System Of A Down – Toxic Rain
Il 04/09/2001, di Fabio Magliano.
Sono note acide quelle che ci piovono addosso durante l’ascolto di ‘Toxicity’, la nuova fatica discografica dei fenomenali System Of A Down, note figlie di un malessere radicato nella cultura americana e di una pallottola impazzita che, rimbalzando da stile a stile, ha dato vita all’originale sound della band di origine armena. Il bassista Shavo ci conduce nell’affascinante e contorto mondo di una band sulla rampa di lancio
Una band destinata a lasciare, almeno in chi ne ha seguito la giovane carriera nella sua globalità, un fastidiosissimo gusto di splendido incompiuto. Questo sono i System Of A Down, band capace di shockare il mondo tre anni or sono con un devastante, omonimo debut album figlio di mille stili differenti compresi in un ideale ventaglio sonoro che, partendo dalla world music, arriva sino al death oltranzista di slayeriana memoria, ma allo stesso tempo incapace di cancellare quell’ingombrante punto interrogativo che veniva a formarsi ogni qualvolta si esibisse dal vivo. A Milano, nella loro sino ad ora unica visita italiana di spalla a Slayer e Pantera, non avevano certo entusiasmato, così come aveva destato perplessità il loro show al Dynamo 1999, una situazione spiacevole, soprattutto per chi si recava a vederli con ancora nelle orecchie i mirabolanti virtuosismi sonici sfoggiati su disco. Maturando e facendo esperienza, però, a questo inconveniente si dovrebbe ovviare, e anche presto. Speriamo. Già, speriamo, perché “gettare alle ortiche” anche un disco come il nuovissimo ‘Toxicity’ sarebbe un vero delitto. Il gruppo di origine armena è infatti riuscita a realizzare un altri piccolo gioiellino destinato a segnare il passo nella scena metal moderna, grazie anche a tante gemme come la pungente ‘Prison Song’, l’affascinante ‘Science’ e la devastante title track. Nostro interlocutore nella chiacchierata che segue il bassista Shavo, uno dei musicisti più affabili e disponibili tra quelli che potrebbe capitare ad un giornalista di intervistare.
Allora Shavo, puoi spiegarci che cosa è successo nel periodo che separa i vostri due lavori in studio?
“Non è successo nulla di veramente rilavante, principalmente abbiamo ‘vissuto’ lo studio al 100%: rehearsal studio, recording studio, mixing studio…abbiamo fatto la solita trafila che tocca ad una band che si appresta a registrare un nuovo album prima di venire catapultata ancora una volta on the road, proprio come siamo noi adesso. Nulla è cambiato dal nostro precedente lavoro ad oggi, se si eccettua il fatto che ho lasciato la mia famiglia e sono andato a vivere da solo! Se vuoi invece vederla sotto un punto di vista musicale, allora ti dico che qualcosa è cambiato, perché oggi siamo molto più maturi e il nostro sound è cresciuto rispetto al debut album. Come persone, però, non siamo affatto cambiati: abbiamo lo stesso rapporto con i nostri genitori, siamo amici come prima e facciamo le stesse cose che facevamo quando ancora dovevamo incidere il nostro primo album. Per molti ragazzi il successo è sinonimo di follia e si sentono autorizzati a fare qualche pazzia a tutti i costi: questa cosa non vale, però, per noi”.
