Helloween – A kind of magic
Il 12/05/2003, di Fabio Magliano.
Volare sino a Tenerife per scambiare due chiacchiere con Michael Weikath ne è assolutamente valsa la pena. Mezz’ora passata con il chitarrista degli Helloween non è mai banale, soprattutto quando c’è da parlare dell’atteso, nuovo ‘Rabbit Don’t Come Easy’ ed esprimere giudizi su tutto ciò che lo circonda. Ed allora ce n’è veramente per tutti, dagli ex compagni di battaglia agli Stratovarius sino ad arrivare ai “pirati informatici”.
E finalmente è giunto anche il momento del varo degli Helloween targati 2003, o “Helloween MK 5” volendo utilizzare una definizione decisamente più suggestiva. Dopo il divorzio non senza aspri strascichi da Grapow e Kusch, dopo mille vicissitudini che ne avevano minato tecnicamente il lavoro in studio, dopo una vertiginosa girandola di batteristi (uno ufficiale che non ha mai suonato con la band, uno semi ufficiale uscito dalla band praticamente prima di entrarci, uno non ufficiale che ha però suonato su quasi tutto il disco…) ‘Rabbit Don’t Come Easy’, senza dubbio il più travagliato degli undici album sin qui registrati dalle “Zucche di Amburgo” ha finalmente potuto vedere la luce. E sin dalle prime battute la volontà della band di voler dare un energico colpo di spugna su quanto fatto nell’immediato passato pare alquanto palese, quindi basta alle zoppicanti power-marcette del controverso ‘The Dark Ride’ e spazio ad una massiccia dose di schitarrate e ad un po’ di sana follia che, ormai, pare essere marchio di fabbrica del combo teutonico. Quella stessa stravagante follia incarnata in Michael Weikath, mai come oggi leader maximo della band, incontrato in un rilassato pomeriggio in quel di Tenerife. Il chitarrista tedesco tra un tic nervoso ed una sguaiata risata ha messo in tavola tutte quelle caratteristiche che lo hanno reso celebre, dall’orgoglio straripante al tenace attaccamento al lavoro sino a quella schiettezza che lo porta a esprimere giudizi taglienti su tutto e tutti senza peli sulla lingua.
Michael, ormai i giochi sono fatti ed indietro non si può più tornare. Il nuovo album è ultimato e presto sarà in circolazione. Quali sono i pensieri che affollano la tua mente in questo momento?
“Penso sia un grande album. Avevamo un casino di merda nella nostra testa prima di realizzarlo, ci facevamo mille problemi, mille dubbi, cose normali quando ci si rende conto di essere arrivati ad un lavoro cruciale per noi. E fortunatamente tutte cose che sono scomparse con la conclusione del missaggio del disco. Quando stai lavorando non passa secondo in cui la tua mente non venga assalita da dubbi: pensi, pensi, pensi e ti tormenti a non finire. Quando il disco è concluso, ti rendi conto che il gioco è fatto, nulla può più essere cambiato e allora tutto si acquieta. Ti confido una cosa: non sto dormendo moltissimo ultimamente, e questo è un buon segno, perché è l’adrenalina, è l’eccitazione a non farmi chiudere occhio. Era da molto tempo che non mi capitava di essere così fremente per un disco, spesso mi è capitato di lasciare scorrere tutto come fosse una semplice routine, invece in questo caso avvertiamo tutti la responsabilità che abbiamo addosso e siamo consapevoli del lavoro realizzato”.
Ma era così tanto il timore in voi, al momento di realizzare questo disco?
“No, non si trattava di paura o di preoccupazione; nella nostra carriera abbiamo inciso troppi dischi per permetterci di intimorirci ancora. Si trattava più che altro di eccitazione per lo scoprire cosa ci sarebbe stato dietro l’angolo per gli Helloween. Quando Mark Cross si è ammalato, ad esempio, o quando lo studio di registrazione dove stavamo lavorando si è allagato e Charlie (Bauerfeind, il produttore, N.d.F) non sapeva più dove sbattere la testa… non eravamo preoccupati, semplicemente ci siamo sentiti un po’ maledetti! No, i pensieri ai quali mi riferivo erano le scariche emozionali che hanno percorso il nostro corpo e la nostra mente durante la lavorazione del disco: il dispiacere per la malattia di Mark, la gioia per l’avere Mikkey Dee con noi ed il rammarico per aver potuto condividere questa avventura con lui per soli otto giorni… sentimenti umani, naturali quando si ha a che fare con altre persone, ma che non hanno nulla a che vedere con la paura”.
