Accept – Breaking Up Again
Il 12/04/2012, di Fabio Magliano.
Se ‘Blood Of The Nations’, il disco che segnava il ritorno sulle scene dei teutonici Accept, riportava la band di Wolf Hoffmann a vette insperate, il nuovo ‘Stalingrad’ non fa altro che confermare lo stato di grazia di questa pietra miliare del metal mondiale. Una condizione che inorgoglisce non poco il chitarrista tedesco, persino sorpreso da tutto il clamore nuovamente suscitato dalla sua creatura.
Il clamore riscosso dal ritorno sulle scene degli Accept è stato tanto fragoroso quanto inaspettato. Dati per morti definitivamente dopo l’annuncio del nuovo abbandono del carismatico Udo Dirkschneider in seguito al fortunato reunion tour del 2005, gli Accept hanno avuto il merito di arroccarsi attorno alle figure di Wolf Hoffmann e Peter Baltes, di scovare un cantante validissimo come Mark Tornillo nei misconosciuti TT Quick e con esso dare alla luce un disco eccellente come ‘Blood Of The Nations’, presto balzato in vetta alle classifiche di gradimento di pubblico e critica, consentendo di fatto alla band di godere di una seconda giovinezza artistica. Oggi, sull’onda del successo raggiunto dal come back album, esplode sul mercato il nuovo ‘Stalingrad’, lavoro ambizioso che si prefigge di bissare quanto di buono espresso dal suo predecessore. A presentarcelo è uno schietto Wolf Hoffmann in vena di confessioni…
Wolf, iniziamo l’intervista facendo un piccolo passo indietro: ‘Blood Of The Nations’ ha suscitato consensi unanimi un po’ ovunque. Sinceramente, vi aspettavate tanto clamore?
“Assolutamente no, e forse proprio questo è stato il segreto della seconda giovinezza degli Accept. Nessuno si aspettava nulla al momento di realizzare ‘Blood Of The Nations’. Volevamo incidere un buon lavoro ma non miravamo sicuramente ad arrivare ad un pubblico di livello mondiale. Per questo abbiamo lavorato in completo relax e senza troppe pressioni… paradossalmente non aspettandoci nulla, abbiamo ottenuto tutto, e questo ha dell’incredibile. Se ci penso stento ancora a rendermene conto”
Come pensi possa essere inquadrato ‘Stalingrad’ soprattutto in considerazione degli ottimi riscontri ottenuti dal precedente ‘Blood Of The Nations’?
“Non ci siamo mai fatti troppe domande al momento di iniziare a lavorare ad un disco. Quello che era certo era il fatto che volevamo continuare a sviluppare determinate idee che erano già affiorate su ‘Blood Of The Nations’. Con quel disco abbiamo individuato una nicchia che si adatta perfettamente a noi, ci troviamo bene in essa e ‘Stalingrad’ può essere a ragione visto come il naturale successore di ‘Blood Of The Nations’, senza clamorose modifiche ma, allo stesso tempo, senza grandi ripetizioni”
Che significato ha per voi un disco simile? È una semplice, ulteriore tacca nella vostra lunga discografia o può essere visto come qualcosa di ancor più particolare?
“’Stalingrad’ rappresenta gli Accept al massimo della forma. Sentivamo una grande responsabilità nei confronti dei fan dopo gli ottimi responsi ottenuti da ‘Blood Of The Nations’, con quel disco la band è tornata a circolare a livelli molto alti e non potevamo assolutamente fallire… non lo volevamo e non sarebbe stato giusto nei confronti di chi ci segue e ci ha consentito di tornare al top. Quindi abbiamo lavorato con grande determinazione e prestando grande cura ai particolari, ed il risultato è stato più che soddisfacente”.
Come siete giunti alla realizzazione di ‘Stalingrad’?
