Faith No More – Atto Di Fede
Il 14/08/2014, di Barbara Volpi.
Pensavate di averli persi? Eravate oramai rassegnati a pensare che dopo l’album del 1997 non ci sarebbe stata speranza per un nuovo lavoro dei Faith No More? Mantenete alta la fiducia uomini e donne di poca fede! Per ora il combo californiano sta tornando a suonare dal vivo offrendo alcuni nuovi brani che, si mormora, preannunciano un nuovo disco in studio.
‘Album Of The Year’ risale oramai a 17 anni fa, abbastanza per convincersi che i Faith No More ogni tanto ci regalino una delle loro favolose pillole dal vivo per battere cassa e acquietare l’inquietudine degli ancora tanti adepti del loro culto. D’altro canto un personaggio sopra le righe ed eclettico come Mike Patton non la smette mai di tenersi occupato con i suoi innumerevoli progetti paralleli (Tomahawk, Fantomas, Mr. Bungle, Mondo Cane, Peeping Tom) e le sue collaborazioni trasversali (tra cui si ricordano quelle con Melvins e John Zorn), il che lascia a pensare che il gruppo crossover che lo rese popolare a livello planetario non possa più contenere il suo bulimico bisogno di sperimentazione ed esplorazione ed il suo estroso talento. A quanto pare invece non è così. Dalla reunion del gruppo nel 2009 non si era mai parlato di un nuovo album ma ultimamente Patton ha dichiarato: “Ci siamo divertiti molto a suonare insieme recentemente ma ora non ci basta più; è davvero giunto il momento di tornare ad essere creativi.”Ed infatti nel loro recente show ad Hyde Park in occasione del BST hanno offerto due anticipazioni intitolate ‘Supehero’ e ‘Motherfucker’, entrambi due canzoni imbastite su melodie delicate, infarcite da efficaci stratificazioni vocali e splendide tastiere. Alcuni esperti ci hanno già colto l’influenza dei Peeping Tom, ma ad averle sentite realmente si può affermare che esse sono trademark Faith No More, punto e basta. Certo ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi di ‘We Care A Lot’, quasi trent’anni in cui i Faith No More hanno anticipato praticamente tutto, mescolando per istinto ogni genere musicale che allora arrivava alle loro orecchie senza limiti di sorta, e contribuendo così, ancora più dei ben più acclamati e mainstream Red Hot Chilly Peppers, alla formazione di quel genere chiamato crossover. Ne parliamo con il bassista Bill Gould.
Trent’anni fa eravate consapevoli che stavate creando un nuovo genere musicale?
“Sinceramente no e, a dirla tutta, non ne siamo consapevoli neppure adesso, per il semplice motivo che secondo noi non abbiamo creato un bel niente. La parola ‘crossover’ è un termine coniato dai giornalisti per includere in un recinto definibile un insieme di gruppi che sul finire degli anni Ottanta, soprattutto nella West Coast, si erano messi a mescolare liberamente i generi musicali che ascoltavano di persona. La nostra generazione è cresciuta con alle orecchie George Clinton e Sly Stone, Michael Jackson e Prince, i Black Flag e i Dead Kennedys. Poi arrivò il rap, mentre il metal non se ne era mai andato, aveva solo cambiato le vesti con tutti quei gruppi glam rock del Sunset Strip. Per un adolescente californiano che si apprestava a suonare musica e che era abituato a frequentare scuole dove vigeva la commistione razziale, era normale scambiarsi dischi e cassette con gli amici di ogni stile sonoro. Non avevamo preclusione di razza o di genere.”
Non era stato sempre così. Nell’era reaganiana, cioè nella metà degli anni ’80, il mercato musicale negli Stati Uniti era molto segmentato, nelle classifiche, nelle stazioni radio e nei live-act.
“Sì. C’erano le stazioni radio metal, quelle di black music, quelle country, e così via. Stessa cosa valeva per i festival e i concerti. Ma la società stava cambiando. Quelli come noi nati negli anni Sessanta non credevano più a tali barriere a paletti perché nella vita di tutti i giorni frequentavano neri, ispanici ed era normale ascoltare hip hop e metal insieme. Non esisteva più la musica per soli bianchi e quella per soli neri. La nostra generazione è stata la prima ad abbattere tali barriere. Il rimescolamento di stili musicali è stata una conseguenza naturale di ciò che stava avvenendo nella società. Per questo dico che ‘crossover’ è un termine costruito a tavolino da chi ci percepiva dal di fuori, ma per noi era molto spontaneo mischiare per esempio, funky e punk, metal e rap. Era quello che facevamo tutti i giorni quando ascoltavamo musica con i nostri amici.”
Com’è che i Faith No More sono tornati a suonare insieme dopo un lungo hiatus?
“I Faith No More sono strani. Non ci siamo parlati per quasi quindici anni, per cui eravamo tutti molto esitanti nel tornare a suonare insieme. Poi abbiamo fatto i primi concerti e ci siamo resi conto che la magia e l’alchimia erano ancora lì, per cui abbiamo messo i nostri timori da parte. Debbo ammettere ora che la relazione tra di noi non è mai stata così buona, molto meglio che in passato. Siamo cresciuti anche come esseri umani, e abbiamo finalmente imparato a fidarci l’uno dell’altro perché, e mi rendo conto che ciò può apparire ai più paradossale, noi non ci fidavamo affatto l’uno dell’altro. Ora ho un feeling molto positivo sul futuro dei Faith No More.”