La vostra line-up è profondamente cambiata alla fine di un processo non certo semplice, ed il sound ne ha sicuramente risentito. Alla luce di questo, pensi sia lecito affermare che nel 2003 si è aperto un nuovo capitolo nella storia ormai ventennale degli Helloween?
“Spero proprio di sì. Assolutamente! Mi piace vedere questo momento della mia carriera come un nuovo capitolo che va ad incominciare, anche perché molto è cambiato rispetto ad un tempo, dal nostro modo di agire alla forma della line-up stessa. Non ci piace fare come alcune band celebri come e più di noi che ‘giocano’ a fare musica anche se ormai la musica non dice più nulla ai loro cuori. Noi amiamo suonare e ci piace divertirci, ci piace provare nuove idee e soprattutto non abbiamo paura di tornare sui nostri passi e correggere i nostri errori se ci siamo resi conto di aver sbagliato. Ci rendevamo conto che, quando abbiamo pubblicato ‘The Dark Ride’, c’era qualcosa che non andava, il meccanismo si era inceppato e non voleva saperne di tornare a posto, quindi non abbiamo avuto problemi a cambiare. Oggi siamo un team affiatato, ognuno è autonomo ma ognuno lavora per gli altri. Questo significa che nulla impedisce a me o ad Andi o a Marcus di dire la sua in merito a alcuni aspetti della band, però nulla potrà plagiare o tentare di sopire la personale attitudine di ognuno di noi. Prendi Sasha: si è unito da poco alla band, eppure ha avuto decisamente voce in capitolo per il nuovo disco. E’ un ragazzo che piace a tutti, a lui piace la band… ci vuole poco per creare una perfetta alchimia”.
Dopo quattordici anni ti sei trovato a suonare senza Roland al tuo fianco. E’ cambiato qualcosa nel tuo approccio alla musica e nel tuo coinvolgimento all’interno della band dopo la sua dipartita?
“No, non è cambiato molto. L’unica cosa di differente è che, oggi, ho al mio fianco un chitarrista come Sasha il quale tecnicamente è molto simile a me. Trovo, però, che finalmente gli Helloween possano contare su un ‘guitar team’ a tutto tondo, come sarebbe sempre dovuto essere ed invece non è mai stato con Roland. Lui non è mai stato interessato a sedersi con me a tavolino e a tirare giù qualcosa di nuovo con me, io ero aperto ad una collaborazione più profonda con lui, invece non si è mai fatto nulla. Certo, sul palco suonavamo le stesse cose e interagivamo con le nostre chitarre, ma all’esterno non siamo mai stati affiatati. Oggi io e Sasha lo siamo!”.
Quindi la vera, grande differenza in casa Helloween rispetto al passato è che, oggi, siete un ‘team affiatato’?
“Trovo che la dimensione attuale degli Helloween sia molto simile a quella dei nostri esordi, quando prima che musicisti eravamo tutti grandi amici. All’epoca quella dimensione umana si rifletteva nella musica che suonavamo, e la speranza è che si ritorni presto a quella condizione, visto che i presupposti ci sono tutti. Una cosa che mi incoraggia in questo senso, è il fatto che oggi, tutti i componenti degli Helloween hanno un buon bagaglio di esperienza alle spalle, siamo tutti estremamente sensibili e portati ad interagire con chi ci sta attorno. E questo è testimoniato da tutte le risate che ci stiamo facendo negli ultimi tempi. Ci sentiamo a tratti stupidi, ma va bene così. Se così non fosse, ci sarebbe qualcosa di sbagliato”.
‘Rabbit Don’t Come Easy’ è un titolo abbastanza buffo, insolito, o meglio, in linea con lo standard degli Helloween…
“L’idea per il titolo di questo disco è nata dal comune modo di dire ‘estrarre il coniglio dal cilindro’, una cosa difficile che solo i maghi sanno fare. Beh, noi con questo disco abbiamo cercato di estrarre il coniglio dal nostro cilindro, qui, con un nuovo tipo di produzione, con una nuova band, con un nuovo disco… e ti assicuro che tirare fuori questo coniglio non è stato assolutamente facile! Abbiamo avuto mille difficoltà a realizzare questo disco, ad un certo punto sembrava che tutto ci andasse storto, quindi un titolo come ‘Rabbit Don’t Come Easy’ ci è sembrato quasi inevitabile”.
