Bob Daisley – Telling the Truth
Il 27/11/2011, di Fabio Magliano.
‘For Fact’s Sake’ è il titolo del libro che dovrebbe causare un autentico terremoto nel mondo del rock. Perché a scriverlo è un musicista che della storia del rock è stato parte fondamentale, avendo collaborato con gli act più influenti del globo. Ma soprattutto perché in esso è contenuta, dote ormai rara, la pura verità. Quella stessa che un disponibile Bob Daisley ci dispensa nel corso di una chiacchierata/fiume.
Bob Daisley è una persona speciale. E non certo perché ha suonato con Ozzy, con i Rainbow, con i Black Sabbath e con tutto quel che di meglio la storia dell’hard rock possa offrire. No, Bob Daisley è speciale perché è vero. E’ vero nella sua semplicità, nella sua modestia, nella sua cortesia. Ti sta seduto accanto raccontandoti di come Ozzy abbia turlupinato Jake E. Lee o di quel progetto messo su con Jon Lord e mai viene meno in te la sensazione di trovarti comunque ad un rilassato pranzo tra amici. Perché questo leggendario musicista mai ti fa pesare il suo status, mai avanza una richiesta senza un “per piacere” mai nega un sorriso ed una stretta di mano a chi, quasi intimorito, cerca di avvicinare “il mito”, e si commuove sino alle lacrime quando in sottofondo riecheggia ‘Still Got The Blues’ dell’amico Gary Moore. Un mito giunto in Italia per presentare il suo basso firmato nonché la sua autobiografia di imminente pubblicazione, disponibilissimo nell’arco di un’emozionante “24 ore a contatto con la storia del rock” ad aprirsi a noi consentendoci di ripercorrere alcune delle pagine più significative della sua carriera dorata.
Bob, quando si parla di te si usano termini che partono da “icona” ed arrivano a “leggenda”. Tu, personalmente, ti vedi davvero così speciale?
“No, non credo proprio. Mi considero un uomo molto fortunato perché ho avuto modo di lavorare con persone meravigliose e mi è stata data l’opportunità di esprimermi attraverso la mia musica, le mie parole, le mie immagini… ma ho sempre detto che non sarei io se non fosse stato per i miei fan. E’ chi ascolta la tua musica e compra i tuoi dischi che ti rende quello che sei. Perché puoi scrivere la più bella delle canzoni, ma se nessuno mai l’ascolterà, allora sarai nessuno”.
Nel corso della tua carriera hai avuto modo di collaborare con veri mostri sacri del rock. C’è un musicista in particolare con il quale hai trovato una chimica speciale?
“Con Ozzy, nonostante le cose siano poi andate male in seguito, si era creata una chimica particolare. Nei primi tempi eravamo ottimi amici, c’era un buon rapporto tra di noi. Quando si trovò a dover formare la band, inizialmente c’eravamo solamente noi due. Si trattò quindi di dover pensare al chitarrista e Ozzy si ricordò di questo ragazzo, Randy Rhoads, che aveva sentito tempo prima a Los Angeles. Trovandoci noi in Inghilterra, Ozzy chiese a David Arden, il figlio di Don Arden della Jet Records di organizzare un incontro, lui comprò i biglietti e lo fece venire in Europa. La prima volta che noi tre ci trovammo insieme si creò qualcosa di magico. Con l’arrivo di Lee Kerslake alla batteria la formazione fu completa, e quando iniziammo a suonare insieme fu qualcosa di estremamente naturale. Anche con Gary Moore si instaurò sin da subito un ottimo rapporto. Se ripercorro la mia carriera non posso non ritenermi fortunato. Generalmente quando si formano dei super gruppi il rischio di vedere rovinato tutto dall’ego dei musicisti coinvolti è alto, nel mio caso tutto ha funzionato sempre alla grande, la chimica è sempre stata perfetta e problemi di personalità non se ne sono mai verificati”
