Helloween – L’isola dei conigli
Il 12/03/2003, di Fabio Magliano.
‘Rabbit Don’t Come Easy’ è il titolo del nuovo album degli Helloween in uscita a maggio. E proprio per ascoltarlo in anteprima Metal Hammer è stato invitato a “casa Deris” in quel di Tenerife per una stuzzicante listening session. Due giorni all’ombra di una palma in un clima meravigliosamente primaverile? Non proprio, eppure le palmette, verrebbe da crederlo, hanno fatto uno strano effetto sulle zucche di Amburgo!
“A Fa’, questa volta nun me poi dì de no! Te toccano j’Helloween, stai sempre a rompe, sta’ volta a Tenerife ce vai te!” Adoro i metodi di persuasione del grande capo! Non gli si può proprio dire di no e poi… massì, un week end alle Canarie è proprio quello che mi ci vuole per rilassare i nervi, una capatina in studio per controllare che cosa stanno combinando gli Helloween e poi via in spiaggia, ‘na palmetta e ‘na barchetta, ad immergermi in questa insolita “primavera” atlantica.
…Ridi mio caro, ridi che la mamma ha fatto gli gnocchi! A mano a mano che si avvicina il giorno della partenza, infatti, quella che doveva essere una comoda gita di piacere va ad assumere i contorni di un estenuante tour de force dal quale, uscirne vivi, sarà un vero miracolo. A parte la disumana partenza (ore 7 da Milano) dopo una notte insonne e un arrivo sull’isola fissato sette ore dopo il decollo, a parte l’inquietante presenza di un collega teutonico (che per rispetto chiameremo “Helmut”) che accompagnerà tutta la truppa per tutto il periodo di permanenza in Spagna con i suoi logorroici discorsi, quello che taglia le gambe è proprio il clima isolano, dipinto come un trionfo primaverile e ben presto tramutatosi in due giorni di violenti acquazzoni, seppur di breve durata. Ma andiamo per ordine. Arrivati sull’isola il tempo di fare la conoscenza della simpatica Lydia Deris, moglie di Andi e novella Sharon Osbourne per quanto riguarda la carriera del marito che è già tempo di levare le tende, direzione “Mi Sueno Studio”, ovvero l’hollywoodiana residenza dei Deris nonché sede degli studi di registrazione dove ‘Rabbit Don’t Come Easy’ ha visto la luce. Ad accoglierci Markus, Andi e Michael estremamente euforici e la prima sorpresa della giornata: il batterista Marc Cross, messo a riposo dalla mononucleosi (su disco le parti di batteria sono state registrate dal Motorhead Mikkey Dee) è già stato silurato ed il suo posto è stato preso da Stefan Schwarzmann, già con Accept e Running Wild. Il tempo della photo session di rito e di un rapido spuntino tra salsine locali e bignè alla crema, e giunge finalmente il momento dell’atteso ascolto in anteprima dell’album.
‘Rabbit Don’t Come Easy’ al microscopio
‘Just A Little Sign’: L’album si apre con una classica (termine in questo caso, però, da prendere con le molle) Helloween’s song dall’incidere potente giocato su un cantato abbastanza aggressivo e su chitarre decisamente serrate. La struttura è quella della classica power track destinata a crescere nel finale sino a sfociare in un chorus da stadio, peccato un ritornello non propriamente travolgente, almeno non all’altezza di quelle canzoni che hanno reso grandi le zucche di Amburgo.
Voto: 4
‘Open Your Life’: Con la seconda traccia iniziano a farsi più nitide le intenzioni di Weikath e soci. ‘Rabbit Don’t Come Easy’ deve cancellare quanto fatto con ‘The Dark Ride’ e lasciare per un istante da parte il tradizionale “happy happy Helloween!” che ha accompagnato buona parte del songwriting della band. Basta quindi con le song immediate e dai facili refrain e un occhio di riguardo ad atmosfere più arrabbiate ed estremizzate. In questo caso da rimarcare il gran lavoro svolto da Weikath e dal drummer Mikkey Dee e l’ottima performance vocale di Deris, a tessere i contorni di un brano non immediato, estremamente aggressivo con un’unica apertura nel finale dove passaggi sinfonici si trovano a interagire con il power metal più classico e potente.
Voto: 4
‘The Tune’: Primo passaggio a vuoto della band in occasione del primo brano scritto interamente da Weikath, per l’occasione novello…Kai Hansen! ‘The Tune’ è infatti una solida metal song, peccato i non troppo velati richiami alla più recente produzione dei Gamma Ray. Un caso? Come già successo in altri brani, nel suo sviluppo questo brano va ad assumere i contorni di un vero inno con, unico neo, il chours che invece di esplodere in tutta la sua potenza, implode malamente , privando così questo brano di un ritornello memorabile indispensabile per farlo decollare.