Il ‘coniglio nel cilindro’ è sinonimo di sorpresa. Pensi che questo vostro ‘coniglio’ possa rappresentare una sorta di sorpresa per il vostro pubblico?
“Credo proprio di sì. Con il nostro management abbiamo discusso a lungo su quello che doveva essere il titolo del disco e si è deciso alla fine il migliore. Beh, una delle ragioni per le quali questo è il titolo perfetto, è anche perché questo disco rappresenterà una sorpresa per i nostri fan”.
Sorprendere? E’ questo che volevate al momento di registrare questo disco?
“Anche! Oggi mi viene da dire che tutti gli obiettivi sono già stati raggiunti, visto che ormai il disco è finito e quello che è fatto è fatto. L’ultimo passo è quello di far divertire la gente e di essere apprezzati anche da loro per quello che abbiamo fatto. Sarebbe un bel risultato per noi se i ragazzi arrivassero ad amare questo disco a tal punto da andarselo a comprare senza scaricarlo da internet come invece avviene nella maggior parte dei casi. In Africa è possibile che ci siano dei problemi con la reperibilità del disco e, quindi, il suo download potrebbe essere giustificato, ma per il resto del mondo stiamo lavorando con una label grande e preparata come la Nuclear Blast che consente al disco di essere sugli scaffali dei negozi di dischi in ogni angolo del mondo, quindi se volete ascoltarvi qualcosa prima andate pure in internet, ma poi, per piacere, se vi piace andatevelo a comprare!”.
La prima impressione avuta ascoltando ‘Rabbit Don’t Come Easy’ è che il sound sia meno “happy Helloween” che in passato, e maledettamente più aggressivo che il suo predecessore…
“Tutto è cambiato rispetto a ‘The Dark Ride”! Tutto è più aggressivo, però c’è anche tanta melodia alla base di questo disco… diciamo che gli elementi ‘happy’ del passato si sono ben fusi con il lato più oscuro degli Helloween. Prendi un brano come ‘Back Against The Wall’, è terribilmente dark, eppure ha una base melodica tipica della nostra produzione”.
A dire il vero mi riferivo in particolar modo a ‘Liar’, un brano talmente arrabbiato che potrebbe venire da pensare ad un attacco frontale verso chi non è più della partita…
“No, no, assolutamente! ‘Liar’ non è un urlo di rabbia, è una sorta di librazione, uno sfogo per tutte le tue frustrazioni, le tue energie mai liberate. E’ un salto nel vuoto senza timori, un ‘vaffanculo’ a tutto quello che ti ha limitato sino a quel momento, è il piacere di fare qualcosa che ti è sempre stata vietata”.
Ascoltando questo disco verrebbe da pensare ad una vostra spiccata propensione alla sperimentazione, basti pensare agli inserti modernisti di ‘Back Against The Wall’ o ai ritmi jamaicani di ‘Nothing To Say’…
“Non è sperimentazione, sono tutte cose che facevano parte del nostro bagaglio di conoscenze. La prima volta che ho ascoltato ‘Sound And Vision’ di David Bowie, al quale può essere ricondotto quello spirito di ‘Nothing To Say’, avevo sedici anni. Al tempo suonavo già la chitarra e mi piaceva riproporre questo tipo di sonorità. Era una cosa naturale e non mi è mai venuto da pensarmi sperimentatore. Gli esperimenti si possono fare quando si è ragazzini e non si sa da che parte si vuole andare, oggi tutto, anche la cosa più strana, ha una ragione ed una base solida. ‘Nothing To Say’ non è uno scherzo, non è nata da un’improvvisazione come si potrebbe pensare. E’ un brano con una sua struttura, ci ho lavorato su per due giorni e ho perso una notte per il suo arrangiamento… questo non è propriamente un esperimento”.
Sul disco è contenuta una canzone che si intitola ‘Never Be A Star’. Ti sei mai considerato una star del music business?
“No, mai. E’ una canzone dedicata a quelle persone che hanno una propria vita, hanno una casa, una moglie, i figli e pur non suonando in alcuna band hanno una forza ed una ricchezza interiore enorme. Sono quelle persone che Andi ama definire gli “eroi silenziosi di tutti i giorni”, quella gente che si batte ogni giorno per consentire alla propria famiglia di vivere nel migliore dei modi. Tornando alla tua domanda, non mi sono mai reputato una rockstar e non mi è mai piaciuto vedere nella musica e nel successo un modo per fare soldi. Per me la vera gratificazione è quando una persona sincera viene da me e mi dice ‘Amo quello che fai!’. Questa frase è ciò che più di ogni altra cosa ripaga i miei sforzi”.