Che rapporto hai con Mike Patton?
“Oggi posso dire che siamo amici. Non lo eravamo mai stati in passato, ma adesso ci incontriamo quando siamo entrambi a San Francisco, e magari usciamo a cena o a bere un drink. E’ sorprendente. Spero che il nostro nuovo legame cementi anche quello creativo.”
Tornare a comporre nuovi brani dopo tanto tempo non vi fa sentire troppo il peso delle aspettative?
“Non abbiamo mai badato a ciò che gli altri pensano di noi, proprio per non perdere concentrazione rispetto al nostro lavoro. E’ vero che i nostri fan ci richiedono in un certo senso di ripetere un modulo, ma noi confidiamo nella loro intelligenza, e siamo sicuri che sapranno seguirci anche se decidiamo di cambiare ed evolvere; siamo certi che essi saranno in grado di crescere con noi. Una band stereotipata è una band morta. Non abbiamo mai privilegiato il business alla creatività e continueremo a farlo. Siamo artisti non ragionieri”
Quali sono i lati positivi della popolarità?
“E’ positivo il fatto che la gente sa chi sei così puoi permetterti di osare oltre. Se ad esempio decidiamo di non concedere più interviste, o di non accettare certi compromessi, possiamo permetterci di farlo.”
Hai recentemente suonato con i Men Of Porn (o Porn), di Tim Moss, che in passato hanno incluso anche Dale Crover dei Melvins e il produttore Billy Anderson. E’ una band open-source?
“In un certo senso sì, perché l’unico elemento stabile è Tim mentre gli altri membri fluttuano. Moss è stato il tour manager dei Faith No More e ha fatto il roadie per i Melvins, ecco qual è stato il collante comune tra tutti noi. Circa un anno fa eravamo a cena insieme e mi ha chiesto se volevo partecipare al progetto. Io al momento avevo del tempo libero ed ho risposto di sì. Amo questa band perché è molto aperta, mi permette un sacco di improvvisazione, cosa che con i Faith No More non posso fare non per preclusione mentale mia o degli altri, ma perché le esigenze di chi li ascolta sono di un certo tipo e vanno rispettate.”
Sia tu che Mike Patton siete due musicisti che amate rompere le strutture precostituite.
“Esatto, altrimenti smetti di crescere come persona e come artista. Cerchiamo sempre di non cadere nel cliché di reiterare noi stessi, anche se sarebbe la via più semplice.”
L’improvvisazione che sia tu che Mike amate è più vicina al free-jazz che al rock.
“Siamo animali onnivori, ascoltiamo di tutto, e certe collaborazioni che Mike ha fatto (ad esempio quella con John Zorn) parlano da sole. Io non sono un musicista jazz, ma questo approccio mi permette di diventare rilassato. Capisco ora perché Mike ha bisogno di lavorare in band fluide e sperimentali come i Fantomas e i Tomahawk, perché i perimetri troppo stretti dopo un po’ soffocano l’arte. I Faith No More hanno sempre subito molte pressioni essendo un band di successo; anche se noi abbiamo sempre cercato di svicolarci da esse, sei comunque soggetto alle aspettative altrui. Con le collaborazioni parallele recuperi una libertà ed un entusiasmo che poi vanno a confluire nel progetto principale, in più scopri nuove parti di te e migliori come musicista. Io ho sempre preso la musica molto seriamente, dovevo sempre essere al mio meglio e ciò mi procurava parecchio stress. Ora invece ho scoperto che a restare spontanei e sereni si possono esplorare musicalmente nuovi orizzonti.”
Sei così rigido anche nella tua vita privata?
“Sono un workaholic e tendo ad essere molto disciplinato. Per farti un esempio, non leggo fiction o romanzi, ma saggi, biografie, libri di storia e di filosofia. Ora, a cinquant’anni, ho imparato ad essere più morbido, il che mi ha spinto ad approcciare nuove parti di me. Come si suol dire, meglio tardi che mai”.
Ti piace stare in tour?
“Mi piace viaggiare, intendendo con questo che amo scoprire nuovi posti e culture, confrontarmi con nuove persone. Stare in tour con una band non è la stessa cosa. Approcci parecchie nuove cose ma non hai il tempo materiale per approfondire e dunque il tuo vissuto resta superficiale. Credo di essere un ricercatore e sento che la mia ricerca vera è appena iniziata.”
Con la tua etichetta Koolharrow mantieni vivo l’interesse per la nuova musica, soprattutto per quella dell’Est Europa da dove le tue radici provengono. Inoltre produci nuovi gruppi. Sei sempre attivo anche in questo senso?
“Ho appena prodotto una band cilena dal nome Como Asesinar A Felipes. Fanno una sorta di jazz mescolato all’hip hop e li adoro. Non mi fermo mai. Ho uno studio di registrazione a casa e lavoro tutto il tempo. Talvolta faccio fatica a coniugare la parte creativa con quella di promozione di nuovi gruppi, ma cerco di fare del mio meglio. Certo se ripartiranno i Faith No More a tutti gli effetti, mi resterà poco tempo libero, però considero la divulgazione della musica dell’Est Europa una sorta di missione, un dovere che ho nei confronti della gente della mia terra, per cui so che in questo senso non mi fermerò mai.”