Con Ozzy, semmai, il problema mi pare di capire sia stato Sharon, quasi fosse una novella Yoko Ono…
“Esattamente, il problema è stato sempre lei. Quando Ozzy conobbe Sharon era ancora sposato. Il suo matrimonio forse non era perfetto, forse aveva delle crepe, ma andava avanti, e Ozzy sembrava felice. Non so se fosse realtà o finzione, ma vista dall’esterno l’unione non pareva vacillare. Poi arrivò Sharon e le cose cambiarono radicalmente. Ozzy lasciò casa, moglie, figli e andò a vivere con lei. Peccato che per la stampa dell’epoca Sharon passò per colei che aveva salvato Ozzy da un matrimonio infelice. Ozzy però con lei era tutt’altro che un uomo felice, era più un cagnolino al guinzaglio, mite ed ubbidiente quando era con la moglie, completamente senza controllo quando si trovava da solo. Pensa che molte delle polemiche sorte riguardo la registrazione dei dischi furono accese proprio da Sharon, peccato che lei si trovasse in America mentre noi registravamo i dischi in Inghilterra. E ogni volta che leggevo le sue dichiarazioni a riguardo mi chiedevo “Ma come fai a dire tutte queste cose? Tu manco c’eri!””.
Alla corte di Ozzy sei giunto dopo un’entusiasmante esperienza con i Ritchie Blackmore’s Rainbow…
“I Rainbow sono stati la mia prima esperienza con una band di altissimo livello. Per la prima volta ho avuto la possibilità di esibirmi in arene esaurite un po’ ovunque, ma soprattutto di collaborare con musicisti assolutamente professionali. I Rainbow erano una macchina perfettamente oliata. Se penso a quel gruppo penso a Ritchie Blackmore, un musicista straordinario, a Ronnie James Dio, cantante incredibile ma prima di tutto una persona amabile, a Cozy Powell, un batterista leggendario… ma soprattutto ciò che più mi ha colpito è stato il fatto che, pur essendo quella la band di Blackmore tutti noi potevamo dire la nostra e contribuire con le nostre idee alle composizioni. Non ci siamo mai sentiti dei semplici comprimari”.
Hai suonato con Ronnie James Dio, con Ozzy, con i Black Sabbath… viene da pensare che sia tutta una grande famiglia…
“Si, è una grande famiglia. Un po’ incestuosa ma pur sempre una famiglia. Fa parte del rock business. Ho suonato con Tony Iommi ed i Black Sabbath su ‘The Eternal Idol’, ho lavorato con Ozzy, ho suonato con Bill Ward nel suo disco solista…siamo stati un’enorme famiglia allargata e non ci sono mai stati dei problemi tra di noi. Con Bill Ward è stato splendido lavorare, è un’ottima persona, così come lo è Tony Iommi. Quando ci siamo trovati a incidere insieme non si è mai trattato di un lavoro di routine, bensì di una divertente jam session dalla quale è uscita sempre ottima musica”.
Tra le tue tante collaborazioni dobbiamo ricordare anche gli Uriah Heep…
“Esperienza splendida, una vera comunità. Sono stato bene con loro, sono una band brillante capace in ogni momento di comporre grande musica. E poi Mick Box è un personaggio. Siamo molto amici e sono orgoglioso di aver condiviso con lui questa esperienza. Due anni con loro, due album e tanti tour. Splendido. Mi è spiaciuto dover lasciare la band ma in quel periodo il gruppo non girava più come un tempo, io ricevetti nuovamente la chiamata di Ozzy e tornai alla mia vecchia band, ma conservo ancora ricordi splendidi di quel periodo”.
Un’altra esperienza per te fondamentale è quella con Gary Moore. Cosa ti ha insegnato questa collaborazione?