Scusa se insisto, ma tre anni tra due dischi, soprattutto per una band giovane e rampante come i SOAD, paiono veramente tantini…
“Non c’è nulla di strano in tutto questo: non siamo certo usciti di scena dopo il primo disco, abbiamo suonato molto, siamo stati a lungo in tour e ci siamo esibiti in ogni angolo del globo. Un’altra cosa importante, poi, è il nostro desiderio di non far mai uscire qualcosa giusto per coprire qualche ‘buco’ contrattuale, vogliamo che tutto quello che rechi il marchio SOAD sia perfetto, quindi preferiamo passare un’eternità su ogni singolo brano piuttosto che pubblicare qualcosa di raffazzonato. E’ per questo che credo che ogni canzone che compone ‘Toxicity’ rappresenti il massimo che la band è in grado di dare. Troppi album, oggigiorno, sono composti da una buona canzone, il singolo, e da molta spazzatura, mentre questo lavoro riesce a mantenere la giusta tensione dalla prima traccia sino alla quattordicesima. Può sembrare forzato come esempio, ma ‘Toxicity’ può essere accostato ad un qualsiasi disco dei Pink Floyd. Quante canzoni conosci di questa band? Tre, quattro, le più famose, eppure ogni singolo disco dei Pink Floyd è composto da song grandissime, di una bellezza ed un’intensità inarrivabile. Ecco, così può essere visto ‘Toxicity’, un disco del quale arriverà alla gente la bellezza del singolo, ma potenzialmente composto da quattordici brani di egual valore”.
Hai accennato in precedenza alla maturazione che ha subito la vostra musica. Puoi spiegarci nel dettaglio in cosa si concretizza questo mutamento?
“Si concretizza nel fatto che siamo finalmente riusciti a individuare quelli che, secondo noi, erano i passaggi zoppicanti, sia da un punto di vista lirico che sonoro. Quando siamo usciti allo scoperto, nel 1998, eravamo al nostro debutto discografico, l’album è stato accolto bene dal pubblico ma, ad un ascolto più approfondito, si capiva che era opera di debuttanti, il sound era grezzo e alcuni passaggi confusi. Ora abbiamo cercato di esasperare e curare al meglio i due aspetti della nostra musica, rendendo più melodiche le parti che richiedevano melodia e più pesanti i passaggi già di per sé heavy. In questo modo i nostri brani hanno acquisito in fluidità e alcuni “spigoli” che erano emersi nel lavoro precedente, sono stati appianati. Da un punto di vista lirico, invece, non ci siamo fossilizzati su di un unico metodo compositivo, ma abbiamo collaborato tutti alla stesura dei testi, acquisendo così una maggiore varietà stilistica, perché ognuno di noi ha uno stile differente nello scrivere una canzone. Serj, ad esempio, utilizza molto le metafore. Le parole che utilizza spesso non riconducono direttamente a quello che ha in testa, ma è possibile arrivarci solamente dopo averle decifrate. Daron, invece, è maledettamente più diretto, e ogni sua parola è destinata a colpirti in pieno volto: ‘Questo è, e così deve essere!’”.
Per la stesura dei brani che compongono ‘Toxicity’ avete approfittato di alcune pause della vostra attività live o avete frenato questa proprio per dedicarvi al disco?
“No, per realizzare ‘Toxicity’ ci siamo fermati, anche perché non volevamo avere altre cose per la testa. Le canzoni, però, sono nate in tour e le prime idee hanno iniziato a vedere la luce già molto tempo addietro. Più o meno la nostra vita andava avanti così: partenza per il tour – concerti – tutti a casa – prove assieme – nuovo tour – nuovi concerti – nuovamente a casa – nuove prove assieme…come vedi la musica ha occupato ogni singolo istante delle nostre vite negli ultimi tre anni. E ogni qualvolta ci trovavamo a suonare assieme affinavamo quelle idee nate on the road. Quanto abbiamo poi capito che era il momento giusto, abbiamo dato un drastico freno alla nostra attività live e ci siamo buttati anima e corpo nella realizzazione del disco. Pensa che, alla fine, ci siamo trovati ad avere più di cinquanta canzoni tra le quali scegliere per inserirle nell’album, quindi capisci come mai siamo tutti orgogliosi e sicuri della potenzialità di questo disco”.
Ma ci deve pur essere un brano che, pensate, fotografi a pieno maturazione artistica attuata con questo ‘Toxicity’?
