano, storcevano il naso e ti dicevano “Nahhh, no, non è il mio genere”. C’è un musicista famoso, adesso è un nostro fan, ma dice sempre che la prima volta che ha sentito un nostro disco era a una festa, e si è dovuto sedere e chiedersi “Ok, devo capire che cazzo c’è che non va in questa musica… questa è roba veramente da malati.”
Parliamo ancora per più mezz’ora di tante altre cose – ma le tengo per me, per una futura occasione che potrebbe non esserci. Poi viene il momento che la band deve andare in scena, e un po’ a malincuore mi avvio verso la zona bar dell’Alcatrazz, in attesa che cominci il concerto. La sala è piena all’inverosimile, per cui mi scelgo un posticino in fondo, per godermi lo show e soprattutto le luci, che promettono di essere stellari. E poi il concerto comincia. E come sempre, quando i concerti sono veramente belli, il ricordo è sempre molto più bello delle parole con cui lo esprimi. L’ordinanza “ammazza volumi” del comune di Milano impedisce di godersi appieno i suoni (che sono comunque immacolati), ma tutto il resto bilancia completamente la mancanza del volume. Negli anni i Meshuggah hanno creato, pezzo per pezzo, una non-presenza scenica (Marten la definisce “estremismo minimale”) che vale più di qualsiasi contorsionismo. E’ come se il gruppo fosse talmente sicuro dei propri mezzi musicali, del proprio light show (che è una macchina perfetta, ipnotica – non ho mai visto nulla del genere) e soprattutto dei propri pezzi, che si può permettere di sparire dal palco. Sono tutti praticamente invisibili, tranne Jens Kidman, il cantante. Ed è uno show trascinante, con una presenza femminile fra il pubblico che non ricordavo “ai miei tempi”. Trascinante al punto che perfino il barista di colore dell’Alcatrazz, che non sembra proprio un tipo da metal, si sorprende a battere il ritmo durante “Dancers of a Discordant System”.
E poi finisce, le luci si accendono ed è ora di tornare a casa. L’Alcatrazz deve essere usato per una serata disco, il crew dei Meshuggah sta smontando tutto con una rapidità incredibile, mentre la band si prepara per andare a firmare autografi ad una folla insolitamente variegata che nel frattempo si sta accalcando sul retro del locale. Mi viene la tentazione di confondermi fra i fan e farmi firmare l’autografo. Ma è come se per un attimo mi fossi dimenticato che stasera, dopo quindici anni, sono tornato per un po’ a fare il giornalista metal. Così mi avvio verso la macchina e verso un’ora e mezza di noiosa guida nella nebbia, sull’autostrada. E mentre sto guidando, e per tenermi sveglio metto “Ivory Tower” a ripetizione a tutto volume, mi viene in mente una frase detta da Marten prima di lasciarci:
“Sono arrivato ad un punto della mia carriera in cui parlare della mia musica è diventato impossibile… c’è sempre una distanza enorme, se sei onesto con te stesso, fra le dichiarazioni di intenti che fai sulla tua musica, e i risultati che ottieni. E’ un po’ come quegli esperimenti che fanno a Ginevra, nell’ LHC, dove lanciano particelle a velocità enormi l’una contro l’altra e non sanno veramente cosa otterranno… ma qualche assunzione devi farla. Ci sono delle volte che fai sentire la tua musica al resto della band, e non puoi prevedere la reazione. Se non hai punti di riferimento, è come se buttassi tutto nel vuoto. Non so se hai presente Robert Anton Wilson (l’autore della trilogia fantascientifica “Gli Illuminati”). Quando l’ho letto da ragazzino ero rimasto molto impressionato da quello che scriveva. Voglio dire, è chiaro che era irrazionale, che non ci stava dentro con la sua logica, ma la cosa interessante è che non tentava neanche di essere “razionale”, ma nello scrivere quelle cose raggiungeva lo stesso una specie di logica interna consistente. Pazzoide ma consistente. Forse anche noi siamo così. Pazzoidi ma consistenti.”