Voto: 3
‘Neve Be A Star’: Gli Helloween si riprendono immediatamente sfornando quello che è uno dei piatti forti dell’album e, sarà un caso? Uno dei brani più vicini alla produzione passata della band. ‘Never Be A Star’ è forse la più ‘Helloween’ delle canzoni del disco, nata in sordina ed esplosa in un refrain veramente avvolgente destinato finalmente a rimanere in testa al primo ascolto, con quell’insolito break formato “Rock In Rio” a renderla ancora più anthemica sul finale e destinandola a riscuotere successo soprattutto in chiave live.
Voto: 5
‘Liar’: Ecco l’altro masterpiece del disco. Se avevate sospirato con ‘Push’, non potrete non amare ‘Liar’, una delle canzoni più violente composte da Deris e soci. Chitarra e batteria trascinano una cavalcata che, sin dalle prime battute, si rivela inarrestabile. Deris sfodera una prova maiuscola tirando fuori una grinta ed un’incazzatura impressionante mentre Weikath, dopo aver costruito uno spesso muro di suono per tutto lo svolgimento del brano, si apre sul finale estraendo uno dei suoi classici assoli a dare un tocco di tradizionalità ad un brano non certo avaro di sorprese, vuoi per la sua potenza, vuoi per i richiami al prog inseriti qua e là ma sempre con sapiente intelligenza, vuoi per una compattezza sonora mancata nel precedente lavoro ed ora finalmente ritrovata.
Voto: 6
‘Sun 4 The World’: In questo brano emerge l’amore per l’hard rock della band teutonica, amore comunque celato sotto colate di chitarre pesanti e spruzzate orientaleggianti. E’ infatti all’insegna dell’Oriente che si apre questa song, portato però presto a lasciare il posto ad un incidere marziale destinato a stemperarsi solo in occasioni di strani break quasi soffusi, preludio dell’esplosione del refrain ancora una volta estremamente arioso sebbene mai ruffiano.
Voto: 5
‘Don’t Stop Being Crazy’: E’ l’unica ballad (o presunta tale) contenuta nel disco, sicuramente una delle canzoni più interessanti. Lo spirito, sin dalle prime battute, si rivela altamente beatlesiano, con uno svolgimento in crescendo che porta la song ad ispessirsi senza però mai perdere la dolcezza di fondo. Un brano ricco di alti e bassi umorali, nella quale ad una base sonora tipicamente “britannica” fa da contraltare la prova di Weikath che, con la sua chitarra, arriva a dare il giusto tiro a questo brano sino a renderlo una sorta di lento anomalo.
Voto: 5
‘Do You Feel Good’: Secondo brano scritto interamente da Weikath e seconda song da accogliere con un punto interrogativo. L’inizio non è dei migliori, con un’apertura estremamente moderna che potrebbe far storcere il naso a più di un purista, quindi situazione che torna sui binari del più classico power dalle tinte moderne, con sprazzi di luce in un contesto abbastanza cupo ed un chorus ancora una volta con il freno a mano tirato e sorta di palla al piede per il brano che stenta a decollare.
Voto: 4
‘Hell Was Made In Heaven’: Un altro degli hit del disco parte cadenzato, quasi in sordina, però ben presto ci si rende conto che è solo un fuoco di paglia. Il brano in questione, infatti, acquista via via velocità sino a tramutarsi in una classica Helloween’s song con tanto di chorus immediato senza però andare mai ad intaccare la sua pesantezza di fondo. Weikath e Mikkey Dee danno vita ad un muro di suono formato caterpillar, per una volta i fronzoli vengono lasciati da parte e si bada più alla sostanza con risultati sicuramente felici. Unica concessione al “classicismo”, il lungo assolo di chitarra finale, nato dall’oscurità e divenuto tagliente con l’avvicinarsi al suo compimento.
Voto: 5
‘Back Against The Wall’: Come reagireste se vi dicessi che gli Helloween ascoltano industrial? Ok, forse non arriveranno mai a scrivere un brano simile, però l’intro di questa canzone ha un che di moderno che può far tremare i “duri e puri”. E’ senza dubbio uno dei brani più strani contenuti nel disco ma questo, come vedremo, è uno dei leit-motiv di ‘Rabbit Don’t Come Easy’. La struttura non è certo semplice, con un’apertura modernista rotta dall’esplosione della batteria alla quale fanno seguito riff cupi e pesanti a tessere melodie in un certo senso horrorifiche, sulle quali quasi stona il cantato soffuso di Deris. Si tratta però di un lampo perché con l’inserimento di Weikath la canzone cresce, cresce la sua rabbia e deflagra in un chorus trascinante che ne mette in luce tutta la potenza. Un brano ricco di luci ed ombre, potenza e melodia, modernità e classicità che mettono in evidenza tutto il coraggio della band.