“’Stalingrad’ è stato realizzato a cavallo tra Nashville ed il Regno Unito. Il processo di scrittura e missaggio ha impiegato quattro, intensi mesi. A differenza del disco precedente, a questo giro non abbiamo avuto un margine di manovra troppo ampio, le aspettative dell’etichetta erano tali da spingerci a realizzare il lavoro nel tempo lasciato libero dal tour. Metà delle canzoni è stata abbozzata mentre eravamo ancora in tour, la parte restante è stata composta durante le prime sessioni di registrazione e arrangiamento. Non avevamo troppo tempo a disposizione e abbiamo cercato di sfruttare al massimo ogni minuto”.
Ancora una volta vi siete affidati, in cabina di regia, ad Andy Sneap…
“Non avremmo potuto fare diversamente. Se gli Accept sono tornati insieme è soprattutto grazie ad Andy Sneap… è stato lui, in un certo senso, a farmi riavvicinare con Peter, a farci tornare a guardare al metal con un determinato spirito. Per noi è quasi un fratello, ed alla luce del feeling che si era ricreato al tempo di ‘Blood Of The Nations’ è stato naturale appoggiarci nuovamente a lui per ‘Stalingrad’. A livello operativo non è cambiato molto il suo modo di lavorare, abbiamo giusto apportato qualche piccola variazione qua e là ma la sostanza non è cambiata. Quello su cui Andy ha puntato molto è stato il lavorare sulla nostra consapevolezza, sulle motivazioni, sugli stimoli che il successo del disco precedente hanno generato…. Tutti elementi che in qualche modo sono andati ad influire sul sound del disco”
Su ‘Blood Of The Nations’ prima, quindi su ‘Stalingrad’ lanciate messaggi politici abbastanza forti. Pensi che l’attuale crisi economica globale abbia in qualche modo influenzato i vostri testi?
“Da sempre abbiamo cercato di parlare di determinati argomenti ai più conosciuti, offrendoli però da una prospettiva differente. Avendo inserito Mark nella squadra dei songwriter, possiamo contare anche sul punto di vista di un americano, quindi per alcuni versi ha un modo di vedere ed intendere le cose in modo diametralmente opposto da noi. Anche l’America sta comunque vivendo una situazione delicata, il momento è difficile per tutti e questo è inevitabile che finisca per influenzare le nostre composizioni, anche se fondamentale per noi è riuscire a scuotere gli animi e a far riflettere le persone su tematiche che ci toccano da vicino”
Da un punto di vista sonoro, in questo lavoro l’impronta degli Accept è quanto mai marcata. E qui scatta la provocazione: cosa rispondete a chi vi accusa di essere ripetitivi?
“Lasciamo parlare i fatti. Magari hanno ragione, ma a noi non interessa. Credo che la peculiarità della band sia quella di essere riuscita a rimanere se stessa negli anni. Mi spiego meglio: nel corso della nostra carriera si sono susseguiti musicisti differenti in seno al gruppo ma la chimica tra me e Peter è rimasta sempre tale, così come la nostra proposta sonora. Gli Accept sono un gruppo coerente, con un’identità stilistica ben individuabile. Siamo noi e lo siamo sempre stati, e questo è l’elemento che meglio ci caratterizza. Chi si affianca a noi e chi lo ha fatto in passato è stato un fattore in più, un mezzo di arricchimento del sound, ma ciò che conta è lo spirito del nostro sound. Mark è un prezioso fattore aggiunto, ha avuto il merito di dare maggiore sostanza ad una realtà comunque ben definita ed inquadrata”
Ma come vedi quelle band del passato che cercano di rimanere a galla adattandosi al sound del momento, modernizzandosi e provando a sperimentare qualcosa di più attuale?