“Assolutamente no! Questo album è composto da quattordici canzoni ma potrebbe benissimo essere visto come un’unica canzone lunga un album intero! Potevamo registrare una decina di album con tutte le canzoni e le alternative versione realizzate nelle session di ‘Toxicity’, eppure ne abbiamo scelte sono quattordici, il meglio, quelle realmente in grado di dire qualcosa e dirlo bene. Sceglierne solo una significherebbe svilire l’intero lavoro”.
Puoi spiegare almeno il significato di ‘Toxicity’? Un titolo forte, che assieme ad altri titoli di song che compongono l’album lascia trasparire concetti forti, estremamente arrabbiati alla base di questo lavoro…
“Hai ragione, quello di ‘Toxicity’ è il concetto al quale è ancorato l’album intero, perché questo termine racchiude molti significati: è il titolo di una canzone, descrive uno stato e indica un luogo, la “città tossica”, come si capisce dal gioco di parole…molti significati, quindi, proprio come quelli di ogni canzone dell’album. Noi attraverso quello che suoniamo lanciamo dei messaggi, che però vanno interpretati al meglio. C’è comunque una stretta connessione tra questo titolo, questo album e il luogo da cui veniamo. Noi veniamo da Hollywood, la copertina del disco richiama la celebre montagna di Hollywood e il titolo dell’album può essere riconducibile a questa città. Tu dici Hollywood e pensi al cinema, alla bella vita, ad un mondo glamour, mentre se fossi cresciuto in questi luoghi, ti renderesti conto che non è tutto oro quello che luccica. Hollywood è anche tanta droga, gang, senzatetto, bombe per strada e molta violenza. Quello che esteriormente sembra bello, all’interno è marcio, e questo vale anche per altre situazioni della nostra vita, magari a parti invertite, quindi da questo messaggio, dall’invito ad andare a fondo in tutto quello che ci troviamo davanti, è partita la scintilla che ha fatto nascere questo disco”.
Hai accennato ai tre anni passati in tour: qual è stato il principale insegnamento che avete tratto da questa esperienza?
“Abbiamo imparato a cambiare il nostro orientamento a seconda delle situazioni. Ti spiego: nel corso dei nostri tour ci siamo trovati a suonare al fianco di band diametralmente opposte da noi e, di conseguenza, a fronteggiare un pubblico molto diverso dal nostro. Con gli Slayer, ad esempio, ci siamo trovati di fronte fan che volevano gli Slayer, solo gli Slayer, nient’altro che gli Slayer e tutto il resto era merda! Inizialmente abbiamo avuto grandi problemi di approccio, perché noi non piacevamo a loro eppure abbiamo continuato a muoverci in una direzione univoca. Poco per volta, però, abbiamo capito che, se volevamo far breccia nel pubblico, dovevamo andargli incontro: ti piacciono gli Slayer perché sono potenti? Beh, ti dimostriamo che noi sappiamo essere più potenti di loro! E così, poco per volta, abbiamo visto la mente del pubblico aprirsi di fronte a noi. E’ stata una soddisfazione grandissima!”.
A proposito degli Slayer: a questo tour è legata la vostra precedente venuta in Italia. Cosa vi è rimasto di questa esperienza?
“Ricordo che ho conosciuto due ragazze ed è stato fantastico! Credimi, non voglio passare per una di quelle rockstar che vanno in giro a sfoggiare le loro conquiste. In Italia ho conosciuto due ragazze splendide e assieme abbiamo trascorso dei momenti indimenticabili, che vanno ben oltre al semplice atto sessuale. Loro non parlavano inglese, noi non parlavamo italiano, eppure ci siamo trovati subito in sintonia, non erano indispensabili le parole per comprenderci, bastavano gesti, sguardi…una situazione molto intensa che porto sempre con me nella mia mente con grande gioia. Posso anche dirti che il pubblico è stato grandioso, che noi ci trovavamo a tenere uno dei nostri primi show e che eravamo un po’ impauriti, però questo è il ricordo più dolce che conservo dell’Italia”.