Voto: 5
‘Listen To The Flies’: Una song interlocutoria dopo l’esplosione precedente. In un certo senso si torna alla normalità, con Weikath e Deris che subito partono a razzo e quindi rallentano in prossimità del chorus che, in questo modo, risulta evidentemente frenato. Va meglio al secondo giro quando, dopo un insolito break con la melodia della chitarra a duettare con il muro sonoro eretto da basso e batteria, il brano lievita divenendo più coinvolgente. L’impressione è però quella della ripetitività soprattutto da parte del bizzoso chitarrista.
Voto: 4
‘Nothing To Say’: Ed eccola qui la pietra dello scandalo, la canzone che dividerà i fan di tutto il mondo! Il brano parte infatti sulla scia di un hard rock estremamente potente con ampi riferimenti ai Led Zeppelin poi…arriva il refrain e Deris si trasferisce in Jamaica trasformando ‘Nothing To Say’ in una reggae song. Che le palmette dell’isola gli abbiano fatto uno strano effetto? Nel complesso la canzone è anche piacevole, certo questo miscuglio di stili abbinati agli Helloween sa molto di stonato. Che mattacchioni!
Voto: ?
Valutazione finale:
Il disco rinnega quasi totalmente quanto fatto con il precedente ‘The Dark Ride’ e va ad abbracciare, con le dovute proporzioni, quanto fece la band con ‘The Time Of The Oath’. Un disco nel quale grande importanza riveste la sperimentazione, spesso a scapito di quelle facili melodie che hanno fatto grande, negli anni passati, la band di Amburgo. Certo, la valutazione complessiva dell’album non è facilitata dall’unico ascolto concessoci, quello che pare chiaro da subito è che manchi quell’hit in grado di rimanere stampata in testa al primo ascolto (la stessa ‘Never Be A Star’, la traccia più catchy del disco, non arriva a “competere” con le varie ‘Power’, ‘I Can’ o ‘Mr. Torture’), mancanza bissata da una certa varietà stilistica spalmata attraverso l’ora di durata del disco. I suoni sono estremamente solidi e pesanti, il drumming di Mikkey Dee non fa rimpiangere l’ottimo Uli Kusch e lo stesso Deris arriva a sfornare una prova eccellente, passando con disinvoltura dalle parti più serrate ed incazzate a quelle più tipicamente power. Di Weikath che dire? Ora che l’ingombrante Grapow è stato fatto fuori la scena è completamente sua, non a caso ogni brano ospita un lungo assolo di chitarra, in alcuni casi anche poco consono al contesto nel quale è stato inserito. In generale, comunque, un lavoro buono, tra i più arrabbiati senza dubbio della discografia helloweeniana, ideale album per chi, ‘The Dark Ride’, proprio non riusciva a digerirlo.
L’armonia ritrovata
Terminato il pre-ascolto giunge in momento delle interviste. E’ un Michael Weikath incredibilmente rilassato quello che si presenta ai giornalisti accorsi per l’occasione e, nonostante un vistoso tic nervoso all’occhio sinistro, dichiara tutta la sua gioia per una condizione di serenità finalmente ritrovata “Prima eravamo un gruppo di individualisti e la nostra musica ne risentiva. Oggi siamo una squadra, siamo amici prima di tutto e, personalmente, mi sembra di rivivere i primi anni della band, prima ancora che realizzassimo ‘Walls Of Jericho’. E’ una condizione stimolante”. Tanto stimolante da spingere la band a non tirarsi indietro neppure quando ci si trova a dover effettuare scelte rischiose come quella di incidere una canzone reggae… “Quello non è un rischio, i nostri fan sanno che non amiamo ripeterci, e poi è solo una canzone, non un album intero…Ci piace tutta la musica e, quando abbiamo visto che quello stacco stava bene nel contesto del brano, non abbiamo pensato più di un minuto prima di inserirlo!”.
La serata si chiude in un caratteristico ristorante di Puerto De La Cruz, con “mamma Deris” a fare gli onori di casa mentre un bizzarro collega spagnolo si diverte a cimentarsi in sfottò da ultrà con l’undicenne “baby Deris” (tra Barcellona e Real Madrid, si sa, non corre buon sangue) ed un audace scribacchino tedesco sfida l’ira di mr. Weikath presentandosi a cena con una maglietta dei “traditori” Masterplan (come dire: presentatevi in Iraq sventolando una bandiera a stelle e strisce…). Il giorno seguente è l’ennesimo acquazzone (in un anno sono sei le settimane di pioggia alle Canarie…e ti pareva che me le perdevo!) a salutare la nostra partenza. Ed io che già mi immagino il capo al mio ritorno “A Fa’, te sei divertito? Er bagnetto? Le palmette?”. Taci capo, taci!