“Io vengo dalla vecchia scuola del metal e sono da sempre fedele al motto “squadra che vince non si cambia”. Se suono, voglio suonare quello che so fare meglio e tirare fuori il massimo da esso. Cambiare, svoltare verso il moderno, per un appassionato di musica classica come me, non avrebbe senso. Il fatto che i nostri fan ci stiano seguendo e stiano decretando un nostro nuovo successo, è conferma del fatto che la strada intrapresa è quella giusta. È indubbio, comunque, che un musicista possa avvertire il bisogno di provare qualcosa di nuovo, anche noi ci abbiamo provato in passato e quanto ottenuto non è tutto da buttare, però ci sentiamo molto più a nostro agio con il nostro classico sound ed è per questo che continuiamo a muoverci in questa direzione”
A proposito di vecchia scuola. Siete stati per anni l’emblema del metal “Made in Germany”. Come giudichi, oggi, la scena metal in un Paese da sempre molto prolifico come la tua Germania?
“Assolutamente vero. L’heavy metal ha radici molto profonde soprattutto in Germania, le band negli anni hanno trovato terreno fertile e la scena si è sviluppata moltissimo nel tempo, forse più che in altri Paesi del mondo, anche grazie agli Accept. Se, però, la scena oggi sia migliore di quella degli anni Ottanta non so proprio dirtelo… forse all’epoca era tutto più “clamoroso”, le dimensioni erano maggiori, si parlava di show sold out nelle arene e dischi ai primi posti delle classifiche… oggi ci sono più band, ci sono più mezzi… per quanto riguarda la qualità non voglio esprimermi, non sta a me dirlo, è un giudizio che spetta solamente ai fan… quello che è sicuro è che l’heavy metal è uno solo, indiscutibilmente… nel tempo ha poi preso un sacco di direzioni differenti, ma la base è una sola”.
Se guardi al passato, come pensi sia cambiato il vostro rapporto con i fan degli Accept?
“A livello di rapporto con i fan non è cambiato nulla… la grande differenza rispetto al passato è che oggi c’è internet, che azzera le distanze e rende più diretto il contatto tra fan e musicista. È un dato di fatto che, da quando ci siamo presi una pausa di riflessione nel 1996, il mondo attorno a noi è cambiato radicalmente. Per nostra fortuna l’affetto di chi ci segue da sempre è rimasto invariato in ogni parte del mondo. Ad ogni show troviamo persone pronte ad offrirci i loro cuori e le loro anime, e questo ci rende estremamente orgogliosi. Noi ovviamente li ripaghiamo dando il massimo, offrendo loro il miglior spettacolo possibile e le più belle canzoni che abbiamo a disposizione”
Ma chi è, oggi, il tipico fan degli Accept? È il vecchio amante del metal tutto pelle e borchie o siete riusciti a fare breccia anche nel cuore degli ascoltatori più giovani?
“Chi ci ha seguito sin dai primi dischi continua a apprezzare ciò che stiamo facendo e questo è forse il dato più importante perchè ci conferma come la band non sia mutata nel tempo ma abbia tracciato una certa continuità con il passato, risultando coerente e qualitativamente in linea con quanto sempre fatto. La cosa che più ci soddisfa, però, è constatare come il numero di fan sia andato aumentando negli anni, arricchendosi con ragazzi figli di generazioni differenti, segno che anche tra i più giovani siamo riusciti a fare breccia svecchiando un po’ il nostro pubblico pur rimanendo fedeli al nostro sound”
In conclusione: siete reduci da un entusiasmante tour mondiale di supporto a ‘Blood Of The Nations’. Qual’è il ricordo più emozionante che ti è rimasto di questa esperienza?
“È un ricordo del tour nella sua globalità. Come detto in precedenza, non aspettandoci nulla da disco e tour, trovarci a suonare ogni sera davanti a club sold out è stato qualcosa di incredibile, un sogno dal quale nessuno di noi voleva svegliarsi. È stato come trovarsi catapultati sulle montagne russe più folli e emozionanti del mondo, una dimensione che a volte aveva del surreale. Una condizione contagiosa, infatti non è un caso se, dopo un intenso anno di show, in quattro mesi ci siamo trovati in mano il master del nuovo disco fatto e finito. Eravamo stimolati, eravamo carichi, e le canzoni sono venute da sè”.