“La disciplina nel suonare. Gary Moore era un artista assoluto, ma nella sua band non c’era democrazia. Era lui al centro di tutto, ti diceva cosa suonare e tu lo facevi. Ed era divertente. Ancora prima di lavorarci insieme lo apprezzavo, perché lo ritenevo uno dei pochi chitarristi in grado di suonare di tutto. Conosci l’espressione “Esperto di tutto, maestro in niente”? Ecco, questo era Gary Moore, lui poteva suonare blues, jazz, fusion, rock… e sempre con un gusto e una sensibilità fuori dal comune”
Collaborando con così tanti chitarristi di talento ti sei dovuto adattare a loro o hai sempre avuto carta bianca nell’esprimerti?
“La mia personalità e il mio modo di suonare più che cambiare si adattavano alla situazione. Gary, come ti ho detto, sapeva esattamente cosa voleva, ti diceva come suonare, cosa fare, e tu seguivi le sue indicazioni. Un altro che aveva le idee precise su come suonare era Blackmore: lui era un suggerimento continuo. Con Tony Iommi avevo la libertà assoluta. Quando ci siamo trovati a lavorare a ‘The Eternal Idol’ incisi solo la prima traccia con il produttore Jeff Glixman. Quindi arrivò Tony, la ascoltò e disse “E’ perfetta, suona tutto quello che vuoi!”. Anche con i Blizzard Of Ozz ero libero di fare cosa volevo, se c’è una cosa che non posso imputare ad Ozzy è di avermi tarpato le ali. Dopo tutto non è un musicista, non è neppure un compositore, e nemmeno un cantante eccelso. Lui trovava le linee melodiche ed io scrivevo i testi, quindi difficilmente avrebbe potuto darmi dei suggerimenti. Semmai lo avrebbe potuto fare Randy, perché era un talento naturale, un chitarrista nato e vissuto per la musica”.
Ronnie James Dio, Randy Rhoads, Gary Moore, Cozy Powell sono solo alcuni musicisti con i quali hai suonato, che ci hanno lasciato troppo presto. Ti senti in qualche modo un sopravvissuto?
“Nel mio libro c’è un capitolo dedicato a questo. Nel corso della mia vita ho perso tante persone, tanti amici… Bon Scott era un mio caro amico, ed eravamo entrambi a Londra il giorno che è morto. La sua è stata una perdita pesantissima, perché era una splendida persona, un uomo vero. Una predita atroce è stata anche quella di Randy in quello stupido incidente aereo, una carriera immensa stroncata da una circostanza così banale…e Ronnie James Dio, quanto di più inaspettato ci potesse essere, e per ultimo Gary Moore… che sorpresa tremenda! Ero a Sidney quando nel cuore della notte mi è suonato il telefono. Era un mio amico in Inghilterra, che ho subito aggredito chiedendogli se si rendesse conto di che ora fosse. “Sì Bob, lo so che è tardi – mi dice – ma devo darti una brutta notizia. Gary non c’è più”. E’ stato uno shock per me, perché Gary non si drogava, non fumava, faceva attenzione a cosa mangiava, faceva attività fisica…nulla lo lasciava presagire… purtroppo in questi casi la devi prendere con filosofia, pensare che quando giunge la tua ora, non c’è nulla che tu possa fare. Mi piace pensare che ora sia in un bel posto, che stia bene, che sia sereno e che sia finalmente felice”.
Hai citato il tuo libro. Perché hai avvertito l’esigenza di scrivere la tua storia?
“Un po’ perché sentivo la necessità di raccontare tutta la verità, un po’ perché avevo davvero tante richieste riguardo un mio libro. Ci sono artisti che scrivono le loro biografie per fare soldi, altri per attaccare i rivali, altri ancora per ridare interesse al proprio nome… io non ho fatto nulla di tutto ciò. Io ho voluto semplicemente rendere pubblico un diario tenuto per decenni, fatto di appunti, di interviste, di lettere scritte dal 1975 ad oggi. Quello che c’è sul libro è la verità, la pura verità. Ci sono date, ci sono nomi, ci sono fotografie, tutto è fedele, nulla va interpretato. E’ per questo che ho voluto giocare con l’esclamazione ‘For Fake’s Sake’ intitolandolo ‘For Facts Sake’. Quello che c’è dentro sono i fatti, è la realtà”.
