Saxon – Join The Army
Il 16/04/2011, di Fabio Magliano.
Dopo 35 anni i Saxon sono ancora sulle scene e, cosa ancora più importante, sanno ancora fare male. Questo è quello che emerge dall’ascolto del nuovo ‘Call To Arms’, disco presentato da un Biff Byford diretto e senza troppi peli sulla lingua.
Arriva dopo 35 anni di carriera e 19 album in studio la “chiamata alle armi” dai Saxon, un’adunata invocata per chiamare a sé i fan più fedeli ed i rocker più convinti. Non per ribellarsi al sistema o per andare in guerra contro poser o tamarri, bensì per celebrare insieme uno dei capitoli più floridi della storia della band britannica. E’ infatti una seconda giovinezza quella che stanno vivendo Biff Byford e soci, tra tour mondiali all’insegna del sold-out e lavori di indubbio valore come ‘Into The Labyrinth’ e il nuovo ‘Call To Arms’, appunto. Un disco ispirato a cavallo tra vecchio e nuovo, presentato da un Biff di poche parole ma estremamente orgoglioso di quanto appena realizzato dalla sua inossidabile band.
All’ascolto di ‘Call To Arms’ emerge chiaro come questo disco suoni Saxon al 100% ma, allo stesso tempo, goda di un’invidiabile freschezza compositiva…
“Sono d’accordo, questo era proprio uno degli obiettivi che ci eravamo prefissati al momento di iniziare a pensare ad un nuovo disco. Quando devi incidere un nuovo album devi sempre fissare un traguardo e cercare di raggiungerlo attraverso il tuo lavoro. In questo caso si partiva da un disco, ‘Into The Labyrinth’ che aveva riscosso un buon successo, e quindi era normale cercare di migliorare ulteriormente quella situazione, poi musicalmente parlando volevamo fare qualcosa di differente senza però perdere di vista la nostra identità”
In una precedente intervista hai dichiarato che questo è il vostro migliore album inciso negli ultimi 20 anni. Un’affermazione forte se si considera che in questi anni avete inciso dischi non proprio da buttare via come ‘Dogs Of War’, ‘Killing Ground’ e lo stesso ‘Into The Labyrinth’…
“Capisco cosa intendi dire, in effetti potrebbe sembrare la classica trovata promozionale tipica di qualsiasi band che ha un disco in uscita. Io ho fatto quella dichiarazione mosso dalle sensazioni, ascolto ‘Call To Arms’ e ci leggo dentro un ideale mix tra quanto abbiamo fatto in passato e alcune soluzioni più moderne. E poi penso che all’interno di questo lavoro ci siano delle canzoni con le carte in regola per diventare dei classici dei Saxon, una convinzione supportata dalle prime reazioni dei nostri fan all’ascolto del disco”.
Tra questi brani possiamo annoverare ‘Hammer Of The Gods’?
“Assolutamente sì. Questo pezzo è giocato su un riff di chitarra killer ma, cosa più importante, è il lavoro che è stato fatto alla base con questo strumento. Solitamente ci muoviamo con due chitarre, in questo caso ne abbiamo utilizzate addirittura tre. Una l’ha suonata Paul, una Doug e una Nibbs. Sembrava una follia incidere una cosa del genere in partenza, però ci siamo detti “’fanculo, facciamolo lo stesso!” e quello che abbiamo ottenuto ha un che di magico. Non solo le tre chitarre funzionavano benissimo, ma hanno dato vita in apertura ad uno di quei riff che profumano di immortale. Senti l’attacco “da-da-daaaa” e ti prendi subito bene. Da un punto di vista del testo, poi, siamo andati a riprendere l’epopea vichinga, un capitolo della storia che ci ha sempre affascinato. Tutto questo messo insieme fa sì che ‘Hammer Of The Gods’ possa diventare presto un classico dei Saxon”M
Quanto è difficile trovare nuovi stimoli e soprattutto nuove idee dopo 35 anni di carriera?
“Non importa quanto sia difficile, è necessario. Per andare avanti è indispensabile cercare di introdurre ogni volta qualcosa di differente in ciò che suoni. Noi lo facciamo ogni volta che ci troviamo a incidere un disco. In molti mi dicono che potremmo tranquillamente vivere di rendita con le canzoni che abbiamo composto in passato, ma io non la vedo affatto così. Per il semplice motivo che mi piace scrivere nuova musica, ho bisogno di dire la mia su quelle cose che colpiscono la mia attenzione, ma soprattutto sento l’esigenza di dare ogni tanto una rinfrescata al sound della band, e l’unico modo per farlo è scrivere nuove canzoni”
Ma tagliando il traguardo dei 19 album incisi, dove cercate gli spunti per quegli elementi nuovi che dovrebbero dare freschezza alle vostre composizioni?
“Dentro noi stessi. Stiamo bene insieme, ci divertiamo come dei ragazzini, ci piace suonare e ci piace ancora di più comporre. Quando si sta bene con se stessi e si ha ancora l’entusiasmo dei tempi passati, tutto viene facile e ciò che ne deriva viene direttamente dal cuore e non puzza di forzatura fatta giusto per tirare avanti la baracca un anno in più”
Reputi corretto vedere in ‘Call To Arms’ una nuova sfida per i Saxon?