Ora ci troviamo in quest’isola da sogno, ai ‘Mi Sueno Studio’. Qual è, oggi, il sogno di Michael Weikath?
“Il mio sogno è quello di riuscire a mantenere la pace all’interno del gruppo e, ovviamente, che la pace arrivi a regnare in tutto il mondo attorno a me. Questo è il mio sogno più grande, e poi, ovviamente, spero di poter continuare a fare quello che già sto facendo per altri venti o trent’anni, soprattutto ora che ho ritrovato il mio equilibrio. La gente dica cosa vuole, ma ‘The Dark Ride’ non è un disco degli Helloween, non eravamo noi, è un buon album inciso da un’altra band… se penso a quel periodo mi viene in mente unicamente una profonda depressione e una grande difficoltà a divertirmi suonando. E’ stato un vero incubo, credimi, e ora che è finita è stata una liberazione”.
Visto che in molti ti riconoscono come il leader indiscusso degli Helloween, perché hai permesso che questo incubo di concretizzasse?
“Che ti devo dire? Tutto ciò che è stato fatto, per ‘The Dark Ride’ come in passato, aveva precise motivazioni alla base. Prendi ‘Chameleon’: è un buon disco, ma a rovinarlo è stata una produzione non all’altezza, però eravamo su major e lo abbiamo dovuto fare. Per ‘The Dark Ride’ la situazione era un po’ diversa. Non mi piaceva la produzione, però ho dovuto accettarla, non mi piacevano alcune cose del disco, ma ho dovuto accettarle per rispetto degli altri, ma quando la situazione si è fatta troppo pesante, l’unica cosa che ho potuto fare è stato cambiare, senza rimorsi né ripensamenti”.
Michael Weikath è dipinto dai più come una sorta di “tiranno”. Sei ancora ai ferri corti con quelle persone che ti hanno attaccato in passato, o stai cercando di riportare la pace anche con loro?
“Rispetto Kai Hansen perché è stato parte importante della mia vita artistica e mi piace quello che sta facendo ora con i Gamma Ray, rispetto Michael Kiske, come ho rispettato la sua scelta di intraprendere una strada che lo avrebbe portato lontano dagli Helloween: ha una sua identità artistica che ha voluto coltivare e questa è stata una decisione da rispettare. Io voglio essere amico di tutti, se mi è concesso. Ma spesso non mi è concesso. E’ questo il problema. Nelle due decadi passate ho mostrato la mia attitudine, e questo ha dato fastidio a molte persone, quelle stesse persone che oggi mi considerano un grandissimo stronzo. E forse è giusto che si così, però io negli anni sono cambiato, penso di essere maturato e di aver smussato alcuni angoli del mio carattere, ma questo non sempre mi viene riconosciuto”.
Hai avuto modo di ascoltare i due ‘Keepers Of Jericho, i tributi agli Helloween realizzati dalla Arise?
“Ho solo sentito il primo. Onestamente, non mi piacciono i tribute album, ma per l’idea che vi è alla base. Molti manager li vedono come un modo di promuovere le loro band utilizzando il nome di un’altra. A livello di contenuto, mi è piaciuta molto la versione dei Secret Sphere di ‘How Many Tears’ perché penso sia stata ripresa con lo spirito originale della band, soprattutto nel cantato, mi è piaciuta ‘Guardians’ fatta dai Rhapsody, ed è stata positiva anche la versione di ‘Halloween’ dei Dark Moor. D’altro canto mi sembrava ancora prematuro un tributo simile agli Helloween, per il semplice fatto che la band ha ancora troppe cose da fare e da dire per poter ricevere un simile omaggio”.
Ok, il tempo stringe. A te il compito di chiudere nel migliore dei modi l’intervista…
“Voglio salutare tutti i ragazzi italiani e esprimere la mia speranza di poter tornare presto a suonare ad un festival italiano, questa volta, però, dopo gli Stratovarius! L’ultima volta che siamo venuti al Gods Of Metal ci hanno piazzati prima di loro, e non è stato giusto, basti pensare che, se non ci fossero stati gli Helloween, forse non sarebbero nati neppure gli Stratovarius. Hanno preso molto da noi, ed ora è giusto che anche a noi venga riconosciuto il posto che ci spetta!”.
Carezza e frustata. Eh già, Michael Weikath è proprio tornato!