Scrivendo il tuo libro hai avuto modo di ripercorrere la tua storia. C’è qualcosa in quello che hai fatto, che rimpiangi?
“No, perché anche nei momenti più difficili ho avuto i miei ritorni positivi. Credimi, non è stato bello essere cancellato da Sharon e Ozzy, vedermi estromesso dalle canzoni che avevo composto, vedermene negata la paternità, venire escluso da quei dischi ai quali avevo contribuito attivamente. E’ stato un duro colpo, e non solo da un punto di vista economico. Però gli album che ho composto sono piaciuti, e anche se non comparivo tra i credit sapevo di averli scritti io, ed il fatto che la gente li apprezzasse era un’enorme soddisfazione. Su ‘No More Tears’ ci sono solo alcune canzoni composte da me, e la gente le ama, cosa che non si può dire del resto dei brani. Questo mi basta…”
E adesso?
“Adesso tornerò a Londra dove darò le ultime correzioni al libro, quindi una volta pubblicato partirà un’assidua promozione. Sul piano musicale ho molta carne al fuoco, ma la priorità dovrebbe essere un nuovo disco con i The Hoochie Coochie Men, il gruppo che ho creato con Jon Lord. Ho già dei pezzi pronti, splendidi brani dall’irresistibile taglio blues, perché suono da sempre hard rock ma il mio cuore non ha mai smesso di battere per il blues”
Foto di ALICE FERRERO
HAMMERTECH
L’approdo in Italia del leggendario bassista australiano coincide con la presentazione del suo signature bass, uno strumento frutto della più elevata manifattura italiana in grado di fare sposare quel sound vintage di cui il buon Bob è da sempre innamorato, con sonorità più fresche e moderne. A presentarci doti e virtù del nuovo strumento, è lo stesso musicista aussie.
Bob, dalla tua collaborazione con un laboratorio di liuteria italiano è nato il tuo primo basso firmato. Puoi presentarcelo?
“Il basso, chiamato “The Black Beauty”, è stato concepito in collaborazione con Davide Castellaro di The Utopia Custom Shop. E’ realizzato con corpo in frassino leggero di palude, manico in monoblocco di acero americano e tastiera in ebano nero, meccaniche Hipshot e ponte Bad Ass. I ragazzi di Guitar Straps, infine, hanno realizzato la tracolla in pelle, anch’essa autografata. Dal punto di vista del suono, bisogna sapere che sono da sempre un appassionato di strumenti vintage e, proprio partendo da questo mio grande amore, lavorando in stretta collaborazione con Davide, siamo riusciti ad arrivare ad un perfetto mix tra vintage e moderno”.
“The Black Beauty” presenta anche una vera e propria innovazione…
“Esatto. Grazie all’enorme aiuto e all’esperienza di Piero Terracina della Magnetics Pick Up è stato generato un nuovo tipo di trasduttore a scorrimento per ogni singolo polo, un sistema di cassetti intercambiabili senza allentare le corde e senza dover cablare nulla, che mi permette di sostituire l’intero sistema di pick up e controlli in meno di un secondo”.
Quando hai sentito l’esigenza di un basso personalizzato come questo?
“Onestamente non avevo mai pensato seriamente alla possibilità di realizzare un signature bass come questo, poi un giorno sono stato contattato da Patrizia Grossi e Gianluca Dau di Mad Music, i quali mi hanno esposto il progetto e mi hanno convinto a realizzarlo. Alla fine l’idea era quella di creare uno strumento che assecondasse ogni mia esigenza e che offrisse tutto ciò che personalmente potevo cercare e volere in un basso. A casa ho un’enorme collezione di bassi vintage e l’idea di cogliere le sfumature di ognuno di essi e racchiuderle in un unico strumento, era qualcosa di estremamente interessante”.