“Assolutamente sì. E’ una sfida perché noi amiamo le sfide. Ogni disco lo è stato, da sempre. Poi le sfide si vincono e si perdono, ma noi non ci siamo mai tirati indietro quando si trattava di metterci alla prova. Volevamo incidere un grande album con grandi canzoni e con un sound che spaccasse… pensiamo di esserci riusciti e per questo ci riteniamo molto fortunati”.
Generalmente una nazione o anche solo una band ricorre alla “chiamata alle armi” in un particolare momento della sua storia. Perché voi ne avete sentito l’esigenza proprio oggi?
“Perché è un momento molto particolare, non solo per noi ma per tutto il movimento metal in generale. Stiamo attraversando un periodo fortunato, il mondo del rock mi pare stia godendo di ottima salute, finalmente la scena pare essersi risvegliata dopo un periodo di stanca. Non vuole quindi essere un’esortazione a lottare contro qualcosa di negativo, bensì a stare uniti per far si che questa situazione positiva perduri e magari cresca ulteriormente. C’è poi un secondo significato dietro a questo titolo, perché nell’omonimo brano abbiamo voluto parlare della Prima Guerra Mondiale dando, come abbiamo già fatto in passato, un taglio storico ai nostri brani”.
Un altro brano lo avete intitolato ‘Back In ‘79’. Perché quell’anno è così importante per voi? Solo perché avete inciso il vostro primo disco o c’è dell’altro?
“Sicuramente il 1979 è un anno che ci ricorderemo sempre tutti perché abbiamo debuttato con ‘Saxon’, quindi da lì è partita un’avventura importantissima che continua sino ai giorni nostri. Però in generale penso che gli anni Settanta siano stati fondamentali per tutto il mondo della musica. In quegli anni è nato il punk che ha rappresentato per alcuni versi una vera e propria rivoluzione, ma anche nel mondo del metal, del rock e del pop ci sono state delle uscite molto importanti. Il sound di ‘Back In ‘79’ è una sorta di tributo ai Saxon che furono, ci sono dei passaggi che mi ricordano un disco come ‘Denim and Leather’, decisamente energico e con dietro un gran muro di chitarra”.
Quanto c’è di autobiografico in una canzone come ‘Ballad of the Working Man’
“Moltissimo, perché non ho mai rinnegato le mie radici. Sono figlio della classe operaia, sono stato io stesso un lavoratore prima di diventare un musicista, e non me ne vergogno. Dedicare una canzone alla classe operaia era un atto dovuto, e sono felice di averlo fatto in un album così importante per noi”
Una volta il metal era considerato un genere per la classe operaia. Pensi sia ancora così o che abbia cambiato dimensione nel corso degli anni?
“E’ cambiato tutto, radicalmente. Oggi il metal è un genere per tutti, ai nostri concerti vedi ragazzi di ogni estrazione, il rock non è più un genere di rottura come poteva essere negli anni Settanta, quindi non si rivolge più ad un unico ceto sociale. In alcuni casi grazie alla televisione determinati stili sono anche diventati di moda, quindi si è messo ad ascoltare metal chi solitamente manco sapeva cosa fosse. Come Saxon siamo sempre stati una band della working class, lo siamo tutt’ora e siamo fieri di esserlo”.
Dopo 35 anni di carriera, che significato ha per te la musica? Inizialmente era un hobby, ora è la tua vita, ma il tuo modo di vederla è mutato in tutto questo tempo?
“La musica è un piacere che deve essere condiviso con gli altri. Non abbiamo mai fatto musica per noi stessi, l’abbiamo fatta per i nostri fan. In questo ci consideriamo dei privilegiati, perché possiamo fare una cosa che ci piace, come suonare e comporre musica, per poi condividerla con chi ci segue”.
Se ti guardi alle spalle, qual è il tuo più grande rimpianto?
“Rimpianti ce ne sono sempre, la storia di un gruppo è lastricata di cose che non sono andate per il verso giusto: cambi di line-up, produttori non all’altezza, label non sempre impeccabili… però con il passare del tempo ho avuto modo di convincermi che se siamo ancora qui è perché siamo stati più forti delle avversità, anzi, tutti questi ostacoli ci hanno resi ancora più forti e coesi. Ricorda che è la difficoltà che fa una band, non i dischi venduti o le posizioni in classifica”.
Secondo te, visto le condizioni della scena contemporanea, è ancora possibile per una giovane band ripercorrere quanto fatto dai Saxon anche in quanto a longevità, o ormai la vita di una band è limitata nel tempo?
“Certo che è possibile, almeno, io ci credo ancora. Un gruppo come gli Airbourne ha tutte le carte in regola per diventare un’icona del rock. Molti li considerano solamente gli Ac/Dc più veloci, io vedo in loro una grandissima band capace nel giro di tre dischi di diventare sempre più grandi e di migliorare a vista d’occhio. Sanno comporre ottime canzoni e alla gente piacciono, perché sono spontanei, quindi non mi stupirei di trovarli in circolazione ancora per molti anni”
In estate prenderete parte all’ “Epitaph Tour” con Judas Priest e Motorhead. Come vedi questo evento?
“Che dire? E’ fantastico… ma allo stesso tempo è triste sapere che è il tour d’addio dei Judas Priest. Anche se, nel mio intimo, spero sempre che ci ripensino, perché secondo me hanno ancora moltissimo da dare alla musica. Il loro ultimo disco, ‘Nostradamus’ a qualcuno non sarà piaciuto ma io l’ho trovato eccellente. Non so proprio perché abbiano preso questa decisione, forse sono solo stanchi, perché la forma è ancora ottima”